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1. TEORIE SEMIOTICHE
1.1 LINGUAGGIO E SEGNO
E’ indispensabile ai fini di una corretta definizione degli elementi che compongono gli
studi semiotici premettere l’argomento con ciò che li ha precorsi: la linguistica, disciplina
che per prima si è occupata di analizzare le caratteristiche del linguaggio.
Il senso più primitivo del linguaggio è associabile a quello della lingua scritta e parlata,
conseguentemente fu del tutto logico il fatto che i linguisti apparvero come pionieri del suo
studio teorico.
Fu con l’avvento della linguistica moderna agli inizi del XX secolo che vennero poste le
basi per una teoria generale sul concetto di linguaggio.
I linguisti antecedenti a tale periodo focalizzavano gli studi su una analisi retrospettiva
delle cause di mutamento della lingua, caratterizzate prevalentemente da modifiche
individuali.
Ferdinand de Saussure con il suo Corso di linguistica generale, raccolta degli appunti dei
tre corsi di linguistica generale degli anni 1906-1911, in seguito pubblicato nel 1916, fu il
primo ad introdurre il concetto dicotomico di langue/parole per classificare una entità che
sembrava inclassificabile a causa della propria natura multiforme: il linguaggio.
Egli intuì che, definito un puro oggetto sociale caratterizzato da convenzioni e regole
necessarie alla comunicazione, la langue, diventasse successivamente scontato definire il
modo individuale di utilizzare tale insieme, la parole. Il sistema sociale diventa sistema
proprio attraverso il suo uso.
Il linguaggio si compone quindi di una parte sociale, unica e collettivamente accettata da
tutti gli individui appartenenti alla stessa società e di una parte individuale, infinitamente
numerabile a causa della propria natura combinatoria.
Ogni individuo deve, per comunicare, passare sia attraverso il processo di apprendimento
di tale contratto collettivo, sia di accettazione delle sue regole. Inoltre, le regole sono
definite a priori e non è possibile cambiarle: un singolo individuo non può “inventarsi”
delle nuove parole.
Il libero arbitrio è però consentito dall’utilizzo del codice collettivo: è chiaramente
possibile esprimere concetti uguali con discorsi diversi, tenendo comunque presente il fine
ultimo della comunicazione cioè quello del passaggio d’informazione tra un emittente e un
5
ricevente attraverso un supporto fisico e per mezzo di un codice. Nella comunicazione
orale, a esempio, il supporto fisico è rappresentato dall’aria mentre il codice che si utilizza
per comunicare è la lingua; quest’ultima deve ovviamente essere conosciuta da entrambi
gli interlocutori. E’ proprio da quest’ultima osservazione che si evince il senso di
accettazione del contratto collettivo da parte dei fruitori della langue.
I due fattori che compongono il linguaggio sono, sebbene concettualmente opposti,
mutuamente correlati nella loro essenza. Non esiste langue senza parole e viceversa. Da
una parte la langue è il patrimonio depositato dalla pratica individuale e dall’altra la parole
esiste solo se la si preleva dalla lingua.
Come suggerisce Brøndalm “La lingua è una entità puramente astratta, una norma
superiore agli individui, un insieme di tipi essenziali, che la parole realizza in modo
infinitamente variabile”.
1
Nella linguistica moderna si trova anche la prima definizione di segno. E’ lo stesso
Saussure a definirne le due componenti: il significante e il significato.
In seguito agli studi del linguista francese, la teoria del segno linguistico si è arricchita del
principio della doppia articolazione, enunciato da Martinet, per cui il segno linguistico
viene separato in due unità distinte: un’unità significativa, dotata di senso, ovvero la parola,
e un’unità distintiva che definisce la forma ma non il senso del segno, ovvero il suono della
parola.
Tale distinzione risulta una ulteriore estensione del concetto di segno definito da Saussure.
Per il linguista svizzero, difatti, il significato è la rappresentazione psichica della “cosa” e,
sebbene tale definizione sia improntata di psicologismo, richiama facilmente l’attribuzione
di senso caratterizzante le unità significative di Martinet. Il significante è invece il semplice
mediatore del segno, la materia è necessaria per la sua esistenza. Il suono, ma anche l’aria,
è il mezzo necessario per l’esistenza delle unità distintive del principio della doppia
articolazione.
Così come per il concetto di linguaggio, i due elementi che contraddistinguono il segno
sono strettamente legati e inscindibili nel processo di significazione, e cioè nell’atto che
unisce il significante e il significato, da cui si evince il segno.
La semiotica si è costituita come prosecuzione della linguistica come aveva prefigurato
Saussure nel suo Corso: la nuova scienza dei segni nasce al fine di riposizionare gli studi
sul segno su un piano “scientifico” quindi di indagare un nuovo campo di ricerca sulla
langue.
1
Acta Linguistica, I, I, p. 5.
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1.2 TEORIE ARTISTICHE PRESEMIOTICHE
1.2.1 Il purovisibilismo
Una volta gettate le basi su come la semiotica è andata a inserirsi negli studi linguistici è
utile, per addentrarci nel discorso artistico e dell’applicazione della semiotica a esso,
introdurre la teoria della visibilità pura del filosofo tedesco Konrad Fiedler che ha tentato
di svincolare l’arte da ogni subordinazione al linguaggio. Contestualmente questa teoria
dell’arte come “scienza autonoma” ha assunto la medesima funzione svolta per la
linguistica dal pensiero di Ferdinad de Saussure: entrambi hanno definito con rigore
l’oggetto della disciplina e l’hanno delimitato rispetto ad approcci verso la medesima sfera
espressiva condotti da discipline diverse.
Oltre a Fiedler furono rappresentanti della pura visibilità lo scultore Adolf Hildebrand e il
pittore Hans van Marées, che a detta del filosofo, storico e scrittore Benedetto Croce non
avrebbero dato alcun effettivo contributo alla teoria di Fiedler. Croce si interessò alle teorie
del puro visibilismo per la stesura del suo libro sull’Estetica (1902), e s’impegnò alla loro
diffusione di tali teorie in Italia, che avvenne ancor prima che in Germania.
L’apprezzamento di Croce deriva dal fatto che il concetto di fondo della teoria di Fiedler è
la negazione completa che l’arte si risolva nella conoscenza concettuale, nell’imitazione
della natura o nell’emotività sentimentale.
Fiedler ha dovuto sgomberare il campo da precedenti teorie non strettamente pertinenti
all’arte, come l’estetica filosofica, che indagando su quali criteri possano essere espressi
giudizi di gusto, stabilisce leggi e canoni di bellezza non facendo affidamento esclusivo
sull’atto del vedere finendo così per sminuirla a semplice strumento di diletto a imitazione
della realtà.
2
Il contributo di Hildebrand sull’approccio all’opera d’arte fu piuttosto strumentale, essendo
egli stesso un’artista, riuscì a definire e a dare un metodo strutturale per la valutazione delle
opere d’arte figurativa. Ne Il problema della forma nelle arti figurative (1893) Hildebrand
raccoglie quelle che sono le sue teorie a riguardo dell’attività figurativa, che afferma
essere, coincidendo con quello già affermato da Fiedler, conoscenza.
Il valore di una rappresentazione artistica dipende esclusivamente dal modo in cui l’opera
riesce a rendere una piena idea della forma plastica dell’oggetto rappresentato, a partire dai
2
Questo tema trova una grande attualità nella questione dell’arte contemporanea che troverà
compimento nei prossimi capitoli sull’arte concettuale, spesso considerata brutta o di pessima
realizzazione secondo i canoni estetici. Cfr. pp. 22-23.
7
soli dati dell’apparenza puramente visiva.
3
Sempre Hildebrand afferma che il vero artista
figurativo non deve comportarsi come quei “sedicenti artisti” che si limitano a ricopiare le
apparenze con i loro giochi di luci e di ombre.
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Dunque, ciò che conta, in un’opera d’arte figurativa, è l’effetto di insieme e non la
precisione dei singoli elementi. Il valore di questi, il loro senso, dipende unicamente dalla
loro intergrazione in un tutto, che può solamente essere percepito “da lontano”, e dal
contributo che sono in grado di dare ad un’efficace e immediata percezione di forma nello
spazio, dando così origine ad una forma attiva di percezione dell’oggetto.
Hildebrand introduce la forma attiva come unico oggetto della rappresentazione artistica
dipendente dalla percezione e dalle circostanze in cui questo effetto formale avviene. Per
cui perde di valore la forma esistenziale delle cose che assumerà un senso sempre diverso a
seconda del punto di vista da cui è osservata o dalla luce che la colpisce o dal contesto
espositivo.
Dopo questo tipo di introduzione è di conseguenza possibile affermare che l’arte è un puro
atto di conoscenza più di quanto non lo siano il linguaggio e la scienza. Essa è utile
all’uomo per conoscere la realtà, indagandola attraverso il sensibile, e non come si è soliti
fare utilizzando il linguaggio o la scienza che limitano l’apprendimento. Essendo
quest’ultime delle conoscenze di tipo concettuale non forniscono quell’infinità di
particolari, l’essere delle cose, che i sensi potrebbero cogliere se lasciati liberi di fruire
nell’arte figurativa che dà una rappresentazione visiva del mondo.
Soltanto svincolando la percezione visiva dal supporto del linguaggio, di cui è da sempre
dipendente e vincolata, e del pensiero, assegnandole una propria autonomia di giudizio, di
conoscenza e significazione, è possibile, secondo Fiedler, studiare l’arte con i mezzi che le
sono propri.
Ciò non toglie che se si ritiene l’arte al pari di ogni linguaggio essa per definire il reale
utilizzerà dei propri mezzi che andranno a costituire una forma linguistica essenziale per
3
T. Lancioni, Il senso e la forma, Bologna, Esculapio, 2001, p. 114.
4
Idem, p.115.
A questo proposito è interessante fare cenno, per quanto riguarda la simulazione della realtà,
all’aneddoto narrato da Plinio il Vecchio, Storia Naturale, XXXV, pp. 65-66: La contesa fra Zeusi e
Parrasio. “Si dice che costui (Parrasio) sia venuto in competizione con Zeusi, il quale presentò un
dipinto raffigurante acini d’uva: erano riusciti così bene, che alcuni uccelli volarono fin sulla scena. Lo
stesso Parrsio, a sua volta, dipinse un drappo, ed era così realistico che Zeusi –insuperbito dal giudizio
degli uccelli- lo sollecitò a rimuoverlo, in modo che si potesse vedere il quadro. Ma non appena si
accorse del suo errore, con una modestia che rivelava un nobile sentire, Zeusi ammise che il premio lo
aveva meritato Parrasio. Se infatti Zeusi era stato in grado di ingannare gli uccelli, Parrasio aveva
ingannato lui, un artista”.
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l’uomo. Infatti per far sì che il mondo fisico esista sia che si tratti di oggetti materiali che di
forme spirituali, l’intelletto dispone esclusivamente dei linguaggi per ricrearsi la realtà.
L’arte figurativa, secondo Fiedler, è l’attività con cui si producono forme interpretabili e
giudicabili esclusivamente nel campo della percezione visiva. Affidarsi ad altri sensi
significherebbe o svuotare di valore la vista, e sostituirla con altri sensi ritenuti più
attendibili, o tornare a confidare in una realtà esterna data, senza tener conto che privare
l’oggetto delle sue qualità sensibili significa semplicemente annullarlo.
5
La teoria della visibilità pura ha avuto il merito di determinare l’intero indirizzo della
critica moderna attraverso l’introduzione del concetto di “simbolo”, usato per indicare
quegli elementi che, da un lato, consento di riconoscere l’appartenenza di un’opera a un
autore, a una scuola o a un’epoca, mentre dall’altro, e allo stesso tempo, costituiscono il
vero valore di quelle opere. Valore che non andrà più riconosciuto nel progresso imitativo
ma proprio nell’uso di tali “simboli”
6
, perché secondo questa teoria l’arte non si risolve
nella conoscenza concettuale, nell’imitazione della natura o nell’emotività sentimentale.
1.2.2 Kunstwollen
E’ opportuno, per continuare il percorso intrapreso all’interno della storia della semiotica,
dare una forma strutturale al nostro discorso per mettere in risalto quelle che sono state le
idee e i termini che circolavano, passando da un autore all’altro con accezioni talvolta
anche diverse, piuttosto che ricreare un’intricata genesi delle varie terminologie.
Dopo aver fatto questa breve premessa è ora possibile continuare il nostro cammino verso
la teoria critica dell’arte.
Lo storico dell’arte austriaco, Alois Riegl, cercò di determinare le costanti formali delle
diverse epoche artistiche che si susseguirono secondo un movimento di trasformazione
unitario secondo una serie continua, di soluzioni formali determinate dalla “volontà
artistica”, dal Kunstwollen dell’epoca. Riegl non giungerà mai a darne una definizione ma
si può intendere come quel qualcosa che accomuna tutte le opere d’arte di un dato periodo,
esprime il modo di vedere e di concepire i rapporti fra uomo e mondo di quell’epoca,
condizionando ogni singolo artista, che non può non costruire il mondo dell’arte a
5
Idem, p.74.
6
Idem, p. 45.
9
prescindere da una determinata visione, e ogni singolo spettatore, chiede che le cose siano
rappresentate secondo quella stessa visione.
7
Riegl, forse per il suo impiego come conservatore presso l’Österreichischen Museum für
Kunst und Industrie (Museo austriaco per l’Arte e l’Industria) di Vienna, non disdegnò mai
le arti che potevano essere ritenute di carattere “minore” ma si interessò egualmente a tutte
le arti. Attraverso la sua Grammatica srorica delle arti figurative, edito postumo nel 1966
ma contenente le precedenti lezioni universitarie tenutesi fra il 1897-98 e nel 1899, è
possibile trarre una classificazione di come Riegl aveva suddiviso la storia dell’arte in tre
epoche in base ai principi soggiacenti di formazione artistica: la prima risale all’antico
Egitto e si conclude con l’editto di Costantino del 313 d.C., in questo periodo l’arte è intesa
come perfezionamento della natura attraverso la bellezza materiale. La seconda, dall’editto
di Costantino al 1520 in cui l’arte sarebbe intesa come miglioramento della natura
attraverso la bellezza spirituale. La terza, dopo il 1520, in cui l’arte sarebbe intesa come
riproduzione della natura caduca. Inoltre questi tre periodi storici si suddividono
ulteriormente in sotto periodi e per comprendere la produzione artistica di suddette epoche
lo spettatore, successivo a tali periodi, potrà comprendere il senso della rappresentazione
solo ponendosi secondo una visione distaccata.
Secondo Riegl questi stili sono un esempio di formazione del mondo, sono modi di dare
forma alla realtà, utilizzati dall’uomo non per imitare la natura ma per emulare la sua forza
creatrice nella produzione di un nuovo mondo di forme.
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Riegl riprende così i concetti di Hildebrand, argomentandoli nelle sue lezioni fra il 1897-
98, in cui introduce, a dispetto dello scultore, una visione non più solo da vicino o da
lonatno ma una visione tattile che permette quindi all’osservatore di sopperire all’inganno
della vista, il quale basandosi solo su di essa percepirebbe gli oggetti in forma
bidiensionale ma con il richiamo all’esperienza tattile l’osservatore associando la
percezione ingannevole visiva ai ricordi tattili otterrà una visione tridimensionale.
9
La
visione tattile può esssere di tre tipi: ravvicinata (haptisch-nachsichtig) in cui l’esperienza
tattile rivela la testura delle superfici; visione tattile-normale (haptisch-normalsichtig)
grazie alla quale si può vedere la modellatura e avere l’impressione della tridimensionalità;
ed infine, la visione da lontano in cui l’occhio percepisce l’oggetto come una superficie
bidimensionale ottico-illusionistica (optisch-fernsichtig). Da queste peculiari visioni si
7
Idem, p.163.
8
Idem, p.172.
9
A questo proposito si legga di M. Merleau-Ponty, Fenomenologia della percezione, Milano, Il
Saggiatore, 1965.
10
vengono a produrre tre forme di rappresentazione: una relativa alle superfici oggettive; una
alle forme tridimensionali; e una alla superficie sogettiva. Evoluzione che si ripete in
ognuna delle tre fasi storiche individuate da Riegl.
Nella teoria evolutiva Riegl modifica quelle che erano state introdotte da Hildebrand
sull’intervento dell’intelletto a decodifica delle immagini. Al contrario di quest’ultimo che
riteneva necessario l’intelletto esclusivamente nella decodifica di una visione ravvicinata
per congiungere le molteplici informazioni, Riegl sostiene che è necessario il suo
intervento anche per la visione da lontano in quanto l’intelletto è utile alla connessione
della superfici che non appaiono unitarie a causa delle ombre.
1.2.3 La teoria degli stili
Heinrich Wölfflin ha dato vita a un atteggiamento descrittivo degli stili artistici, attraverso
la celebre storia dell’arte senza nomi, Kunstgeschichte ohne Namen, con cui ha riabilitato e
valorizzato periodi artistici considerati alla fine dell’Ottocento non degni di attenzione.
Lo storico dell’arte svizzero, ricorre a una teoria empatica per definire le forme artistiche e
gli stili che comunicherebbero un “tono” passionale passando attraverso il corpo umano,
che le assimilerebbe come “immagini del suo stesso corpo”.
Ogni stile è presentato da Wölfflin come una “lingua” che definisce le condizioni di
possibilità grazie alle quali è possibile produrre rappresentazioni artistiche ed esso si fa
carico di un “portamento” generale, con proprie leggi immutevoli, di un’intera epoca.
Per “portamento” qui si intendono le forme stilistiche che caratterizzerebbero ogni singola
cultura e periodo storico e che si impone all’artista come obbligo a cui non si può sottrarre
inserendole nelle sue creazioni, indipendentemente dalla sua volontà. Sarebbero, secondo
Wölfflin, delle vere e proprie “lingue del sentimento” che associano configurazioni formali
a configurazioni passionali, e che strutturano l’arte in un sistema di leggi da cui l’artista
non può prescindere.
10
In questo modo si vengono a definire degli stili “epocali” dalla cui analisi Wölfflin intende
scoprire le leggi soggiacenti all’attività figurativa, essendo ogni stile un insieme di sistemi
di regole, proprio come le lingue, le più generali “possibilità formali” della
10
Idem, p.143.
Panofsky riprenderà alcune categorie interpretative di Wölfflin dichiarndosi scettico sul fatto che ogni
artista sente un’esigenza espressiva individuale. Cfr. pp. 12-13.
11
rappresentazione artistica che appaiono come una rigida concezione evoluzionistica
all’interno di una “storia della visione”.
Gli stili di Wölfflin sono riconducibili a solo due forme che si alternano ciclicamente, dal
classico al barocco passando dal lineare al pittorico e non viceversa, analogamente le
lingue come gli stili si susseguono ma attraverso un processo evolutivo lineare.
Inoltre Wölfflin riprenderà la teoria evolutiva di Riegl sul grado di intervento dell’intelletto
sulla comprensione delle forme. Ovviamente fedele alla sua classificazione fra classico e
barocco, Wölfflin identifica lo stile maggiormente “tattile”, classico, come quello di
migliore comprensione grazie alla chiarezza delle forme, mentre per la sua relativa
chiarezza il barocco richiederebbe un maggior intervento intellettivo.
1.2.4 Teoria linguistica dell’arte
Henry Focillon scrisse nel 1934 La vita delle forme in cui riprende, seppur dando una
svolta, la teoria della puro visibiltà.
Soltanto svincolando la percezione visiva dal supporto del linguaggio e del pensiero, e
assegnandole una propria autonomia di giudizio, di conoscenza e significazione, sarebbe
possibile studiare l’arte con i mezzi che le sono propri come se fosse dotata di una “vita”
propria. Secondo Focillon l’universo stesso non è altro che movimento e metamorfosi di
forme alla costante ricerca di una stabilità strutturale.
11
E su questo fondamento Focillon vi
costruirà una teoria linguistica dell’arte che ritroveremo nel suo libro ove forma e segno
sono due caratteristiche funzionali alla base del proprio discorso. La forma è significante in
sè, ovvero ha la possibilità intrinseca di svuotare o sviare il valore del segno, inoltre sono
una successione di metamorfosi e successioni di stabilità e instabilità. Il segno, invece,
implica il concetto di rappresentazione di un oggetto in base a principi convenzionali e
stabili che si fondano su un sistema rendendo non necessaria la sua presenza rinviando a
qualcos’altro da sé.
A conferma di questo lo stesso Focillon scrisse: “Il segno significa, mentre la forma si
significa”.
12
Sulla base di queste affermazioni allora è possibile ampliare il nostro discorso
verso quelle che sono le caratteristiche formali dell’opera che, secondo Focillon, sono del
tutto proprie in quanto determinate dall’artista, “manipolatore” della materia tramite
11
O. Calabrese, Il linguaggio dell’arte, Milano, Bompiani, 2002, p. 9.
12
H. Focillon, La vie des formes, 1934. Tr. it. La vita delle forme, Torino, Einaudi, 1972, p. 6.