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I
ITALIA E POLONIA DAL 1919 AL 1925
I.1. Italia e Polonia alla Conferenza di Parigi
I.1.1. L'Italia alla Conferenza di pace
Alla fine della prima guerra mondiale il governo italiano attendeva
l'adempimento del Patto di Londra del 1915, che prevedeva l'incorporazione
dei territori abitati da popolazioni italiane che ancora si trovavano al di fuori dei
confini nazionali e il raggiungimento della sicurezza strategica nell'Adriatico,
oltre a vantaggi non meglio definiti nel Mediterraneo e in Africa.
Le profonde trasformazioni avvenute durante la guerra ponevano però gli
alleati davanti ad un panorama del tutto diverso e rimettevano in forse l'esecuzione
del patto. Gli imperi Austro-Ungarico e Ottomano si erano disgregati, lasciando un
vuoto al centro dell'Europa, la Russia era in preda alla rivoluzione e gli Stati
Uniti sorgevano come potenza mondiale al posto - o quanto meno al fianco -
dei paesi europei. Gli stessi principi basilari della politica internazionale
sembravano essersi trasformati: dottrine come l'internazionalismo proletario e le
idee di Wilson sembravano imporsi come nuovi principi universalmente validi.
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Questi cambiamenti ponevano il governo italiano di fronte a una scelta:
mantenere le sue richieste fondate sull'esecuzione del Patto di Londra o
elaborare una nuova politica. La seconda soluzione era la più difficile: le nuove
idee sembravano basarsi sui principi di nazionalità e di autodeterminazione dei
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Per le interpretazioni più recenti del Trattato di Versailles: The Treaty of Versailles: A Reassessment after 75
Years. A cura di Manfred F. Boemeke, Gerald D. Feldman, Elisabeth Glaser. (Cambridge, New York,
Melbourne: Cambridge University Press and The German Historical Institute, 1998); The Legacy of the Great
War: Peacemaking, 1919, a cura di William R. Keylor, (Boston, New York: Houghton Mifflin, 1998).
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popoli che si ricollegavano agli ideali del Risorgimento, ma durante l'inizio
del secolo la politica italiana si era convertita a un nazionalismo sempre più
aggressivo.
Questa contraddizione era evidente anche nell'atteggiamento italiano
nei confronti della Grande Guerra, che non era considerata da un punto di vista
globale, europeo, ma come l'ultima guerra di indipendenza contro l'Austria. Un
simile atteggiamento era visibile anche nella condotta militare dell'Italia,
che nel corso del conflitto aveva sempre mostrato una certa riluttanza a
coordinare le proprie azioni con gli altri alleati.
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La decisione di non rinunciare alle vecchie pretese, fondate su
presupposti meno solidi che in passato e soprattutto privi di un
collegamento con i problemi generali dell'Europa, avrebbe portato
inevitabilmente l'Italia all'isolamento. Orlando, come altri politici, si rese
conto che il rischio era troppo grande non solo per la posizione
internazionale dell'Italia, ma anche perché economicamente il paese
dipendeva dagli alleati; per questo motivo il suo atteggiamento nei
confronti del Patto di Londra non era particolarmente rigido. Al
contrario, il ministro degli esteri Sonnino riteneva essenziale l'adempimento
del Patto.
Il governo francese propose di dividere la Conferenza di pace in due
parti: una in cui le potenze vincitrici si sarebbero accordate tra loro, e una per
regolare i debiti di guerra e organizzare la Società delle Nazioni. L'ambasciatore
Barrère proponeva di considerare temporaneamente sospesi gli accordi segreti tra
gli alleati per tutta la prima fase, mentre gli accordi sulle condizioni da imporre ai
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Rodolfo Mosca, "Dopoguerra e sistemazione europea. La Conferenza della pace. La questione adriatica.", in
AAVV, La politica estera italiana dal 1914 al 1943, (ERI, 1963), p.35. Per le relazioni con gli alleati: Luca
Riccardi, Alleati non amici. Le relazioni politiche tra l'Italia e l'Intesa durante la prima guerra mondiale,
(Brescia, Morcelliana, 1992).
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vinti si sarebbero dovuti limitare a Germania e Bulgaria. Questa impostazione fu
pesantemente criticata dagli italiani, che rifiutarono lo schema francese, ma senza
proporne uno alternativo; in effetti non vennero presentati altri progetti globali
di questo tipo. Significativamente la risposta italiana, criticando quella francese
per quanto riguardava l'attitudine verso la Germania e verso l'ex impero
asburgico (i francesi avevano proposto di influire in qualche modo
sull'organizzazione interna della Germania, incoraggiando tendenze
separatiste) non faceva parola su quale nuovo ordinamento l'Italia auspicasse o
prevedesse all'interno di queste zone: un esempio è dato dal completo disinteresse
di Sonnino per quanto riguardava la futura sistemazione di Austria e Ungheria. Le
iniziative portate avanti furono quindi tutte di carattere strategico, cioè volte a
salvare la superiorità italiana nell'Adriatico, come nel caso della richiesta di
partecipare con le proprie truppe all'occupazione di Budapest.
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In tutta la Conferenza della pace l'unica direttiva della politica italiana fu
il mantenimento del Patto di Londra; al contrario, ciò che sarebbe occorso per
guadagnare un posto di rilievo nella nuova società internazionale che la
conferenza sembrava voler istituire, era un piano di più ampio respiro.
Definire una chiara politica sul futuro della Germania sarebbe stato,
inoltre, l'unico modo per chiarire i nascenti attriti con la Francia. I delegati italiani si
astennero sempre dal pronunciarsi su questo problema; solo una volta, racconta
Orlando nelle sue memorie, egli si recò da Clemenceau per stabilire una
condotta comune a questo riguardo, ma l'altro non si dimostrò interessato; si
trattò comunque di una mossa troppo isolata e tardiva. Il risultato fu che la
questione tedesca venne decisa senza alcun contributo italiano. Questo punto di
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Rodolfo Mosca, "Dopoguerra e sistemazione", cit., p.48.
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vista ristretto nocque alla causa italiana, come evidenziò anche Lloyd George in
una conversazione con Orlando.
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Secondo Rodolfo Mosca, la questione adriatica, come problema della
sistemazione della zona dopo la caduta dell'impero asburgico, e considerata la
posizione italiana come potenza che aveva maggiormente combattuto l'Austria-
Ungheria e che nell'Adriatico aveva grandi interessi, aveva quattro possibili
soluzioni. La prima era di restare legati al Patto di Londra, che non prevedeva la
cessione di Fiume all'Italia; la seconda di chiedere l'esecuzione del Patto di
Londra e, in più, annettere la città all'Italia, secondo il desiderio dei suoi abitanti.
La terza soluzione era quella di controbilanciare l'acquisizione di Fiume con la
parziale rinuncia alle clausole adriatiche del Patto di Londra; la quarta era quella
di rinunciare completamente a queste clausole e di ripartire da zero,
considerando liberamente la situazione creatasi. L'Italia avrebbe dovuto fare la sua
scelta tra queste quattro diverse soluzioni, ma il governo si trovò diviso in diverse
fazioni, e soprattutto tra coloro che preferivano la soluzione più favorevole (Patto
di Londra e Fiume) e i fautori del compromesso. Gli stessi delegati, Orlando e
Sonnino, agirono diversamente di fronte alle manifestazioni di irredentismo, e
Sonnino sarà sempre inflessibile nella difesa del Patto di Londra. Mancando un
vero programma, non si raggiunsero gli accordi necessari per dare alla questione
adriatica un assetto conforme agli interessi italiani, ad esempio tramite un'intesa
con gli Stati Uniti. Orlando si accorse di queste lacune e deplorò la mancanza di
un accordo preliminare con Wilson perché si rendeva conto che una discussione
direttamente durante le riunioni sarebbe stata pregiudizievole. A questo proposito
Orlando fu rassicurato erroneamente dall'ambasciatore a Washington che
scrisse: "Wilson è con l'Italia e vuole sostenerla". Un successivo scambio di
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Rodolfo Mosca, "Dopoguerra e sistemazione", cit., p.55.
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vedute tra l'ambasciatore e il presidente americano chiarì però che le
idee di Wilson non erano del tutto compatibili con gli interessi italiani, anche
se "i suoi sentimenti (erano) sostanzialmente favorevoli".
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Wilson era contrario alla cessione di Fiume all'Italia perché riteneva
che il suo porto e la sua posizione la rendessero troppo importante per lo
sviluppo economico, e quindi per il futuro equilibrio, dell'area danubiana. Era
contrario anche all'adempimento del Patto di Londra, sia perché la frontiera che
ne sarebbe risultata non avrebbe rispettato il principio di nazionalità, sia perché
nella sua concezione la sicurezza degli stati non avrebbe dovuto essere tutelata
attraverso annessioni territoriali, ma grazie alla cooperazione internazionale ed in
particolare alla Società delle Nazioni.
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Nonostante le crescenti aspettative irredentiste del paese, le
prospettive per l'Italia, all'aprirsi della conferenza, non sembravano affatto
buone, infatti la soluzione più favorevole, che mirava ad ottenere l'adempimento
del Patto di Londra più la cessione di Fiume, sembrava fuori questione.
Poiché anche Lloyd George e Clemenceau erano contrari alla cessione di
Fiume all'Italia, la delegazione italiana avrebbe potuto essere intransigente
almeno per quanto riguardava il Patto di Londra, che per Francia e Gran
Bretagna avrebbe dovuto essere vincolante, ma Wilson riuscì ad ottenere
l'appoggio di Lloyd George e Clemenceau per imporre il suo punto di vista.
Da metà febbraio i lavori furono sospesi per più di un mese. Alla
riapertura della Conferenza, Orlando, come comunicherà al re il 12 marzo,
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Rodolfo Mosca, "Dopoguerra e sistemazione", cit., p.65. Sulla posizione di Wilson nei confronti dell'Italia vedi
anche Daniela Rossini, L'America riscopre l'Italia. L’Inquiry
,
di Wilson e le origini della Questione Adriatica,
1917-1919 (Roma: Edizioni associate, 1992); Daniela Rossini, Il mito americano nell'Italia della Grande
Guerra, (Bari: Laterza, 2000).
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Su Wilson alla conferenza della pace: Arthur Link, Wilson the Diplomatist. A Look at His Major Foreign
Policies, (Chicago: Quadrangle, 1957) Jean Baptiste Duroselle, From Wilson to Roosevelt. The Foreign Policy
of the United States, 1913-1945, (Cambridge: Harvard University Press, 1963).
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trovò "un peggioramento della nostra situazione".
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Le questioni
riguardanti l'Italia vennero discusse per la prima volta il 4 aprile, per caso e
senza preparazione, circostanza che non poteva non sfavorire ulteriormente glí
italiani. Clemenceau propose di sentire anche gli jugoslavi ed Orlando
protestò; la discussione sull'argomento fu proposta allora all'indomani
dell'individuazione di una soluzione per il problema tedesco, e a quel punto la
posizione italiana era ormai senza speranza. Orlando affermò che l'Italia non
avrebbe potuto firmare il trattato di pace con la Germania prima che le sue
questioni fossero state risolte, e questo ritardò più volte la chiamata dei delegati
tedeschi. Il 13 aprile la discussione sull'argomento diventò molto
movimentata, nonostante l'attitudine conciliatoria di Wilson, che propose di
chiamare i delegati tedeschi dopo che lui ed Orlando si fossero intrattenuti in
una serie di colloqui. I colloqui però non migliorarono affatto la situazione, anzi
misero a nudo tutta l'intransigenza di Wilson.
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La situazione senza sbocchi condusse le due parti a mosse
particolarmente infelici dal punto di vista politico. Orlando, dopo aver avvertito il
re, minacciò di abbandonare la conferenza: una rottura, sebbene pericolosa, gli
sembrava meno pericolosa che trascurare in modo plateale le rivendicazioni
dell'opinione pubblica, rischiando di alimentare un dissenso interno. Wilson, da
parte sua, pensava che gli italiani fossero sostanzialmente favorevoli alle sue idee,
così rivolse un appello diretto al popolo italiano, causando invece una reazione
ostile.
L'abbandono della Conferenza da parte di Orlando fu approvato
dall'opinione pubblica, ma sul piano della politica internazionale non ebbe il
minimo risultato, infatti Orlando dovette tornare a Parigi e vi trovò una
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Rodolfo Mosca, "Dopoguerra e sistemazione", cit., p.67.
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Rodolfo Mosca, "Dopoguerra e sistemazione", cit., p.71.