prima guerra mondiale i consumi si sono ridotti (il tasso di crescita dei consumi è divenuto minore di zero), ed in
Italia solo la componente esportazioni nella domanda aggregata ha contribuito ad attenuare gli effetti della
recessione.
Come mostrato nel grafico 1.2, l’iniziale periodo di incremento nei tassi di disoccupazione durante la metà
degli anni Settanta era associato ad un tasso di inflazione crescente - e non decrescente - suggerendo la presenza
di shocks negativi dal lato dell’offerta piuttosto che della domanda, sebbene la risposta convenzionale dettata
allora dal pensiero macroeconomico avrebbe suggerito che le cause fossero da imputare o ad un aumento del
tasso di disoccupazione di equilibrio verificatosi nelle nazioni appartenenti alla Comunità Europea, o agli effetti
temporanei derivanti da uno shock negativo dal lato della domanda, o, infine, ad una combinazione di entrambe.
Inoltre, mentre ovunque si registravano simili tassi di inflazione nel corso dei primi anni Ottanta, il processo
disinflazionistico durante gli anni successivi si è associato ad un maggior incremento nei tassi di disoccupazione
nelle nazioni appartenenti alla Comunità Europea e negli Stati Uniti, piuttosto che nelle altre nazioni. Infine, a
differenza di quanto avvenuto negli Stati Uniti, il tasso di disoccupazione nella Comunità Europea non è tornato ai
precedenti livelli dopo che il tasso di inflazione si era ristabilizzato su tassi minori, suggerendo l’ipotesi di un
incremento nel tasso di disoccupazione di equilibrio.
A livello microeconomico, la tabella 1.1 riporta statistiche relative ai flussi di entrata e di uscita dalla
disoccupazione, espressa come proporzione rispettivamente del livello di occupati e di disoccupati tra il 1979 ed il
1988. Si nota che non sono stati i flussi in entrata nella disoccupazione ad essere aumentati nell’Unione Europea,
ma che si è dimezzata l’entità dei flussi di uscita, a differenza degli Stati Uniti. Scrive infatti, per quanto riguarda la
situazione italiana, Orioli (1998) “[…] E’ aumentata a dismisura l’area della flessibilità in entrata, spesso
mascherata con agevolazioni date a una formazione evanescente, perché è rimasta incrollabile la rigidità in uscita
[…]”.
“[…] Ciò implica che in Europa la probabilità di uscire dalla disoccupazione è decisamente minore che
altrove, che una volta entrati nella disoccupazione è difficile uscirne e che, infine, il turnover dei disoccupati è di
entità modesta […]” [Bean (1994)].
La stessa tabella ed il grafico 1.3 riportano le statistiche riguardanti la percentuale dei disoccupati di lungo
periodo, ossia di coloro che lo sono da un periodo superiore ai dodici mesi, sul totale dei disoccupati. Si osserva
che le percentuali di disoccupati di lungo periodo risultano molto variabili tra le diverse nazioni, mentre tutti i Paesi
mostrano simili valori percentuali relativi alla disoccupazione di breve periodo. Ciò risulta di fondamentale
importanza, in quanto mostra che la disoccupazione di breve periodo è caratteristica comune di tutte le nazioni,
mentre quella di lungo periodo sembra essere prettamente concentrata nell’Unione Europea.
In una interessante analisi anticonformista, l’economista Fitoussi (1996) ha affermato che né il progresso
tecnico, né il libero-scambismo mondiale, né la concorrenza dei nuovi Paesi industrializzati si rivelano sufficienti a
spiegare l’aumento della disoccupazione nell’Unione Europea: “[…] stretta nella morsa di una scelta drammatica e
apparentemente obbligata tra il riaggiustamento dei conti pubblici e l’incremento della disoccupazione – la più
grave dagli anni Trenta in poi – l’Europa è in preda all’ansia; politiche economiche troppo rigide, fondate su un
eccesso di virtù monetaria (cioè la disinflazione forzata) come unico e vincolante presupposto della costruzione
europea, hanno indotto a considerare il rallentamento della crescita economica, e la disoccupazione conseguente,
come un prezzo da pagare. La "tirannia finanziaria” che ne è derivata ha imposto tassi d’interesse troppo elevati,
con l’effetto di scoraggiare gli investimenti e di compromettere l’obiettivo del pieno impiego […]”.
Fonte di preoccupazione e oggetto di attenzione da parte dei responsabili di politica economica di quasi
tutto il mondo nel corso dell’ultimo decennio è quindi naturalmente divenuta la capacità del mercato del lavoro di
modificarsi nel tempo adattandosi ai mutamenti economici.
2. L’APPROCCIO BASATO SU UN MODELLO DI CONCORRENZA IMPERFETTA
SALARI-PREZZI
La letteratura empirica che tenta di individuare le possibili cause dell’elevata disoccupazione europea è
estremamente vasta ed articolata, con vari economisti che utilizzano diverse varietà e modelli econometrici, spesso
giungendo a conclusioni discordanti. “Ad oggi, alcune differenze sembrano essere più apparenti che reali,
giustificate dall’utilizzo di differenti ipotesi e assunzioni, mentre altre riflettono conclusioni che presentano diversità
sostanziali” [Bean (1994)].
Allo scopo di delineare alcune delle principali teorie e giustificazioni economiche dell’elevato tasso di
disoccupazione europeo, utilizziamo il modello teorico del mercato del lavoro elaborato da Layard, Nickell,
Jackman (1991), “[…] molto diffuso nella letteratura sull’argomento […]. Il motivo della scelta risiede nell’estrema
generalità dell’analisi. Esso innesta il conflitto distributivo nella tradizionale modellistica che utilizza lo schema
Domanda/Offerta, arricchendo l’analisi con l’introduzione di una serie di imperfezioni (concorrenza imperfetta,
scarsa mobilità dei fattori) e rigidità (nell’adeguamento di prezzi e salari.” [Baici, Lodovici (1995)].
I tre autori partono dalla considerazione che, quando la domanda aggregata si espande (almeno rispetto ai
livelli attesi più recenti), si assiste ad una riduzione della disoccupazione mentre aumenta la spinta inflazionistica.
Le imprese iniziano a contendersi i lavoratori sul mercato del lavoro favorendo la richiesta, da parte di questi ultimi,
di aumenti salariali. Tutto ciò comporta il rischio che si venga a determinare una forte spirale inflazionistica: salari
che aumentano più rapidamente portano naturalmente a tassi di crescita dei prezzi crescenti, i quali a loro volta
spingono i lavoratori ad avanzare ulteriori richieste di aumenti salariali, e così via. Questo meccanismo viene
definito “spirale prezzi-salari”
2
.
Il risultato empirico viene mostrato, per i Paesi appartenenti all’OECD nel loro complesso, nel grafico 1.4
(a). Questo mostra il livello di attività economica misurato dalla proporzione (destagionalizzata) della forza lavoro
occupata – in altre parole, del tasso di occupazione (destagionalizzato). Si osserva chiaramente la successione di
un forte periodo di brusca riduzione dell’occupazione seguita da un periodo di espansione nel corso degli ultimi
vent’anni.
Nel grafico 1.4 (b) è rappresentato l’andamento del tasso di inflazione: in ogni periodo di espansione
questa è aumentata, per ridursi in ogni periodo di recessione.
Infine il grafico 1.4 (c) mostra la relazione esistente tra tasso di occupazione (destagionalizzato) e
variazione annuale del tasso di inflazione. La relazione esistente tra queste due variabili è chiara. Tuttavia un tasso
di inflazione crescente può essere mantenuto e sostenuto solo tramite continue manovre di politica monetaria e/o
fiscale di tipo espansivo. Se esiste una politica fiscale stabile, con un salario nominale crescente ad un tasso
costante, un tasso di inflazione crescente provoca necessariamente un innalzamento del tasso di disoccupazione.
Successivamente, il raggiungimento di un tasso di disoccupazione elevato consente di bloccare la crescita del
tasso di inflazione, con la conseguente stabilizzazione sia del tasso di inflazione che del tasso di disoccupazione.
Il livello di disoccupazione al quale l’inflazione si stabilizza viene definito livello di equilibrio della
disoccupazione che, come sottolineano Layard, Nickell, Jackman (1991), non è correlato con il concetto di
equilibrio di pieno impiego, poiché rappresenta semplicemente lo stato verso il quale converge il sistema in seguito
a shock.
Tuttavia, come è stato precedentemente mostrato, la disoccupazione spesso necessita di lunghi periodi
temporali per ritornare al suo livello originale; inoltre non sembra essere vero che, una volta che la disoccupazione
2
“Wage-price spiral” [Layard, Nickell, Jackman (1991)].
è aumentata, l’inflazione inizia a diminuire e continua a ridursi sino al raggiungimento del livello di disoccupazione
originario di equilibrio. Ad esempio, nell’Unione Europea l’inflazione è scesa bruscamente nei primi anni Ottanta
mentre cresceva la disoccupazione, ma si è stabilizzato alla fine degli anni Ottanta quando la disoccupazione era
ancora elevata ma iniziava a diminuire.
Ciò suggerisce che la pressione inflazionistica si riduce in seguito non solo ad elevati livelli di
disoccupazione ma anche in seguito ad incrementi nella disoccupazione, da cui se la disoccupazione si riduce (pur
rimanendo a livelli elevati), l’inflazione può invece mantenersi costante.
E’ facile verificare come l’inflazione non sia influenzata solo dai livelli di disoccupazione ma anche dal fatto
che la disoccupazione stessa aumenti o diminuisca, se si considerano le due ragioni principali, teorizzate nel
modello Modigliani–Tarantelli. Primo, quando la disoccupazione aumenta, un numero sempre maggiore di persone
perde il proprio posto di lavoro e quando coloro che sono occupati contrattano con i propri datori di lavoro, il timore
di perdere il posto di lavoro induce gli stessi a non richiedere aumenti salariali (si assiste quindi ad un periodo di
moderazione salariale). Quando invece si riduce la disoccupazione, solo pochi lavoratori vedono il proprio posto di
lavoro a rischio, e la caduta della disoccupazione scatena una pressione volta all’ottenimento di aumenti salariali.
Secondo, se la disoccupazione aumenta, ciò significa che la disoccupazione al termine dell’anno
precedente era minore, che si ha una percentuale minore di disoccupati di lungo periodo e che quindi gli occupati
vedono i disoccupati come potenzialmente occupabili. In contrasto, se la disoccupazione diminuisce, la
proporzione di disoccupati di lungo periodo (demoralizzati e/o di basso profilo professionale) aumenta e coloro che
sono occupati non subiscono la pressione degli outsider nella rivendicazione degli aumenti salariali impedendo al
sistema di convergere verso un punto di equilibrio caratterizzato da minore inflazione. In quest’ultima situazione, un
dato livello di disoccupazione, anche se elevato, non è in grado di operare spinte significative alla riduzione
dell’inflazione.
Esiste un livello di equilibrio di lungo periodo in cui sia la disoccupazione che l’inflazione sono stabili,
definito “NAIRU
3
di lungo periodo”. Esiste inoltre una sorta di livello NAIRU di breve periodo che dovrebbe essere
compatibile con un livello stabile di inflazione, dipendente con il livello di disoccupazione del periodo precedente.
Sotto quest’ottica, proposta da Layard, Nickell, Jackman (1991), esisterebbe un fenomeno definito dagli stessi
autori come “isteresi di breve periodo”, nel senso che gli eventi passati influenzano il livello corrente del NAIRU di
breve periodo. Tuttavia non esisterebbe un fenomeno di “isteresi di lungo periodo” per l’esistenza di un unico livello
di NAIRU di lungo periodo. Gli stessi economisti si spingono oltre elaborando una teoria della disoccupazione
avente le seguenti peculiarità:
2. Esiste un livello NAIRU di lungo periodo dipendente da variabili sociali ed economiche. E’
chiaramente soggetto a variazioni a lungo termine (ad esempio derivanti da variazioni nel sistema dei
sussidi e sulle sue modalità ed entità di erogazione, o da variazioni nel sistema della contrattazione
dei salari) ed a variazioni temporanee (ad esempio da variazione dei prezzi petroliferi).
3. Variazioni nominali della domanda provocano degli allontanamenti, nella medesima direzione, sia
della disoccupazione che dell’inflazione dai livelli di NAIRU.
4. Variazioni nell’offerta provocano delle variazioni nell’occupazione in seguito a variazioni sul livello di
NAIRU, e provocano una variazione dell’inflazione nella direzione opposta alla disoccupazione.
5. Una volta che la disoccupazione si scosta dal livello di NAIRU, occorre del tempo perché il sistema
converga all’equilibrio anche se l’inflazione si è mantenuta stabile.
La peculiarità di questa teoria è che si basa su un modello – che analizzeremo in modo più analitico e
dettagliato nel prossimo paragrafo – che non può essere definito né keynesiano né neoclassico poiché questa
3
“Non Accelerating Inflation Rate of Unemployment”.
teoria ha elementi neoclassici (il NAIRU) ed elementi keynesiani (il ruolo della domanda ed il ruolo della
persistenza).
2.1 QUALI VARIABILI DETERMINANO IL LIVELLO DI DISOCCUPAZIONE DI EQUILIBRIO ?
Esiste una chiara relazione positiva tra la variazione dell’inflazione ed il tasso di occupazione
destagionalizzato, come abbiamo già avuto modo di notare nel grafico 1.4 (c). In tutti i casi, un’elevata occupazione
provoca un impulso al processo inerziale attraverso il quale evolve il meccanismo dei prezzi, venendosi a
sviluppare una crescita a spirale del sistema prezzi-salari con i prezzi ed i salari che si spingono vicendevolmente
verso l’alto.
Layard, Nickell, Jackman (1991) cercano quindi di spiegare quali variabili condizionino ed alimentino
questo processo di crescita a spirale, partendo dalla seguente considerazione: un’inflazione stabile richiede
consistenza tra:
(a) il modo in cui vengono fissati i salari (W) relativamente ai prezzi (P), e
(b) il modo in cui vengono fissati i prezzi (P) relativamente ai salari (W).
Solo se il salario reale corrisponde al livello desiderato da entrambe le parti che lo contrattano, l’inflazione
resterà stabile. La variabile che consente di ottenere questa uguaglianza è il livello di disoccupazione.
I prezzi sono fissati come mark-up sul livello dei salari attesi. Il mark-up tende a diminuire con il livello di
disoccupazione, anche se il contributo non si rivela così importante a livello statistico; quindi,
uwp
e
10
ββ −=− ()0
1
≥β (1)
dove p è il logaritmo del prezzo, w
e
è il logaritmo del salario atteso ed u il tasso di disoccupazione (si veda
la “price setting” nel grafico 1.5).
I salari sono fissati come mark-up sul livello dei prezzi attesi, con lo stesso mark-up che è crescente al
crescere del tasso di occupazione ed al decrescere del tasso di disoccupazione; quindi,
upw
e
10
γγ −=− ()0
1
>γ (2)
può essere inteso come il livello di salario reale desiderato dai lavoratori (si veda la “wage setting” nel
grafico 1.5).
Se i livelli di salario e dei prezzi attuali coincidono con i livelli attesi (cioè p = p
e
, w = w
e
), il tasso di
disoccupazione di equilibrio è dato sommando le precedenti equazioni (1) e (2), da cui si ottiene
11
0
γβ
γβ
+
+
=∗
0
u (3)
Questa situazione è rappresentata nel grafico 1.5 (a). La curva wage-setting e la price-setting sono
tracciate sulla base dell’ipotesi che p – p
e
= w – w
e
= 0, e la loro intersezione determina la disoccupazione di
equilibrio ed il salario reale. Qualunque fattore sia in grado di alzare esogenamente la spinta salariale (γ
0
) o la
spinta dei prezzi (β
0
) aumenta il tasso di equilibrio. Qualunque fattore sia in grado di incrementare esogenamente
la flessibilità del salario reale (γ
1
) o la flessibilità dei prezzi (β
1
) riduce il tasso di equilibrio.
“[…] Il punto di forza del modello Layard, Nickell, Jackman consiste nel proporre un concetto di equilibrio,
comunemente noto come tasso di disoccupazione che non accelera l'inflazione (NAIRU), strettamente legato alle
caratteristiche dell’economia in termini di:
1) struttura produttiva del sistema;
2) composizione della forza-lavoro;
3) regolazione del mercato del lavoro;
4) sistema di sicurezza;
5) meccanismi di contrattazione salariale;
6) obiettivi distributivi delle parti sociali (imprese e lavoratori);
7) tassazione del reddito da parte dello Stato;
8) regime di cambio e regolazione, o meno, dei movimenti di capitale.
Nella logica di questa modellistica un aumento del tasso di disoccupazione di equilibrio si verifica quando:
a) uno shock (quale, ad esempio, una riduzione della produttività media del sistema, dello stock di capitale
disponibile, della forza di lavoro effettiva) riduce il livello massimo di prodotto realizzabile dall'economia;
b) almeno una delle categorie fra cui viene diviso il prodotto netto (imprese, lavoratori, Stato, Estero), vuole
imporre una distribuzione del reddito che accresca la propria quota a scapito delle altre. “A parità di altre
condizioni, infatti, l'aumento dei margini di profitto, del salario reale, delle aliquote d'imposta, o del prezzo reale
delle importazioni può essere interpretato come il tentativo di assorbire un maggior ammontare di risorse da parte
del suo percettore.” [Baici-Lodovici (1995)].
2.2 DISOCCUPAZIONE E VARIAZIONI NELL’INFLAZIONE
Se le aspettative dei livelli di prezzi e salari non si realizzano, si ha
( ) ( )
11
00
γβ
γβ
+
−−−−+
=
ee
wwpp
u
o, espresso in altri termini
()()
11
*
γβ +
−+−
−=
ee
wwpp
uu
Assumendo che gli scostamenti tra prezzi e salari attesi e reali siano simili,
()
e
ppuu −−=−
1
*
1
θ
(3’)
dove
()
2
11
1
γβ
θ
+
= rappresenta la misura della flessibilità dei salari reali e dei prezzi. Si può osservare, quindi,
come un basso livello di disoccupazione sia associato positivamente alle differenze tra prezzi effettivi e prezzi
attesi.
Layard, Nickell, Jackman (1991) ipotizzano che l’inflazione (∆ p) non segua una tendenza di lungo periodo,
ma un processo stocastico random walk, cioè:
ε+∆=∆
− 1
pp ,
dove ε è white noise e dove l’indice –1 indica il periodo precedente. Si ha quindi che la previsione razionale
dell’inflazione è data da:
11 −−
∆=− ppp
e
Ne segue che l’effetto sorpresa,
e
pp − , è pari a
=∆=∆−∆=∆−−=−
−−−
pppppppp
e 2
111
tasso di variazione dell’inflazione.
L’effetto sorpresa sui prezzi risulta equivalente ad un incremento dell’inflazione, e lo stesso vale per ciò che
concerne l’effetto sorpresa sui salari.
Quindi, l’equazione (3’) implica che
( ).
*
11
uupp −−=∆−∆
−
θ (3’)
Questa risulta essere un curva di Phillips standard – mostrata nel grafico 1.5 (b). Quando la
disoccupazione scende al di sotto del tasso pari a
*
u , l’inflazione aumenta, e viceversa: quindi
*
u può essere
considerato come il tasso di inflazione che non provoca un aumento dell’inflazione (NAIRU).
2.3 I FATTORI CHE POSSONO CONCORRERE A SPIEGARE L’ELEVATA DISOCCUPAZIONE EUROPEA
Bean (1994) ripartendo dal modello elaborato da Layard, Nickell, Jackman (1991), in un contesto di
imprese caratterizzate da una tecnologia a rendimenti di scala costanti ed una funzione di produzione alla Cobb-
Douglas, ricostruisce in estremo dettaglio le funzioni prezzo-occupazione e dei salari, allo scopo di pervenire ad
una equazione che, tenendo conto non solo del lungo periodo ma anche degli aspetti legati alle aspettative di
breve periodo, sia in grado di raccogliere ed esplicitare molti dei fattori citati nella letteratura per spiegare l’elevata
disoccupazione europea.
Bean (1994), ottiene
4
la seguente funzione prezzo-occupazione (in forma logaritmica)
4
Assumendo una tecnologia a rendimenti di scala costanti Y=F (AN,K) dove Y è l’output netto, N l’occupazione, K
il capitale (assunto costante in un contesto di breve periodo) ed A un parametro in grado di catturare il progresso
tecnologico, nell’ipotesi di imperfetta concorrenza ed ignorando i costi di aggiustamento, le imprese scelgono il
livello di occupazione ottimale massimizzando i propri profitti fissando il prezzo in modo tale che:
AF
WM
p
'
= .
Utilizzando una funzione di produzione del tipo Cobb-Douglas con rendimenti di scala costanti e differenziando la
funzione di produzione rispetto al livello di occupazione si ottiene, trasformando in logaritmi,
()()
n
amwpkn εαα +−+−−=− 1
11
(4)
dove n è l’occupazione, k il capitale, α
1
è il rapporto tra l’elasticità di sostituzione nella produzione e la quota dei
costi del capitale sui costi totali, p i prezzi, w i salari nominali, m il markup (o quota di profitto) e ε
n
un termine
errore.
La funzione dei salari, necessaria per poter definire il tasso di disoccupazione naturale, è definita in termini
generici nel seguente modo:
()()
ww
e
ZpwUpw εγγ +Γ+−−+−=−
− 121
1 (5)
dove Z
w
è un vettore di variabili che include il reservation wage e tutti gli altri fattori in grado di influenzare il
markup, ε
w
è un termine che definisce un errore stocastico, p
e
il livello dei prezzi attesi, U il livello di
disoccupazione, (w – p)
-1
il salario reale del periodo precedente e dove Γ rappresenta il vettore dei coefficienti γ .
Assumendo per semplicità che γ
2
sia pari all’unità (il salario reale atteso non è funzione del salario del
periodo precedente) e che i prezzi siano perfettamente flessibili, dalle equazioni (4) e (5) otteniamo la seguente
specificazione del tasso di disoccupazione naturale, dopo aver ricavato e sostituito al tasso di disoccupazione
l’espressione nlu −= :
()[]
()()
11
11
1
1
1
1
1
γα
εεαα
α
α
θµ
α
+
−+−−
−+−
++++
=
ww
e
pp
akl
xm
U
L’equazione raccoglie ed esplicita molti dei fattori citati dai vari autori nella letteratura per spiegare l’elevata
disoccupazione europea, tra i quali:
™ gli effetti di politiche restrittive deflazionistiche e di politiche di contrazione della domanda attraverso
l’effetto sulla differenza tra prezzi effettivi e prezzi attesi (p - p
e
);
™ la riduzione della produttività marginale del lavoro che tuttavia non ha implicato una conseguente
riduzione nelle richieste salariali dei lavoratori (catturata dal salario di riserva x);
™ le variazioni delle aliquote impositive fiscali e dei prezzi all’importazione, θ ;
™ l’aumento del potere sindacale, µ ;
™ l’incremento del mismatch tra domanda ed offerta nei diversi settori lavorativi, che può anche portare
ad un innalzamento del markup salariale;
™ gli effetti di un incremento nei sussidi alla disoccupazione, che spostano verso l’alto la curva dei salari
in seguito all’aumento del salario di riserva, x;
™ l’aumento della quota di markup sui prezzi, m, specie in seguito a più elevati tassi di interesse;
() M
P
W
A
K
N
loglogloglog1log +
=+
−+ ααα . Sotto l’ipotesi che la costante sia pari a zero, ponendo
1
1
1
−
−=
α
α , otteniamo la funzione prezzo-occupazione.
™ gli incrementi demografici, catturati dalla variabile l.
La disoccupazione può quindi differire anche sensibilmente tra vari Stati, o all’interno degli stessi, in
seguito ai diversi andamenti di una o più di queste variabili, anche se ciò non è e non può essere tuttavia l’unica
giustificazione ad andamenti così difformi del tasso di disoccupazione nelle varie nazioni; possono infatti esistere
differenze strutturali importanti quali inerzie nel sistema economico sia nominali che reali (ci si riferisce in
particolare alla rispondenza dei salari reali ai livelli di occupazione e di disoccupazione, all’inflazione o alle
modifiche nella domanda aggregata).
Cerchiamo ora di specificare meglio il ruolo giocato dalle variazioni di alcune delle variabili
precedentemente specificate, allo scopo di verificare se queste possano essere in grado di spiegare l’esistenza di
differenze nei tassi di disoccupazione, utilizzando anche i dati empirici presentati nella tabella 1.2.
2.3.1 LA PRODUTTIVITA’ DEL LAVORO
Una crescita della produttività marginale del lavoro consente un incremento salariale senza provocare
spinte inflazionistiche. La tabella 1.2 cattura l’andamento della crescita di questa componente nelle varie macro
aree economiche.
La tesi proposta da alcuni autori - tra cui Bruno e Sachs (1985) e Grubb, Jackman e Layard (1982), (1983)
– sottolinea come i lavoratori nelle loro richieste salariali non abbiano tenuto conto della riduzione (specie in
Europa) del ritmo di crescita della produttività, provocando un aumento del tasso di NAIRU, e quindi della
cosiddetta inflazione da costi, in corrispondenza degli stessi livelli salariali. Poiché non si è verificato alcun
adeguamento da parte dei lavoratori, è aumentata la disoccupazione a causa di salari maggiori rispetto a quelli
corrispondenti al NAIRU. Se si fosse invece verificato un adeguamento nelle richieste, si sarebbero modificati i
salari di una entità tale da non generare un incremento nei tassi di disoccupazione.
Tuttavia, come mostra l’evidenza empirica, negli anni successivi alla riduzione della produttività marginale
del lavoro, si doveva assistere ad un riassorbimento della disoccupazione, mentre ciò non è accaduto, da cui,
secondo Manning (1992) “la conclusione finale sembra imputare alla riduzione del ritmo di crescita della
produttività marginale solo un ruolo modesto nello spiegare il brusco aumento della disoccupazione”.
2.3.2 IL POTERE CONTRATTUALE DEI SINDACATI
In seguito all’aumento dell’importanza e del peso della componente sindacale avvenuta negli anni Settanta,
alcuni autori hanno evidenziato come questo potesse provocare una traslazione verso l’alto della curva dei salari in
seguito all’aumento del reservation wage.
Si è inizialmente misurato il potere di contrattazione sindacale sul numero degli occupati iscritti, ottenendo i
risultati mostrati nella tabella 1.2; in seguito si è utilizzato come proxy il numero degli scioperi e delle ore di
sciopero nel corso degli anni, ma anche questo indicatore non ha consentito di ottenere risultati soddisfacenti;
anche in Gran Bretagna, dove si è utilizzata come variabile la differenza tra il salario ottenuto attraverso i sindacati
e quello contrattato direttamente dal lavoratore, i risultati empirici mostrano come non si sia assistito ad un
riassorbimento della disoccupazione nel corso del governo Thatcher in cui si è verificata una brusca riduzione del
potere sindacale.
2.3.3 I SUSSIDI ALLA DISOCCUPAZIONE
La teoria macroeconomica elaborata imputa ai benefits un ruolo nell’incremento della disoccupazione,
poiché questi spostano verso l’alto la curva dei salari in seguito ad un incremento del salario di riserva, tuttavia le
analisi condotte da Adams e Coe (1990), Layard e Nickell (1986) per gli Stati Uniti; Dolado, Malo de Molina e
Zabalza (1986) per la Spagna; Calmfors (1990) per i Paesi del Nord Europa mostrano come
microeconomicamente in realtà i sussidi non siano rilevanti (nella UE il tasso di rimpiazzo è infatti cresciuto in
misura minore rispetto agli altri Paesi proprio negli anni in cui si è verificato un brusco incremento della
disoccupazione nella UE).
2.3.4 IL MISMATCH
Una delle tesi che cerca di spiegare l’aumento della disoccupazione sostiene che all’origine di tale
fenomeno ci sarebbe una serie di fenomeni quali il deterioramento e la riduzione, all’interno delle imprese, del
tasso di rotazione della manodopera, ed il declino della mobilità territoriale delle imprese.
Questi fenomeni avrebbero determinato un aumento del mismatch di tipo sia geografico che professionale
tra domanda e offerta di lavoro, aumento che si è tradotto in uno spostamento verso destra della curva di
Beveridge (grafico 1.6).
Anche per ciò che concerne il mismatch e le altre variabili, i primi risultati empirici non sono stati
confortanti, infatti non esistono giustificazioni evidenti e plausibili dell’elevata disoccupazione di alcune aree
rispetto ad altre.
3. RIGIDITA’, FLESSIBILITA’
L’evidenza empirica di un tasso di disoccupazione di lungo periodo più elevato in Europa rispetto al Nord
America, o al Giappone (come già mostrato nel grafico 1.3), così come i dati di flusso, sono spesso stati presi a
dimostrazione di un minore grado di flessibilità del mercato del lavoro e da più parti si afferma l’esistenza di un
legame positivo tra il tasso di disoccupazione e la presenza di vincoli.
I grafici 1.7 e 1.8, ad esempio, tratti da un lavoro di due economisti olandesi, Koedijk e Kremers
(1996), mostrano un legame inverso tra regolamentazione e crescita e classificano i vincoli di rigidità sul mercato
del lavoro e i paesi in base al grado di regolamentazione nel mercato del prodotto e del lavoro. Secondo questa
ipotesi i mercati, in presenza di vincoli giudicati soffocanti, non sarebbero più in grado di attrarre investimenti,
creare posti di lavoro, far crescere nuove imprese, generare produttività, stimolare la crescita economica [Il Sole 24
Ore (1997)]. Dal grafico 1.8 l’Italia è tra i paesi più regolamentati.
D’altra parte, Modigliani e Solow nel loro “manifesto contro la disoccupazione in Europa” sostengono la tesi
che per ridurre sostanzialmente la disoccupazione in Europa intervenire sul lato dell’offerta riformando il mercato
del lavoro e quello dei prodotti per dare più flessibilità all’economia ed incoraggiare in tal modo l’iniziativa
imprenditoriale non è sufficiente. Limitarsi a deregolamentare alcuni mercati – abolizione di vincoli e politiche volte
ad avvantaggiare il disoccupato di lungo periodo – sarebbe un errore poiché non si riuscirebbe a sortire l’effetto
desiderato sul mercato del lavoro in assenza di una politica macroeconomica espansionistica dal lato della
domanda. A tale riguardo le banche centrali dovrebbero tagliare i tassi di interesse per rendere meno caro il
denaro e favorire gli investimenti.
Proseguono: “[…] in Europa il mercato del lavoro non è il solo mercato che ha bisogno di essere
deregolamentato. La disoccupazione, cioè, non è solo un problema provocato dal mercato del lavoro, ma è un
fenomeno che ha anche a che fare con il mercato dei beni e dei servizi. […] Gli europei hanno bisogno di
un’economia in grado di creare posti di lavoro: le aziende devono essere incentivate a espandersi e a creare
occupazione. E ci sono una lunga serie di vincoli, sull’uso dei terreni, sulle licenze per aprire un’azienda, sulla
durata di apertura dei negozi e sulla protezione dalla concorrenza, che sopprimono o scoraggiano la creazione di
nuovi posti in Europa.” [Il Mondo (1998)].
Al fine di approfondire il dibattito sulla flessibilità, nel resto di questa tesi ci soffermeremo su indicatori di
turnover. Analisi comparative su job turnover e labour turnover infatti, rese più rigorose e affidabili da dati di
dimensione temporale e spaziale sempre più ampi [OECD (1994), (1996)], hanno recentemente movimentato e
intensificato il dibattito mettendo in luce la sostanziale omogeneità tra i valori dei flussi di turnover in Europa e negli
USA. Ciò pone nuovi interrogativi sulla presunta inerzia del mercato del lavoro europeo [Boeri (1996); Bertola e
Rogerson (1996)] e apre la possibilità al fatto che il legame esistente tra tasso di disoccupazione e flessibilità del
mercato del lavoro (ossia grado di protezione e di tutela degli occupati) possa essere il risultato di differenti
implicazioni e catene causali.
4. APPENDICE GRAFICA
Grafico 1.1: Andamento del tasso di disoccupazione 1967-1992
Fonte: Rielaborazione dati da Bean (1994) e da The Economist (1998).
0
2
4
6
8
10
12
14
1
9
6
7
1
9
7
3
1
9
7
9
1
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8
5
1
9
9
1
1
9
9
7
T
a
s
s
o
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i
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c
u
p
a
z
i
o
n
e
(
%
)
Stati Uniti Comunità Europea
Europa non comunitaria Giappone
Tabella 1.1: La natura della disoccupazione.
Anno Flussi annuali di
entrata
Flussi annuali di
uscita
Disoccupazione di
lungo periodo
Comunità
Europea
1979 0.27 9.8 29.3
1988
0.33 5.0 54.8
Stati Uniti 1979
2.07 43.5 4.2
1988
1.98 45.7 7.4
Giappone 1979
0.31 19.1 16.5
1988
0.37 17.2 20.6
Europa
non-EC*
1979
0.70 38.1 5.3
1988
0.80 30.4 7.3
Note: * Solo nazioni nordiche.
Fonte: Rielaborazione dati su: C. Bean “European Unemployment: A Survey”, Journal of Economic Literature, Vol.
XXXII, June 1994, pag. 575.
Grafico 1.3: Incidenza della disoccupazione di lungo periodo sulla disoccupazione totale
Fonte: Bean (1994).
7,4
4,2
20,6
16,5
7,3
5,3
54,8
29,3
Stati Uniti 1988
Giappone 1979
Europa non-CE 1988
Comunità Europea 1979