INTRODUZIONE
Attraverso la stesura di questa tesi, il mio obiettivo è quello di compiere
un’analisi degli aspetti dell’autobiografia Farewell to Manzanar di Jeanne
Wakatsuki Houston, scrittrice giapponese americana internata durante la seconda
guerra mondiale.
Nel primo capitolo tratterò la biografia dell’autrice e gli avvenimenti storici
che la portano a stendere le sue memorie e analizzerò i temi principali di tre dei
suoi romanzi migliori.
Il secondo capitolo, invece, analizza in maniera dettagliata Farewell to
Manzanar, i mutamenti etnici e sociali che coinvolgono la popolazione asiatica
residente in America e, in particolar modo, la comunità giapponese, che sono il
leit motif che caratterizza il libro. L’autrice scrive questa autobiografia per
denunciare fatti realmente accaduti che trovano fondamento nel pregiudizio. Mi
propongo, attraverso un’accurata analisi del libro, di evidenziare come il
pregiudizio costante e infondato sia talmente radicato nella cultura americana da
sfociare, non solo nell’imprigionamento di molti giapponesi, come afferma la
stessa Wakatsuki, ma soprattutto nel credere nell’incapacità dei giapponesi ad
uniformarsi alla vita e alla cultura americana. Un esempio è lo stupore innocente
che manifesta Radine, amica di Jeanne alle scuole, nel sentirla parlare inglese.
Radine giudica Jeanne dall’apparenza, perché la sua famiglia o la cultura, o
entrambe le cose, la portano a pensare in questo modo. Nella stessa maniera, il
governo americano non riesce a vedere oltre gli “slanted-eyes” dei giapponesi e
per questo ordina la loro reclusione. È così che la propaganda di guerra, che
faceva perno sullo stereotipo razzista, secondo il quale gli asiatici erano persone
terribili e disumane, ebbe molto successo e il termine dispregiativo “Jap” divenne
di uso corrente in quel periodo.
Altro tema sviluppato nel secondo capitolo è la ricerca d’identità dell’autrice e
della comunità di cui si fa portavoce. La posizione isolata di Manzanar e la
disintegrazione della famiglia Wakatsuki durante gli anni dell’internamento danno
alla giovane Jeanne la possibilità di analizzare la propria persona. In realtà,
l’autrice raggiunge la piena consapevolezza di sé in età adulta. All’età di
trentasette anni ritorna a Manzanar, che se da un lato rappresenta la vergogna di
essere giapponese, dall’altro lato indica il punto di partenza per poter affermare la
sua identità. Infatti, è solo durante l’internamento, a contatto solo con giapponesi,
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che sente il conflitto di essere giapponese e americana. Uscita da Manzanar, di
fronte al pregiudizio della società americana, trascura il suo lato giapponese per
conformarsi all’America bianca e solamente dopo essere stata eletta reginetta del
ballo della scuola comprende quanto sia stato assurdo il suo tentativo di
identificarsi in una sola delle due culture a cui appartiene. Wakatsuki non può dire
di essere solo giapponese o solo americana rinnegando chi realmente è: una
giapponese americana. Ed è raggiungendo la consapevolezza di appartenere ad
entrambe le due culture che ha smesso di vergognarsi per ciò che è e ha potuto
finalmente chiudere con il passato.
CAPITOLO I
1. BIOGRAFIA
Jeanne Wakatsuki Houston è l’autrice di Farewell to Manzanar, pubblicato
nel 1973, alla cui stesura partecipò anche il marito James D. Houston.
L’autobiografia tratta la vita dell’autrice e della sua famiglia durante la
seconda guerra mondiale trascorsa a Manzanar, uno dei dieci campi di
concentramento costruiti per i cittadini di origine giapponese e, finita la guerra, il
loro difficile inserimento nella società.
I genitori, Ko e Riku Wakatsuki, nativi del Giappone, si erano trasferiti negli
Stati Uniti nei primi anni del ‘900 spinti dall’American Dream. Il Sogno
Americano era la speranza, condivisa da molti negli Stati Uniti d’America, che,
attraverso il duro lavoro, il coraggio e la determinazione fosse possibile
raggiungere un migliore tenore di vita, per lo più attraverso la prosperità
economica. Questi valori erano condivisi da molti dei primi coloni europei, che si
trasferivano in America intorno alla metà dell’Ottocento per la “Corsa all’Oro”,
motivo principale per le successive ondate di immigrazione che caratterizzarono
quel secolo e il successivo. La cultura americana enfatizzava il benessere
materiale come misura del successo e della felicità. La figura del self-made man,
come prova che con il duro lavoro e la perseveranza i risultati ed il successo sono
garantiti, spinse molti immigrati ad abbandonare intere famiglie in cerca di
fortuna e ricchezza. Oltre al mito del denaro, chi emigrava nel Nuovo Mondo
portava con sé anche la speranza dell’uguaglianza.
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Ciò che attirò i genitori di Jeanne fu proprio l’immagine del self-made man,
molto diffuso nell’immaginario collettivo americano e non, e la possibilità di una
seconda vita.
Prima di emigrare in America, il padre era stato un pubblico ufficiale; finì poi
a lavorare nelle case da tè a Hiroshima, ma “the idea of a teahouse was an insult
to the family name”
1
. A ciò si aggiunse una grave depressione nel campo
dell’agricoltura, cosicché Ko decise di seguire le ondate d’immigrazione iniziate
nel 1886. Nel 1904 arrivò a Honolulu, eccitato dall’idea che conosceva la lingua e
pensando che con un po’ di fortuna avrebbe trovato un buon lavoro; si recò ad un
colloquio di lavoro, ma fu preso in giro e umiliato in quanto giapponese. Dopo
l’umiliazione “he worked as a valet, a cook, a chauffeur, a mechanic, a general
handyman” (51) presso un avvocato che veniva dall’Idaho. Il padre di Riku si era
trasferito in America in cerca di fortuna e Riku nacque proprio alle Hawaii. I due
si erano incontrati a Spokane, nello stato di Washington, e decisero di fuggire per
sposarsi per amore, sfidando la famiglia di Riku, che l’aveva promessa in moglie
ad un altro uomo.
Jeanne nacque il 26 Settembre 1934, a Inglewood, in California ed è la più
giovane degli undici figli della famiglia Wakatsuki. Fu internata a soli 7 anni a
seguito dell’attacco a sorpresa dei giapponesi in territorio americano a Pearl
Harbor avvenuto il 7 dicembre 1941. In realtà le ostilità contro le popolazioni di
origine asiatica erano iniziate alla fine degli anni 70 del diciannovesimo secolo.
I giapponesi che si trovavano in America erano accusati di essere una “razza
nemica” diversa e inferiore agli americani. Erano visti come una minaccia allo
standard di vita americano e all’integrità razziale della nazione. Si parlava di loro
come “il pericolo giallo”. Nel 1882 il Congresso bandì tutte le migrazioni dalla
Cina e, negli anni che seguirono, questo bando fu allargato a tutti i nuovi arrivati
di qualsiasi parte dell’Asia, inclusi i giapponesi e gli abitanti delle isole del
Pacifico. Ai primi del 1942, fu ordinata a circa 110.000 giapponesi la reclusione
nei campi di concentramento, che fu regolata da un ente civile conosciuto come
War Relocation Authority.
Lo scopo di quest’ente governativo era monitorare la detenzione dei
giapponesi nell’interesse della sicurezza militare. L’impulso venne da parte del
1
Jeanne Wakatsuki Houston, Farewell to Manzanar, Random House, Inc., New York, 1995, p.49. Tutte le citazioni,
tranne dove diversamente indicato, sono tratte da quest’edizione; i numeri di pagina verranno d’ora in poi riportati tra
parentesi nel testo.
4
Generale John DeWitt, il capo del Western Defense Command, che etichettò tutti
i giapponesi americani come “a menace which had to be dealt with”
2
.
The Japanese race is an enemy race and while many second and third generation
Japanese born on United States soil, possessed of United States citizenship, have become
‘Americanized’, the racial strains are undiluted.... That Japan is allied with Germany and
Italy in this struggle is not ground for assuming that any Japanese, barred from
assimilation by convention as he is, though born and raised in the United States, will not
turn against this nation when the final test of loyalty comes. It therefore follows that
along the vital Pacific Coast over 112,000 potential enemies of Japanese extraction are at
large today. There are indications that these are organized and ready for concerted action
at a favourable opportunity. The very fact that no sabotage has taken place to date is a
disturbing and confirming indication that such action will be taken.
3
In risposta alle pressioni di individui e gruppi della West Coast, il Presidente
Franklin D. Roosevelt emise l’Excecutive Order 9066 il 19 febbraio 1942. Con
quest’ordinanza si autorizzava l’esercito a “stabilire le aree militari”, tra la Sierra
Nevada e il fiume Mississippi, nelle quali internare i giapponesi americani.
L’evacuazione iniziò il 25 marzo 1942 e si ultimò il 12 agosto dello stesso anno in
una zona prescritta che comprendeva l’intero stato della California, metà
dell’Oregon e di Washington, e un terzo dell’Arizona.
Manzanar è ricordato per essere stato il più grande dei dieci campi di
concentramento costruiti in America. Poiché questi campi non potevano essere
paragonati ai “Konzentrationslager” costruiti in Germania per gli ebrei, sia per la
loro funzione che per l’ordine interno, si è sviluppato dalla fine della seconda
guerra mondiale un ampio dibattito sul termine da attribuire a questi luoghi. Il
governo degli USA ufficialmente li chiamava “War Relocation Centers”; altri li
chiamavano “relocation camps”, altri ancora “internment camps” e, infine,
“concentration camps”
4
.
2
Stetson Conn, “The Decision to Evacuate the Japanese from the Pacific Coast, ‘S.F. Clear of all But 6 Sick Japanese’”,
San Francisco Chronicle, 21 May 1942, sito di riferimento www.sfmuseum.org/hist8/evac19.html
3
J. M. Yinger, Ethnicity; Source of Strength? Source of Conflict, United States Army Western Defense Command,
1943: 33-34, Albany, State University of New York Press, 1994, p. 29. Il corsivo è dell’autore.
4
Daniel Roger, “Incarceration of the Japanese Americans: A Sixty-Year Perspective”, The History Teacher, vol. 35,
num. 3, maggio 2002
5
Molti asseriscono che “relocation center” o “relocation camp” è il nome
appropriato per questi campi in quanto era la terminologia ufficiale usata dal
WRA, per esempio, Manzanar era ufficialmente conosciuto come Manzanar War
Relocation Center. Proprio per questo motivo, il National Park Service ha scelto
di usare “relocation center” quando ci si riferisce ai campi americani.
5
Comunque,
alcuni prigionieri e molti storici sono contrari all’uso di questo termine perché
coloro che erano internati in questi campi non erano solamente “relocated”, in
quanto erano sradicati con forza dalle loro case e dalle loro comunità per essere
imprigionati. Per cui il termine “relocation center” era un eufemismo, un nome
usato con il tentativo di ridimensionare e rendere innocuo lo scopo reale di questi
campi, per nascondere ciò che realmente erano.
6
1.1. 2 INTERNMENT CAMP
Un altro nome ampiamente usato per i campi americani è “internment camp” e
coloro che erano costretti a risiedere dietro il filo spinato erano chiamati
“internees”, quindi, “internment” e “internees” erano i termini maggiormente
usati al tempo della guerra per chiamare i detenuti giapponesi americani,
conosciuti altrimenti come “enemy aliens”. Nei campi in America furono
imprigionati circa 110,000 giapponesi americani, due terzi erano cittadini
americani per nascita e la parte restante non poteva aspirare a diventare cittadino a
causa delle leggi contro la naturalizzazione. Come si evince da quest’ultima
affermazione, i tre termini appena discussi non erano del tutto attribuibili ai Nisei,
che pure risiedevano nel campo, poiché questi ultimi, in quanto cittadini
americani di nascita, avevano delle possibilità maggiori rispetto agli Issei sia di
uscire dal campo che di essere considerati cittadini americani. Anche la parola
“internment” era usata dal governo degli USA con l’intento di mascherare ciò che
avveniva dietro il filo spinato.
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In realtà, gli storici fanno
un uso scorretto del termine “internment camp”, poiché il Dipartimento di
Giustizia degli Stati Uniti indicava con questo nome i campi nei quali erano
internati solo coloro che furono accusati di aver tradito l’America durante la
5
Manzanar Committee, “Reflection: Three Self-Guided Tours Of Manzanar”, Manzanar Committee, iii-iv, 1998, sito di
riferimento http://en.wikipedia.org/wiki/Japanese_American_internement
6
D. Roger, op. cit.
7
Jeffery F. Burton, Mary M. Farrell, Florence B. Lord, Richard W. Lord, Confinement and Ethnicity: An Overview of
World War II Japanese American Relocation Sites, Pullman, Washington University Press, 2002, pp. 379- 406,
6
1.1 RELOCATION CENTER/CAMP