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particolare, lo studio della realtà istituzionale di un carcere (Regina Coeli) abbracciando l’ottica
interazionista sviluppata da Goffman. Su quest’ultimo punto si rende sin da ora necessario chiarire che
l’uso di concetti interpretativi utilizzati dal noto sociologo è stato allargato allo studio di coloro che
operano all’interno dell’istituzione, partendo dalla convinzione che un’istituzione totale sia terreno
fertile per l’osservazione non solo degli attori coattivamente presenti ma anche per chi al suo interno
svolge un ruolo professionale.
Nel primo capitolo sono sviluppati i resoconti di tre ricerche sociologiche che offrono, oltre ad un
riferimento teorico, la possibilità di penetrare l’altra facciata dell’istituzione penitenziaria: la vita
quotidiana della popolazione detenuta. Si ritiene molto importante lo sviluppo di questa prima parte
perché la restante trattazione, essendo svolta in funzione del “punto di vista” degli operatori, pone in
questo capitolo le basi concettuali per avere, sia pure non direttamente, l’“altra visione” istituzionale,
quella dei detenuti. In particolare è esposta la ricerca di Goffman (2001), svolta all’interno di
un’istituzione psichiatrica che, come il carcere, rientra nel più ampio concetto di “istituzione totale”. Si
darà pertanto, non solo la definizione di questa ma si analizzeranno le diverse sfaccettature della vita
“formalmente amministrata” nonché le modalità d’azione che i diversi attori mettono in campo per
preservare integre porzioni del proprio “sé”. La ricerca di Clemmer (1941) introduce, invece, il
concetto di “prigionizzazione”, ovvero, la “contaminazione” dell’individuo ai precetti della subcultura
penitenziaria, la quale, impattando fortemente sull’individualità della persona detenuta, rende
complessi (disorganizzati) i successivi adattamenti alla società esterna. L’ultima ricerca esposta
riguarda il lavoro di Sykes (1958), ovvero l’introduzione del concetto di “privazione”. Si compone di
un’analisi che punta ad evidenziare tutta quella serie di rinunce materiali e immateriali che minacciano
profondamente la personalità del detenuto ed il suo senso di dignità.
Nel secondo capitolo, si ripercorre la genesi del carcere e della pena ricorrendo al confronto con alcune
società occidentali. Saranno pertanto sviluppate le principali teorie del concetto di pena, i primi
modelli sperimentali di carcere sino ad arrivare alla disamina della storia delle istituzioni penitenziarie
in Italia, ovvero, dal primo regolamento penitenziario dell’Italia unita sino ai giorni nostri. Un
particolare rilievo sarà dato all’impianto legislativo su cui l’attuale sistema penitenziario si regge.
Il capitolo terzo permette di avere una visione d’insieme sull’organizzazione dell’amministrazione
penitenziaria, suddivisa in amministrazione centrale e periferica. Saranno inoltre trattate le diverse aree
operative di cui si compone un istituto penitenziario alla luce della legge di riforma 395/90 nonché
particolare attenzione sarà accordata ai diversi profili degli operatori penitenziari.
Nel quarto ed ultimo capitolo è descritta la ricerca empirica. Si tratta dell’analisi istituzionale ed
organizzativa del carcere “Regina Coeli” svolta con l’utilizzo dello strumento dell’osservazione e
dell’intervista. L’analisi parte da un’esposizione storica del contesto, si muove lungo le linee
professionali contrassegnate dai diversi ruoli ricoperti dagli attori istituzionali, studiandone i
meccanismi di interazione ed arriva, mediante l’utilizzo delle categorie concettuali dell’analisi
goffmaniana, a rintracciare tutta quella serie di adattamenti che hanno la funzione di proteggere il self
dell’attore sociale. Diviene fondamentale l’analisi delle componenti culturali che ostacolano il
cambiamento mediante l’utilizzo di due codici archetipi, materno/paterno (ovvero
rieducazione/custodia), i quali si prestano a codificare il rapporto staff-detenuti. Sarà inoltre analizzato,
in un tessuto carico di significati, di valori e di rappresentazioni culturali quale il carcere, la creazione
di sistemi paralleli, sia a livello normativo, sia a livello comunicativo e interprofessionale, cui
ricorrono gli attori per gestire la complessità organizzativa.
Si ringrazia la direzione del carcere “Regina Coeli” e gli operatori tutti che, grazie alla disponibilità
e all’interesse mostrato, hanno reso possibile la realizzazione di questo lavoro di ricerca.
7
CAPITOLO PRIMO
Il carcere come istituzione totale e come organizzazione
“La trottola è un antico giocattolo popolare. Diverte, affascina,
abbaglia con i suoi riflessi cromatici. Fatta ruotare velocemente sul suo
asse verticale, dà la falsa impressione di essere in quiete e i colori sono
indecifrabili. Solo quando per via degli attriti rallenta il moto, la
trottola s’inclina, rivela i suoi veri colori e la sua vera forma, e cade”.
Dante Guida
§ 1.1. Erving Goffman: concetto di istituzione totale
“Un’istituzione totale può essere definita come il luogo di residenza e di lavoro di gruppi di persone
che - tagliate fuori dalla società per un considerevole periodo di tempo - si trovano a dividere una
situazione comune, trascorrendo parte della loro vita in un regime chiuso e formalmente amministrato”
(Goffman, 2001:25). Così scrive Goffman in apertura di Asylums, ove realizza una descrizione
toccante di “ciò che realmente succede” in un’istituzione totale, al di là delle retoriche scientifiche,
terapeutiche o morali con cui chi detiene il potere dell’istituzione giustifica le degradazioni degli esseri
umani che solitamente avvengono. Egli, infatti, rovescia, la prospettiva e, rifiutando di dare per
scontate le ragioni delle istituzioni, si pone dal punto di vista degli “ospiti” di queste, rivelando la
disumanità e l’inutilità alla cura e alla riabilitazione, mettendo in evidenza quello che secondo lui è il
vero obiettivo delle istituzioni: privare uomini e donne del “corredo della loro identità”, regolando non
una parte delle attività ma l’intera vita, costringendoli a diventare dei “virtuosi della sopravvivenza in
un mondo quotidiano irto di pericoli potenziali”.
Il presupposto da cui parte Goffman per il suo studio, è la ricerca di un’obiettività come punto di
arrivo piuttosto che di partenza, a causa delle situazioni squilibrate in cui spesso tali studi si collocano.
Tale posizione si manifesta nella sociologia di Goffman nel concetto di un’obiettività che può essere
raggiunta, almeno in sociologia, riconoscendo le asimmetrie di ruolo, di posizione sociale o di potere
che danno una certa impronta all’interazione sociale. Ciò è visibile nella consapevolezza dell’autore di
poter rintracciare nello staff una posizione capace di produrre una “versione ufficiale della realtà”. Un
ricercatore “obiettivo” dovrebbe, quindi, mettere da parte questa versione analizzando la cultura e la
struttura istituzionale che regola l’interazione sociale. Ciò è fatto da Goffman mediante una scelta
metodologica precisa, ossia l’osservazione diretta e l’interazione faccia-a-faccia, come mezzi mediante
i quali partecipare al ciclo di vita cui gli internati sono soggetti.
L’ordine dell’interazione è per lui di tipo rituale. La ritualità ha propriamente la funzione di proteggere
il self dell’attore sociale, cercando di affermare la supremazia di questo contro le pretese del
formalismo delle organizzazioni; sono i piccoli gesti a parlare e a rievocare la dimensione tipicamente
umana della resistenza all’oppressione.
L’idea da cui parte lo studioso americano è che normalmente nella vita moderna gli uomini tendano a
Psicologo all’interno della Casa Circondariale di San Severo, ha collaborato alla stesura del testo “Voglia di vivere…” poesie dal
carcere, 1989, curato da Francesco Armenti, Assistente volontario degli Istituti di Prevenzione e Pena e attivo in altri ambiti del sociale.
8
dormire, lavorare, divertirsi in luoghi diversi sotto differenti autorità, seguendo schemi razionali tra
loro diversi. L’istituzione totale unifica invece in un medesimo luogo e sotto un’unica autorità tutte
queste attività quotidiane, abolendo quella sorta di “personale economia d’azione” che noi
identifichiamo con la libertà individuale.
Questo testo fondamentale ci dice che è solo “lottando contro qualcosa che il sé può emergere”
(Goffman, 2001: 336); ma anche che, senza qualcosa cui appartenere, non esiste sicurezza per il sé.
Tuttavia l’inglobamento totale e il coinvolgimento con una qualsiasi unità sociale, implica una
riduzione di sé; si tratta di un difficile equilibrio, in cui non servono grandi strategie, ma piccole
tecniche con cui resistere alla pressione. Goffman, infatti, ci dice che “il nostro status è reso più
resistente dai solidi edifici del mondo, ma il nostro senso d’identità personale, spesso risiede nelle loro
incrinature” (Goffman, 2001: 336).
L’opera comprende quattro saggi, originariamente scritti separatamente, i quali tendono a
puntualizzare la situazione dell’internato. Il primo saggio, Sulle caratteristiche delle istituzioni totali, è
un’indagine generale sulla vita sociale che si svolge in queste organizzazioni. Il secondo saggio, La
carriera morale del malato mentale, analizza gli effetti iniziali dell’istituzionalizzazione sulle relazioni
sociali tipiche di un individuo prima che diventi un “internato”. Il terzo, La vita sotterranea di
un’istituzione pubblica, si riferisce al tipo di legame che si presume l’internato abbia con l’istituto e, in
particolare, al modo in cui egli può interporre una distanza tra sé e ciò che ci si aspetta da lui.
L’ultimo saggio, Il modello medico e il ricovero psichiatrico, è costituito da un’analogia tra il rapporto
sociale che si instaura nel momento in cui un “cliente” si mette nelle mani di un tecnico per la
riparazione di un oggetto e la versione medica di tale riparazione. Tale analogia con l’oggetto da
riparare aggiunge drammaticità alla condizione dell’internato diventato in questo contesto un oggetto
che non può essere riparato e che tuttavia continua a funzionare.
È nel primo saggio che l’autore traccia la sottile linea rossa che separa i due mondi attigui; lo fa
trattando separatamente il mondo dell’internato e quello dello staff, rintracciando infine, nelle
cerimonie istituzionali il momento di fusione dei due mondi. In questo saggio, Goffman, definisce il
concetto di “istituzione totale” nell’introduzione allo stesso: “ogni istituzione si impadronisce di parte
del tempo e degli interessi di coloro che da essa dipendono, offrendo in cambio un particolare tipo di
mondo: il che significa che tende a circuire i suoi componenti in una sorta di azione inglobante. Questo
carattere inglobante o totale è simbolizzato nell’impedimento allo scambio sociale e all’uscita verso il
mondo esterno, spesso concretamente fondato nelle stesse strutture fisiche dell’istituzione: porte
chiuse, alte mura, filo spinato, rocce, corsi d’acqua, foreste o brughiere” (Goffman, 2001:33). L’autore
individua cinque categorie di istituzioni totali, ma il suo oggetto di indagine sono gli istituti
psichiatrici
1
:
istituzioni nate a tutela di incapaci non pericolosi: istituti per ciechi, vecchi, orfani o indigenti;
luoghi istituiti a tutela di coloro che, incapaci di badare a se stessi, rappresentano un pericolo per la
comunità: sanatori per tubercolotici, ospedali psichiatrici e lebbrosari;
1
Nel 1955 Erving Goffman si trasferisce nell’ospedale di St. Elizabeth a Washington per studiare il comportamento di pazienti,
infermieri e medici. Ci resta diciotto mesi, e inizialmente ricopre il ruolo di assistente al corso di ginnastica, precisando, quando gli viene
richiesto, di essere uno studioso della vita di comunità. Sua opinione è che qualsiasi gruppo di persone sviluppi una vita personale che
diventa ricca di significato quando ci si avvicina ad essa e che un buon modo per apprendere qualcosa su questi mondi possa essere
partecipare al “ciclo di vita quotidiana” cui gli internati sono soggetti. Prende appunti, frequenta ambulatori, corsie, stanze, aree comuni,
scantinati, cucine, magazzini. S’interessa, in particolare, degli scambi legali e illegali tra pazienti, delle loro relazioni reciproche, delle
interazioni con il personale medico e paramedico, delle cerimonie d’ingresso, orari, cibo, curiosa tra gli oggetti personali dei degenti:
soprammobili, abiti, libri, mazzi di carte.
9
istituzioni che proteggono la società da ciò che si rivela un pericolo intenzionale nei suoi confronti:
prigioni, penitenziari, campi per prigionieri di guerra, campi di concentramento;
istituzioni create allo scopo di svolgervi attività che trovano la loro giustificazione sul piano
strumentale: furerie militari, navi, collegi, campi di lavoro, piantagioni coloniali e grandi fattorie;
organizzazioni definite come “staccate dal mondo” che hanno la funzione di luoghi di preparazione
per religiosi: abbazie, monasteri, conventi, chiostri.
Il mondo dell’internato si caratterizza per diversi gradi di riduzione del sé. Il primo di questi è segnato
dalla barriera che le istituzioni totali erigono tra l’internato e il mondo esterno; una sorta di “morte
civile” come la definisce l’autore, ove qualsiasi tipo di diritto è delegato ad altri. Già la stessa
ammissione all’interno dell’istituzione spoglia l’individuo dal proprio sé; questi è costretto ad
abbandonare il suo aspetto abituale e gli strumenti per conservarlo. Si tratta di una vera e propria
“mutilazione personale”. Per paradosso, mentre l’istituzione totale sopprime le “differenze valide” nel
mondo esterno, può risultare democratica nell’assicurare all’internato che non sarà trattato
diversamente dagli altri, concedendo quindi una fonte d’aiuto oltre che di privazione. Il meccanismo di
riduzione del sé è rintracciabile nella perdita del proprio nome (in alcune istituzioni totali è cambiato
per sancire l’effettivo distacco col mondo esterno), ma non di meno nell’imposizione di perquisizioni
personali o del proprio letto. Si tratta di una serie di contaminazioni della propria identità
2
che lo stesso
stare a contatto con gruppi d’età differenti o etnie differenti, può acuire.
“Lo schema interpretativo delle istituzioni totali incomincia ad agire, automaticamente, al momento
dell’entrata dell’internato, in quanto lo staff sa che l’internamento di un individuo è, prima facie,
l’evidenza del suo essere il tipo di persona per il cui trattamento l’istituzione è stata creata. Il
prigioniero politico deve essere un traditore; il detenuto comune deve aver infranto la legge; il
ricoverato in un ospedale psichiatrico deve essere malato [...]. Il problema dello staff è qui quello di
trovare un crimine che sia adatto alla punizione e ricostruire la natura dell’internato per adattarla al
crimine” (Goffman,2001:112,113). Per ottenere questo risultato, l’istituzione, ci dicono Aldo Ricci e
Giulio Salierno
3
, ha una strategia precisa: spersonalizzare il detenuto, fargli salire una scala graduale di
alienazione, renderlo disponibile per l’assimilazione definitiva delle strutture del carcere. Si tratta di
una strategia che scatta al momento stesso dell’ingresso in prigione e viene modulata da un iter che
sancisce, come del resto l’ingresso in tutte le istituzioni totali, una graduale perdita di autonomia e di
individualità:
L’ingresso in carcere. “Le procedure di ammissione potrebbero meglio essere definite come
un’azione di ‹smussamento› o una ‹programmazione›, dato che in seguito ad un tale procedimento, il
nuovo arrivato si lascia plasmare e codificare in un oggetto che può essere dato in pasto al meccanismo
amministrativo della istituzione, per essere lavorato e smussato dalle azioni di routine” (Goffman,
2001);
Traduzione in carcere.
2
Goffman le definisce “esposizioni contaminanti” dovute alla soppressione della privacy ed all’imposizione di condizioni ambientali
sfavorevoli e pertanto fonte di malessere. Questo perché:
tutte le espressioni della vita si svolgono nello stesso luogo e sotto il controllo della stessa autorità;
ogni fase delle attività giornaliere dei singoli si svolgono in mezzo a tanti altri soggetti che sono trattati nella stessa maniera e a cui
si richiede di fare la medesima cosa;
tutte le fasi sono strettamente correlate e calcolate nel tempo in modo irreggimentato.
3
Aldo Ricci, laureato in sociologia ha scritto questa ricerca sociologica sulla violenza penale, Il carcere in Italia, verso la fine degli anni
sessanta, con Giulio Salierno che ha provato di persona i rigori del carcere. Qui, i meccanismi più segreti del sistema penitenziario
vengono ampiamente svelati dalle testimonianze dei diretti interessati: detenuti, agenti di custodia, dirigenti, magistrati, funzionari del
ministero di grazia e giustizia.
10
La portineria. Il passaggio all’interno delle mura dell’internamento è anche il passaggio, per
l’uomo, dallo status di soggetto a quello di oggetto
4
. Lascia il suo ruolo sociale per apprendere il
“ruolo dell’escluso”;
Ufficio matricola e perquisizione. Si tratta di una trascrizione meccanica delle generalità ove non è
mai presente il rispetto dell’individualità dell’arrestato, “l’uomo ridotto a numero”. Questo iniziale
meccanismo depersonalizzante raggiunge l’apice nel rituale della perquisizione. È sin da questo
momento che l’istituzione mira a nullificare l’entrante imponendogli il peso del proprio potere
incondizionato, mutilando per sempre una parte rilevante del sé della persona in oggetto.
La fornitura. Dopo la perquisizione l’arrestato è condotto al magazzino dove gli consegnano la
“fornitura”. Il mondo personale del detenuto comincia a perdere consistenza.
La cella di isolamento. Il detenuto in attesa di giudizio affronta questo momento subito dopo il suo
ingresso in carcere. Le modalità dell’istituzione cominciano ad agire in modo violento, il silenzio
assoluto e l’assenza totale di comunicazione con il mondo esterno fanno crollare le difese più solide e
meglio innervate.
L’individuo che vive nell’istituzione, comprende di non poter più separare il sé dalle situazioni
mortificanti che lo circondano, come abitualmente accadeva prima del suo ingresso, attuando il
fenomeno che Goffman definisce del “circuito”. Ogni tentativo di soddisfazione dei suoi bisogni e
obiettivi lo farà facilmente scivolare lungo il terreno delle sanzioni. Per evitare di cadere in ciò sarà
obbligato a chiedere il permesso per attività che fuori dall’istituzione era solito portare a termine da
solo: fumare, radersi, andare al gabinetto, telefonare, spendere soldi o imbucare una lettera. Questa
rigidità può ridursi lievemente in cambio dell’obbedienza allo staff, il quale la restituisce sotto forma
di privilegi e compensi (tipiche modalità organizzative delle istituzioni totali). Il concetto stesso di
punizione e di privilegio
5
, ci dice Goffman, non corrisponde al significato che esso assume nel mondo
“civile” e può anche provocare l’insorgere di altri singolari processi che si innescano nell’ambiente
“totalizzante” come l’uso di un gergo
6
“tipico”. Goffman, infatti, pone in evidenza come tale
linguaggio permei i luoghi e il dialogo tra gli internati. In uno spazio simile, ad essere mobili sono gli
internati e non il sistema, ed il “gergo istituzionale” adoperato dagli internati serve per descrivere gli
eventi cruciali. Particolarità di tale gergo è di essere noto anche al personale meno qualificato che lo
adopera nei colloqui con gli internati, riprendendo il modo usuale di parlare sia con i superiori sia con i
visitatori.
Gli internati tendono a sviluppare un senso di ingiustizia comune a tutti e di amarezza contro il mondo
esterno. Questa reazione al sentimento di colpa e di privazione totale risulta, come ci dice Goffman,
più evidente nella vita carceraria e viene esplicitata dalla citazione che lo stesso riprende da Hassler in
Diary: “l’indignazione che provo verso la prigione e le sue regole, non è quindi l’indignazione
dell’innocente perseguitato o del martire, ma quella del colpevole il quale sente che la punizione che lo
ha colpito va oltre ciò che merita, e che gli viene inflitta da chi non è certamente privo di colpe”,
(Hassler, cit. in Goffman, 2001: 85).
4
In questo senso, Franco Basaglia ne L’istituzione negata così si esprime: “dal momento in cui oltrepassa il muro dell’internamento, il
malato entra in una nuova dimensione di vuoto emozionale[…] viene immesso, cioè, in uno spazio che, originariamente nato per renderlo
inoffensivo ed insieme curarlo, appare in pratica come un luogo paradossalmente costruito per il completo annientamento della sua
individualità, come luogo della sua totale oggettivazione” (Basaglia, 1968).
5
Le punizioni come conseguenza delle infrazioni alle regole, sono parte costitutiva della normale prassi carceraria. Queste
contribuiscono a determinare l’ulteriore degradazione e disumanizzazione dei reclusi, già insite in tutta la struttura carceraria. Le
ricompense, invece, sono costituite da concessioni minimali e irrilevanti rispetto alle normali consuetudini della vita libera. Il gioco della
concessione della ricompensa permette il controllo delle “tensioni” istituzionali e la loro risoluzione a favore della stessa istituzione.
Questo “gioco” non sarebbe possibile se non fosse costantemente contrapposto a quello degli “obblighi” e quindi delle punizioni
conseguenti, nei casi di violazione degli stessi (Ricci, Salierno, 1971).
6
I reclusi sono soliti esprimersi tra loro in un gergo particolare, fatto di gesti e parole, con cui si designano fatti o situazioni antecedenti
al carcere o ad esso immanenti. Un detenuto, ad esempio, avvisa un compagno del sopraggiungere di un agente raschiandosi la gola o
grattandosi una guancia con le dita. Una situazione favorevole è indicata strofinando lievemente il mento con il palmo della mano (Ricci,
Salierno, 1971).
11
L’internato percorre nella sua carriera
7
morale diverse fasi di adattamento; queste vanno dal “ritiro
dalla situazione
8
”, alla “linea intransigente
9
”, alla fase di “colonizzazione
10
”, ed infine alla
“conversione
11
”. Questa carriera morale inizia con la costruzione, da parte dell’internato, di una storia
biografica da poter raccontare, in cui il sé diviene il punto focale e serve per giustificare la
degradazione nella quale si trova.
Il “tempo morto” trascorso in un’istituzione totale pone gli internati alla continua ricerca di attività di
rimozione, alcune delle quali collettive, come i giochi nei prati, i balli, la lettura, etc. Nelle parole di
Goffman: “ogni istituzione totale può essere considerata come una sorta di mare morto, nel mezzo del
quale pullulano piccole isole di attività vitali e molto stimolanti” (Goffman, 2001: 96).
L’individuo che avrà trascorso un sufficiente periodo all’interno di un’istituzione totale avrà esperito
una tale alienazione che si manifesterà in perdita o mancanza di cognizioni
12
circa alcune abitudini
ritenute indispensabili nella società libera. Siamo dinanzi al processo che Goffman definisce col
termine “disculturazione
13
”. Al momento della dimissione il soggetto sarà solito domandarsi: “ce la
farò fuori?” e tale ansia potrà essere interpretata come l’essere ancora “malato” per far fronte alle
responsabilità dalle quali l’istituzione totale lo ha liberato. L’esito finale sarà, per l’ex internato, lo
sforzo di nascondere il suo passato avendo vissuto una condizione sfavorevole tale da avergli inflitto
uno stigma che si sforzerà di nascondere per tentare di “passare oltre”. Si troverà a dover vivere
limitato nella propria libertà e a dipendere ancora dall’istituzione che lo ha in qualche modo affrancato.
Tale è la situazione di chi esce di prigione e mantiene un impegno formale con l’amministrazione
come l’obbligo di presentarsi regolarmente al controllo e di tenersi lontano dai circoli dai quali
proveniva prima dell’arresto.
7
Il concetto di “carriera”, tratto dalla sociologia delle professioni, descrive le sequenze interattive in cui un attore viene socialmente
costruito come “problema relazionale”, malato e infine internato. Tale concetto è centrale nella cosiddetta labelling theory, una corrente
di ricerca della sociologia americana che ha studiato, a partire dagli anni Cinquanta, i meccanismi di definizione sociale della devianza
(Dal Lago, 2001).
Tale concetto, per Goffman, presenta contemporaneamente due facce:
una si ricollega a meccanismi interni, come l’immagine di sé ed il sentimento di identità;
l’altra appartiene ad un complesso istituzionale che proviene dall’esterno e riguarda la posizione ufficiale, la figura giuridica, lo
stile di vita (Goffman, 2001).
8
In questa prima fase, l’internato “ritira” apparentemente l’attenzione da tutto, riducendola ai soli eventi relativi al proprio corpo. Si
tratta della fase di “regressione” che rappresenta lo stesso tipo di adattamento della “psicosi carceraria” o dell’ “istituzionalizzazione”
(Goffman, 2001).
9
In questa seconda fase, l’internato sfida intenzionalmente l’istituzione rifiutando, apertamente, di cooperare con il personale. Il fatto di
continuare a rifiutare l’istituzione totale richiede spesso di mantenere un certo interesse nei confronti della sua organizzazione formale, e
quindi, paradossalmente, un tipo profondo di coinvolgimento nell’intera istituzione (Goffman, 2001).
10
Questo terzo tipo di adattamento dà all’internato l’idea di vivere la parte di realtà fornita dall’organizzazione come se si trattasse di
tutta la realtà, tale da costituire per lui un’esistenza stabile e relativamente felice, basata sul massimo delle soddisfazioni che l’istituzione
può offrire. Il mondo esterno diviene un termine di paragone per dimostrare la desiderabilità della vita istituzionale. Per i “coloni”
potrebbe essere necessario commettere delle infrazioni per trovare un modo, apparentemente involontario, di continuare la detenzione
(Goffman, 2001).
11
In questo ultimo tipo di adattamento il paziente sembra assumere su di sé il giudizio che in genere lo staff ha di lui tentando di recitare
il ruolo del perfetto ricoverato. Segue una linea maggiormente disciplinata presentandosi come colui che mette a completa disposizione
dello staff il suo entusiasmo istituzionale. Possono essere offerte due possibilità di conversione:
una per il nuovo entrato, che può adottare dopo un certo travaglio interno per arrivare ad assumere il giudizio psichiatrico fatto su di
lui;
l’altra per il cronico, che adotta il modo di fare dei sorveglianti aiutandoli anche a trattare gli altri pazienti con una severità che
supera talvolta quella dei sorveglianti stessi (Goffman, 2001).
12
Dall’intervista riportata in Il carcere in Italia al detenuto B: “sai che cosa pensi in quel momento? Senti che sei stato escluso da due
sistemi, cioè non sei né fuori né dentro…sei lì solo, non hai più niente perché prima sei stato escluso da un sistema e ti hanno messo
dentro […] lì in carcere stavi male senz’altro, comunque c’era questo ambiente che ti eri creato, invece fuori non hai più niente,
assolutamente niente, non sei né in un sistema né in un altro, sei fregato, ecco la parola. Questa penso sia la vera situazione. Per questo
credo si determini questo panico, questa angoscia, perché l’angoscia è quando tu non sai dove appoggiarti… e anche se incontri delle
persone, amici, così, che ti salutano “ciao come stai”, senti proprio quasi fisicamente questo distacco che non riuscirai mai più a colmare
anche se l’amicizia che prima ti legava a queste persone continua… ti fanno sentire che sei un escluso. Credo veramente che la galera ti
escluda da tutte le cose, come il manicomio, penso che sia la stessa cosa”, (Ricci, Salierno, 1971: 296).
13
Tale meccanismo è lo stesso che Salierno e Ricci individuano all’interno del carcere, infatti, la procedura d’ammissione nello stesso,
provoca nell’arrestato il “fermo” del suo mondo culturale. Se la detenzione si prolunga egli regredirà sino all’incapacità permanente ad
affrontare i normali fenomeni del vivere sociale, una volta riacquistata la libertà (Ricci, Salierno, 1971).
12
È il mondo dello staff ad occuparsi delle persone ivi rinchiuse, le quali “nella loro qualità di materia
di lavoro, possono assumere, talvolta, le medesime caratteristiche degli oggetti inanimati” (Goffman,
2001). Ciò è in sostanza in conflitto con gli stessi obiettivi che l’istituzione si pone: il mantenere uno
standard di vita umano e il rispetto di alcuni diritti degli internati in quanto persone. Altra fonte di
conflitto viene individuata da Goffman tra l’esigenza di un livello di vita umano e l’efficienza
dell’istituzione: “se gli internati devono avere la testa pulita ed essere facilmente individuabili, sarà
utile rasarli completamente, anche se la cosa non risulta molto estetica. Su questa base alcuni ospedali
psichiatrici hanno trovato utile estrarre i denti ai pazienti che mordono, fare un'isterectomia alle
pazienti che vivono in promiscuità e sottoporre a lobotomia i cronici violenti” (Goffman, 2001: 107).
Pensiero comune allo staff è che sotto lo stimolo della minaccia, del premio, della persuasione, gli
oggetti umani possano essere educati ed istruiti. Accade però che professionisti e staff in contatto con
gli internati, avvertano la discrasia della loro stessa azione che, da un lato costringe gli internati
all'obbedienza e dall'altro non concede le modalità affinché questa si manifesti, non essendo mantenuto
un livello di vita umano e non mantenendo quindi, la stessa istituzione, le finalità a cui è preposta. La
possibilità che gli internati diventino oggetto di simpatia e di comprensione da parte dello staff, è
legata a ciò che può definirsi “ciclo di coinvolgimento” di cui spesso si parla nelle istituzioni totali.
Questo lasciarsi coinvolgere da parte dello staff, può portarli ad essere colpiti da ciò che fanno e
soffrono i pazienti, mettendoli in una posizione che può risultare minacciosa nei confronti della
distanza mantenuta dagli altri membri dello staff.
L’istituzione in questi casi si serve della mobilità sia interna che esterna per accentuare
l’atomizzazione degli individui ed evitare una presa di coscienza collettiva. Il collante tra questi due
mondi separati (staff/internati) è individuato dall’autore nel momento cerimoniale
14
perché,
“un’istituzione totale ha probabilmente bisogno di queste cerimonie collettive in quanto è qualcosa di
più di un’organizzazione formale; ma le sue cerimonie risultano spesso miserevoli e monotone, forse
perché l’istituzione è qualcosa meno di una comunità” (Goffman, 2001: 136). Qualsiasi vantaggio
portino queste visite alla vita quotidiana dell’istituto, servono a ricordare che l’istituzione non è un
mondo a sé ma mantiene rapporti burocratici e subordinati con le strutture del mondo esterno. Lo staff
si trova a giocare più di un ruolo di controllo
15
, infatti, queste cerimonie vengono spesso presenziate da
un esponente ufficiale di alto grado, il quale si veste bene, si commuove per l’occasione, sorride, parla,
dà strette di mano. Una delle funzioni degli internati
16
più conosciuti nell’istituzione sarà per riflesso
quella di fornire ad un gruppo di membri dello staff, alcune persone cui siano abbastanza legati da
poter giocare, nei loro confronti, il ruolo di vecchi zii. Il fatto stesso che la cerimonia modifichi per un
periodo limitato la relazione abituale tra internato e staff, dimostra che la differenza tra i due gruppi
non è inevitabile e immodificabile. Ma, come scrive Goffman, nel momento in cui si fa parte di
14
Si tratta di un “incontro istituzionalizzato” caratterizzato dall’abbandono delle formalità e dei ruoli e da un ammorbidimento della
dimensione autoritaria abituale. Tra le forme più comuni di cerimonie istituzionali Goffman cita il “giornale interno”, caratterizzato da
notizie locali e notizie dal mondo esterno, la “festa annuale”, gli “sketches satirici”, il “parlatorio” (luogo in cui l’arredamento e il
comportamento generale è più vicino agli standard esterni che non a quelli in cui realmente vive l’internato), l’abitudine di aprire una
volta l’anno l’ospedale. Naturalmente quello che viene esposto al pubblico è sempre la facciata nuova dell’istituzione; una sorta di
“messa in scena istituzionale” che traduce “un processo di simbolizzazione”. Infatti, la facciata che l’istituzione mostra è probabilmente
la parte nuova che cambierà ogni qual volta saranno apportati ammodernamenti e aggiunte. Così, l’esposizione di fotografie all’entrata
delle istituzioni totali, raffiguranti il ciclo di attività che il malato ideale svolge insieme allo staff ideale, pur avendo poco a che fare con i
fatti reali della vita istituzionale, offrono all’internato, oggetto di scena, il semplice piacere di aver passato una mattinata posando per il
fotografo.
15
Per quanto concerne il discorso del controllo, vediamo che questo non si caratterizza per un flusso unico che va dall’organizzazione
all’internato, bensì vi è un controllo che gli stessi internati possono detenere sullo staff: provocare incidenti, rifiuto in massa di un
particolare cibo, il rallentamento nella produzione del lavoro etc. “E' in definitiva, lottando contro qualcosa che il sé può emergere”. In
generale, il controllo sociale esercitato da parte di internati su altri internati, è debole. Questo avviene per paura delle possibili privazioni
che seguono al comportamento negativo di un singolo e che possono avere come conseguenza maggiori restrizioni per i restanti soggetti
rinchiusi nello stesso reparto ( Goffman, 2001).
16
Non mancano esempi di opposizione da parte dei ristretti all’immagine di efficienza che l’istituzione in tali cerimonie vuol far
trasparire, infatti, dallo studio di Naeve, “A Field of Broken Stones”, ripreso da Goffman, emerge quanto gli internati artisti abbiano
rifiutato la libertà di dipingere per evitare di produrre qualcosa che potesse essere usato dallo staff come l’evidenza del carattere
superiore dell’istituzione.
13
un’istituzione, si viene vissuti come in possesso di alcuni tratti e qualità di carattere essenziali; tratti
che differiranno radicalmente a seconda che si appartenga al gruppo curante o al gruppo degli internati.
Quanto più l’istituzione incoraggerà l’idea che staff e internati appartengono a categorie umane
completamente diverse, tanto più profondo risulterà il dramma della differenza
17
tra loro e più
incompatibile diventerà la “scena” che essi dovranno recitare, e questa risulterà maggiormente
smascherabile.
L’essere in o l’essere out può efficacemente essere spiegato dal concetto di “contingenze di carriera
18
”,
una sorta di filo conduttore -di carattere sociale- che permea l’intero ciclo di vita di una persona. La
categoria di “malati mentali”, infatti, è qui intesa in senso strettamente sociologico e, in questa
prospettiva la valutazione psichiatrica di una persona assume significato solo nel momento in cui essa
ne altera il destino sociale, ovvero, quando la persona viene immessa nel processo di
“ospedalizzazione
19
”. La persona che presenta disturbi mentali, infatti, inizia la sua carriera con
un’infrazione delle regole del vivere sociale, ma questa situazione ancora convertibile viene fatta
precipitare spesso dalla presenza di un accusatore che rappresenta colui che fa evolvere negativamente
una realtà che poteva anche restare inalterata. Per rifarci alla teoria dell’etichettamento di Lemert
20
, è
questo il passaggio dalla devianza primaria
21
ancora riassorbibile dalla società, alla devianza
secondaria
22
che, a causa dell’aperta condanna del comportamento irregolare da parte della comunità,
induce pesanti effetti sulla rielaborazione sociale e individuale dell’identità del soggetto; è qui che
comincia socialmente la carriera del paziente e non sempre questo inizio coincide con il manifestarsi
dei sintomi della sua malattia mentale. Le fasi principali della carriera del malato mentale sono
suddivise da Goffman in: “fase del predegente”, periodo che precede l’ospedalizzazione caratterizzato
da un modello di vita di esclusione; “fase del degente” ove impara a muoversi secondo il “sistema di
reparto
23
”; “fase dell'ex degente”.
“Ogni organizzazione comporta, quindi, una disciplina delle attività, ma ciò che a noi interessa qui è
che, in qualche modo, ogni organizzazione comporta anche una disciplina sul fatto di essere di un dato
carattere e di appartenere ad un dato mondo” (Goffman, 2001:211). Rifiutare attività obbligatorie o
dedicarvisi in un modo o ad un fine non richiesto, significa sfuggire al sé ufficiale e al mondo
17
Una delle principali realizzazioni delle istituzioni totali è la dimostrazione della diversità di due categorie definite di persone. Ogni
ordinamento sociale tende a puntualizzare la profonda differenza che esiste tra medico e paziente; tra funzionari e detenuti; tra ufficiali e
soldati. Ma il “dramma della differenza” può sfociare nel “dramma dell’identità”, nel caso di persone che, per esempio, essendo
originariamente membri dello staff, cadono per qualche motivo in disgrazia e si trovano a diventare membri del gruppo degli internati
della medesima istituzione (Goffman, 2001).
18
Circostanze sociali esterne al paziente che possono essere decisive al fine dell’ospedalizzazione
19
La malattia mentale diviene tale solo al momento del ricovero, sino a prima, quasi tutto ciò che viene fatto appare normale. Il
parallelismo è possibile con coloro che compiono delitti, ai quali viene assegnato il ruolo sociale di criminale nel momento in cui si
trovano a non poter evitare il carcere.
20
Edwin Lemert, può esser considerato il precursore di quella corrente sociologica sviluppatasi negli Stati Uniti a partire dalla fine degli
anni cinquanta che è andata sotto i nomi, a seconda dei casi, di neo-chicagoans, di west coast school o labelling theory . Ha riservato una
particolare “attenzione sociologica” alla malattia mentale ed in specie al ricovero coatto del malato di mente. Nelle sue ricerche Lemert
analizza in particolare le circostanze familiari e sociali che (insieme ovviamente a quelle psichiatriche) conducono all’ospedalizzazione
del soggetto disturbato, soffermandosi sull’influenza che tale ricovero ha sulla vita del paziente, quindi sulla sua capacità lavorativa, sulla
sua sfera affettivo-familiare e in generale sul suo status e ruolo sociale.
21
Per devianza primaria si intende l’iniziale atto deviante collegabile a tutta una serie di fattori sociali, culturali, psicologici e fisiologici.
Esso, anche se socialmente può risultare sgradito, in assenza di una reazione sociale significativa, presenterebbe implicazioni marginali
per lo status e la struttura psichica della persona (Lemert, 1981).
22
Per devianza secondaria si intende quel processo che consegue all'etichettamento di una persona come deviante compiuto da agenzie
di controllo sociale. Specificatamene la deviazione secondaria consiste nel comportamento deviante posto in essere in risposta ai
problemi di stigmatizzazione, degradazione, isolamento prodotti dalla reazione sociale (Lemert, 1981)
23
Negli ospedali psichiatrici pubblici si comprende con tale definizione una serie di livelli di vita che si svolgono attorno ai reparti, nelle
unità amministrative chiamate “servizi”, negli ambiti entro i quali i pazienti possono essere lasciati liberi. Una volta che il degente si
stabilisce in un reparto, gli viene spiegato che le restrizioni e le privazioni cui andrà incontro non sono dovute a norme tramandate o a
criteri economici, ma fanno parte intenzionale della cura, “corrispondono a ciò di cui in quel momento egli ha esattamente bisogno”
(Goffman, 2001).
14
ufficialmente adatto ad esso. Imporre un’attività, ci dice Goffman, è dunque imporre un mondo;
evitare un’imposizione è evitare un’identità. Quando un individuo contribuisce cooperativamente ad
un’attività richiesta da un’organizzazione, ne diviene membro “normale” trasformandosi in ciò che
“ufficialmente gli viene richiesto di essere”. Questo è quello che Goffman definisce “adattamento
primario”. Esistono però una gamma di adattamenti abituali, per mezzo dei quali un membro di
un’organizzazione usa mezzi e ottiene fini non autorizzati, sfuggendo, pertanto, ciò che
l’organizzazione presume che dovrebbe essere. Parliamo degli “adattamenti secondari” (suddivisibili
in “adattamenti disorganizzativi
24
” e “adattamenti repressi
25
”), che rappresentano “il modo in cui
l’individuo riesce ad evitare il ruolo e il sé che l’istituzione ha presi per garantiti per lui” (Goffman,
2001: 212). Un particolare tipo di adattamenti secondari è costituito dalla “attività di rimozione”, che
fornisce all’individuo qualcosa in cui perdersi, cancellando temporaneamente la percezione di ciò che
gli sta attorno; esempi ne sono l’uso di droghe, l’impegno in lavori, la ginnastica, la psicoterapia.
Goffman chiarisce inoltre che: “se la funzione degli adattamenti secondari è quella di innalzare una
barriera fra l’individuo e l’unità sociale di cui si presume faccia parte, dovremmo supporre che alcuni
adattamenti secondari non offrano un guadagno intrinseco, e funzionino semplicemente per esprimere
una distanza non autorizzata - ‹il rifiuto di coloro che ti rifiutano› - che serve alla propria tutela
personale” (Goffman, 2001: 331). Gli angoli fertili degli adattamenti secondari sono le zone
vulnerabili delle organizzazioni formali: stanze per le provviste, le infermerie, cucine o reparti per
lavoro altamente tecnico, ove gli internati studiano nascondigli, mezzi di trasporto, luoghi svincolati e
territori per scambi economico-sociali. In particolare i luoghi individuati da Goffman sono di tre tipi,
poiché, nelle parole dell’autore, anche la libertà ha una sua geografia: “luoghi liberi” (il boschetto
dietro l’ospedale etc.), ossia il retroscena della usuale rappresentazione del rapporto staff-internato;
“territori di gruppo” ove sia gli internati che lo staff evitavano l’affluenza di degenti di altri reparti;
“territori personali”, un vero e proprio continuum tra la vera casa ed il nido, rappresentati dalla stanza
singola o da una coperta.
Questo a specificazione di quanto lo stesso autore afferma quando dice che “se le persone fossero
senza un sé, o venisse loro richiesto di esserlo, sarebbe naturalmente logico non possedere un luogo
personale dove poter mettere la propria roba”. Per ottenere ciò i degenti studiano un vero e proprio
“sistema di trasporto”, come per esempio la scatola dei sigari o una borsa dal doppio fondo. All’interno
di un’istituzione totale sono rintracciabili tre tipi di adattamenti per mezzo dei quali l’individuo può
fare uso di oggetti o di servizi altrui: “la coercizione personale”, “lo scambio economico” ed infine “lo
scambio sociale”. Questi adattamenti rispecchiano la diversità dei rapporti rintracciabile all’interno
dell’istituzione, a seconda che si vada da relazioni di amicizia a rapporti di categoria sino a rapporti di
protezione (tipici tra staff-internato). È evidente che sia gli adattamenti primari quanto quelli secondari
sono definizioni sociali e pertanto, come tali, risultano “legittimi” in un periodo in una data società;
possono non esserlo più in un momento storico diverso o in una diversa società. Ed è certo che
l’insieme di queste pratiche, fertili nelle zone vulnerabili di un’istituzione totale e tali da definire una
vera e propria vita sotterranea, hanno un’utilità per coloro che le attuano diversa dall’uso che risulta
più manifesto. Esse sembrano dimostrare a colui che le mette in atto di possedere un’individualità e
un’autonomia personale, “al di là della morsa in cui l’organizzazione lo stringe” (Goffman, 2001:
331).
Ed è questa morsa che Goffman ha illustrato efficacemente, questa sorta di non-luogo in cui il sé cerca
di emergere salvando quanto rimane dopo la mutilazione ricevuta. E, come dicono Franco e Franca
Basaglia nella postfazione ad Asylums, “l’analisi di un’istituzione totale, funzionale ad un sistema
24
L’intenzione concreta dei partecipanti è qui di abbandonare l’organizzazione o di alterarne la struttura.
25
Condividono con gli adattamenti primari la caratteristica di adeguarsi alle strutture istituzionali già esistenti, senza apportare alcuna
pressione verso un mutamento radicale e possono avere la funzione ovvia di far deviare le azioni che potrebbero risultare
disorganizzative
15
sociale come il nostro, è dunque la dimostrazione di quanto paga chi si trova costretto a pagare
(corsivo nel testo), per dare agli altri la possibilità di vivere nella ‹norma› e nel ‹benessere›”.
§ 1.2. Donald Clemmer: concetto di prigionizzazione
La detenzione rappresenta un evento fortemente traumatico per gli individui che ne vengono coinvolti.
“Il carcere è un momento di vertigine. Tutto si proietta lontano: le persone, i volti, le aspirazioni, i
sentimenti, le abitudini, che prima rappresentavano la vita, schizzano all’improvviso da un passato che
appare subito remoto, lontanissimo, quasi estraneo”, così definisce l’esperienza detentiva Francesco
Ceraudo, medico penitenziario. L’individuo è costretto ad abbandonare il suo lavoro, la sua abitazione,
gli affetti, ovvero tutti quegli elementi che costituivano il suo progetto di vita, per questo il carcere può
rappresentare una seria “minaccia per gli scopi di vita dell’individuo, per il suo sistema difensivo, per
la sua autostima ed il suo senso di sicurezza”, (Maslow, 1947 tr.it. in Santoro, 1997:32) una minaccia
che nel tempo si concretizza in una progressiva disorganizzazione della sua personalità. La perdita di
identità è poi condizionata dalla continua influenza della cultura carceraria, cioè di quella subcultura
che si sviluppa tra gli appartenenti ad anzidetta comunità, al di fuori delle regole penitenziarie, che
porta a poco a poco ogni individuo a divenire un “membro caratteristico della comunità penale”
distruggendo “la sua personalità in modo tale da rendere impossibile un successivo felice adattamento
ad ogni altra comunità” (Clemmer, 1941 tr. it. in Santoro, 1997: 208).
Questo progressivo processo di adattamento alla subcultura carceraria è stato definito da Donald
Clemmer “processo di prigionizzazione”. È, infatti, questo autore ad aver rilanciato la sociologia
penitenziaria nel corso del ‘900 con The Prison Community, un’opera che muove dalla convinzione
che per comprendere il senso della vita del carcere si deve guardare ad ogni istituto penitenziario come
ad una “società nella società” (Santoro, 1997). Risulta infatti impossibile pensare che molti individui
rinchiusi insieme per un sufficiente periodo di tempo non diano vita ad un micro-sistema sociale tale
da sviluppare un proprio ordine informale.
Clemmer studia il carcere di massima sicurezza dell’Illinois del sud proprio come se fosse una micro-
società, riuscendo a mettere in luce la complessa trama di interrelazioni esistenti tra la prigione e il suo
ambiente locale, regionale e nazionale. Dedica la prima parte dell’opera, pubblicata nel 1940 negli
Stati Uniti, all’analisi dei fattori socio-ambientali e familiari che condizionano la personalità del
condannato prima della commissione del reato, nel tentativo di individuare gli elementi che
influenzano conseguentemente la condotta delinquenziale. L’indagine verte su tre aspetti delineati dal
sociologo come fondamentali:
le tendenze della società che influenzano indirettamente la personalità degli individui che vivono in
un determinato momento storico;
il legame con la regione di provenienza;
i legami intimi e le relazioni sociali che le persone hanno prima di essere arrestate.
Soprattutto queste ultime sono tra i fattori che secondo Clemmer influenzano maggiormente la
personalità del reo, incidendo in larga misura anche sul processo di adattamento alla cultura carceraria.
Tutti i detenuti sono esposti ai “fattori universali della prigionizzazione” (Clemmer, 1941 tr.it. in
Santoro, 1997: 208), ma non tutti rispondono allo stesso modo. Scrive, infatti, Clemmer: “se una
prigionizzazione completa avviene o meno dipende in primo luogo dall’individuo stesso, vale a dire
dalla sua sensibilità alla cultura che a sua volta dipende soprattutto, riteniamo, dal tipo di relazioni che
aveva avuto prima dell’incarcerazione, vale a dire della sua personalità” (Clemmer, 1941 tr.it. in
Santoro,1997: 209). Nondimeno, risultano essere decisivi per il completamento della prigionizzazione, il
tipo di relazioni che il detenuto ha con le persone all’esterno delle mura del carcere e il loro numero, se
l’individuo diventa o meno un affiliato di gruppi primari o semi-primari nel carcere e questo dipende dai
due fattori già menzionati. Ancora un altro fattore può essere rappresentato semplicemente dalla
16
collocazione accidentale in un gruppo di lavoro, in un braccio o con un compagno di cella o dall’accettare o
meno i principi assoluti e le consuetudini della cultura della prigione. Altri fattori rilevanti sono l’età, il
tasso di criminalità, la nazionalità, la razza, i condizionamenti regionali, ed ogni fattore è più o meno
connesso con tutti gli altri. Clemmer riesce a mostrare come le variabili esterne, ovvero l’ambiente
economico e sociale da cui provengono i detenuti, influenzano fortemente la vita interna al carcere
creando forme di divisione di classe tra i detenuti. Per il suo carattere etnografico tale analisi, come ci
dice lo stesso Santoro, non si presta ad essere generalizzata, ma contiene comunque una tesi forte: “il
carcere non ha alcun potere deterrente o rieducativo, ma tende anzi a produrre dei delinquenti sempre più
incalliti” (Santoro, 1997: 39). Da una parte “per ben pochi individui la pressione e la durezza della vita
carceraria rappresentano uno shock tale che essi sono veramente ‹terrorizzati› dall’idea di ulteriori
avventure criminali”. Dall’altra “quando si parla di ‹riabilitazioni
26
› con riferimento ai veri criminali, si
parla del tipo di ‹trattamento› che li tiene in prigione fino a quando essi non raggiungono un’età tale che
non hanno più sufficiente vigore fisico o mentale per commettere altri crimini”. Se qualche volta il
carcere ha apparentemente un effetto riabilitante questo “avviene a dispetto delle influenze dannose della
cultura carceraria” (Clemmer 1941, tr. it. in Santoro, 1997:214).
Ma cosa intende Clemmer col termine “prigionizzazione”? Si tratta di un processo graduale, lento,
progressivo nel tempo, ma caratterizzato da fasi alterne e stadi differenziati e talora irreversibile, che
culmina nell’identificazione più o meno completa con l’ambiente. Si intende quindi, l’effetto globale
dell’esperienza carceraria sull’individuo, una sorta di assuefazione allo stile di vita o, nelle parole dello
stesso autore, “l’assunzione in grado maggiore o minore del folklore, dei modi di vita, dei costumi e
della cultura generale del penitenziario” (Clemmer 1941, tr. it. in Santoro, 1997:206).
Le esigenze di ordine, di controllo e di sicurezza inducono l’istituzione penitenziaria a ricercare ed
alimentare l’uniformità degli atteggiamenti e dei comportamenti dei detenuti, attraverso l’imposizione
di “valori” comuni. Questi “valori” altro non sono che i prodotti delle finalità e delle funzioni
carcerarie, indotti in vari modi, esplicitamente o implicitamente, tramite un lento e spesso
inconsapevole processo di assimilazione
27
. “L’assimilazione implica un processo di acculturazione in
un gruppo i cui membri in origine erano chiaramente differenti da quelli del gruppo con cui si
mescolano. Essa implica che l’assimilato venga a condividere i sentimenti, i ricordi e le tradizioni
del gruppo preesistente” (Clemmer 1941, tr.it. in Santoro, 1997:206). Sebbene questi cambiamenti non
avvengano in tutti gli individui, tutti subiscono in certa misura la prigionizzazione. Attraverso la
prigionizzazione, l’istituzione penitenziaria tende ad eliminare le differenze individuali nei soggetti ivi
rinchiusi, fagocitandoli. I bisogni, i desideri e le esigenze personali del detenuto sono, così, annullati e
sostituiti da altri eteroindotti e più coerenti con le finalità dell’istituzione.
Il processo di “prigionizzazione” alimenta e approfondisce 1’antisocialità del detenuto rendendolo
succube della subcultura della comunità carceraria e della sua ideologia. Ci dice Clemmer che “il mondo
del detenuto è un mondo atomizzato. La sua popolazione è fatta di atomi interagenti in modo
confuso. È dominata e si sottomette. La sua comunità è priva di una struttura sociale ben definita. I
valori riconosciuti producono una miriade di attitudini confliggenti […]. È in questo complesso
groviglio del mondo della prigione che arrivano i detenuti appena condannati. La maggior parte
degli uomini che entra in prigione è confusa ed incerta sul mondo sociale che hanno lasciato. Sono
preoccupati per se stessi e le loro filosofie di vita sono spesso in uno stato fluido. Sono ansiosi per il
26
Tra l’ampia conoscenza di detenuti compiuta durante la ricerca dall’autore, quelli che sono stati migliorati o riabilitati erano
soggetti che, in primo luogo, non avrebbero mai dovuto essere condannati al carcere, e che, in secondo luogo, erano o particolarmente
acculturati, o prigionizzati soltanto ad un grado molto basso.
27
Dice Clemmer che il primo e più ovvio passo di integrazione riguarda lo status del soggetto che entra in prigione. Egli diventa una
figura anonima in un gruppo subordinato. Un numero sostituisce un nome, indossa i vestiti dei membri del gruppo subordinato, è
interrogato e ammonito. Presto impara i ranghi, i titoli e l’autorità dei vari ufficiali come velocemente impara lo slang e il gergo della
prigione pur non adoperandolo (Clemmer 1941, tr. it. in Santoro, 1997:206).
17
futuro. Gli effetti che la prigione ha su di loro dipendono dal grado in cui essi vengono assimilati”
(Clemmer 1941, tr. it. in Santoro, 1997:205).
Come già specificato, tutti i detenuti sono esposti alle cause generali della “prigionizzazione” e, secondo
il sociologo americano, risultano essere pochi quelli che riescono a resistere e ad imporsi all’ambiente,
mentre rappresentano la maggioranza quelli che lo subiscono. In base ai fattori rilevanti per il processo
di prigionizzazione, delineati in precedenza, Clemmer costruisce un ipotetico “schema della
prigionizzazione” che può servire ad illustrare i suoi estremi. Così, al più basso grado di prigionizzazione
troviamo fattori quali:
una condanna breve, quindi una soggezione breve ai fattori universali della prigionizzazione.
una personalità abbastanza stabile resa tale da un numero adeguato di relazioni positive e
“socializzate” durante la vita pre-carceraria.
il perdurare delle relazioni positive con persone all’esterno delle mura del
carcere.
il rifiuto o l’incapacità di integrarsi in un gruppo carcerario primario o semiprimario, pur riuscendo a
mantenere un equilibrio simbiotico con gli altri uomini.
il rifiuto di accettare ciecamente i dogmi ed i codici della popolazione carceraria, e la volontà, in certe
condizioni, di aiutare le guardie, operando in questo modo per identificarsi con la comunità dei liberi.
un collocamento casuale con un compagno di cella e compagni di lavoro che non hanno le qualità del
leader e che non siano neppure loro completamente integrati nella cultura carceraria.
l’astensione da comportamenti sessuali anormali, e una non eccessiva dedizione al gioco
d’azzardo, accompagnate da una ferma volontà ad impegnarsi seriamente nel lavoro e nelle
attività ricreative.
Nel grado più alto di prigionizzazione Clemmer, invece, elenca i seguenti fattori:
una condanna a molti anni, e quindi una lunga soggezione ai fattori universali di
prigionizzazione.
una personalità in qualche modo instabile a causa dell’inadeguatezza delle relazioni
“socializzate” prima della condanna, ma capace, non di meno, di forti convinzioni e di un
particolare genere di fedeltà.
mancanza di relazioni positive con persone all’esterno delle mura del carcere.
capacità di integrarsi prontamente nei gruppi carcerari primari.
una cieca, o quasi cieca, accettazione dei dogmi e dei costumi dei gruppi primari e della
popolazione carceraria in generale.
una casuale collocazione con altre persone di orientamenti simili.
disponibilità a partecipare al gioco d'azzardo e a pratiche sessuali anormali.
Ci avverte lo stesso autore che con tale schematizzazione “non si intende suggerire in alcun modo
che esiste un’alta correlazione tra entrambi gli estremi della prigionizzazione e il tasso di criminalità.
È abbastanza probabile che il detenuto che non si riesce ad integrare nella cultura carceraria possa
essere, e continuare ad essere, molto più criminale del detenuto che diventa completamente
prigionizzato”, anche perché è probabile che la maggioranza dei detenuti diventi prigionizzata per
alcuni aspetti e non per altri (Clemmer 1941, tr. it. in Santoro, 1997: 210).
Sul “processo di prigionizzazione” sono tornati soprattutto i medici penitenziari. Molti di loro hanno
sostenuto che il processo di adattamento al carcere, definito di “disadattamento carcerario”, provoca
disfunzioni nel complesso dei meccanismi biologici che sovrintendono alle emozioni, generando
sindromi morbose di varia intensità definite, a loro volta, “sindromi da prigionizzazione” (Santoro,1997).
18
I medici penitenziari
28
attribuiscono la responsabilità di queste sindromi al fatto che all’interno del
carcere gli individui sono soggetti ad un “potere assoluto”. Probabilmente il primo a sostenere questa tesi
è stato, nel 1942, N.A. Polansky. Secondo questo autore, il potere autocratico esercitato nelle prigioni
conferisce loro “una capacità quasi infinita di produrre
l’anti-socializzazione dei ristretti”. La sua
conclusione è che l’aumentare del tasso di incarcerazione, lungi dal ridurre la criminalità, “faciliterà il
processo di atomizzazione e di frammentazione sociale
29”
(Polansky,1942 tr.it. in Santoro 1997 :42).
L’accettazione di un ruolo inferiore, l’acquisizione di dati relativi all’organizzazione della prigione, lo
sviluppo di alcuni nuovi modi di mangiare, vestire, lavorare, dormire, l’adozione del linguaggio locale, il
riconoscimento che niente è dovuto all’ambiente per la soddisfazione dei bisogni, e l’eventuale desiderio di
un buon lavoro
30
sono aspetti della prigionizzazione che possono essere riscontrati in tutti i detenuti.
Il carcere, come ogni altra istituzione composta da membri di un unico sesso, può facilmente portare a
sviluppare anomalie sessuali. Probabilmente nessun altro elemento della vita in carcere ha il potere di
disorganizzare la personalità degli individui ristretti come l’immaginario sessuale
31
che vi si sviluppa.
Clemmer afferma in modo categorico che “il desiderio sessuale e la malinconia per la mancanza di una
compagnia femminile è per la grande maggioranza dei prigionieri l’elemento più doloroso della
detenzione” (Clemmer 1941, tr.it. in Santoro, 1997:216).
Victor Nelson (1933), in un passo citato dallo stesso Clemmer, così descrive il desiderio per il contatto
con il mondo femminile, in un capitolo intitolato Uomini senza donne, sperimentato dall’uomo in
prigione: “infatti di tutte le possibili forme di privazione sicuramente nessuna è più demoralizzante
della privazione sessuale (...) essere privato un mese dopo l’altro, un anno dopo l’ennesimo altro in un
luogo in cui ‹ogni giorno è come un anno, un anno i cui giorni sono lungi› della soddisfazione
28
In generale, i medici penitenziari, e in particolare Ceraudo nel testo Principi fondamentali di medicina penitenziaria, sono concordi
sul fatto che la detenzione comporta:
l’erosione dell’individualità, ovvero la capacità di agire e pensare in modo autonomo;
la deculturazione, ovvero la perdita dei valori e delle attitudini che il soggetto aveva prima dell’ingresso in carcere;
danni fisici e psicologici che affliggono l’individuo durante la sua permanenza in carcere;
l’isolamento, ovvero l’impossibilità di interagire col mondo esterno e con gli altri individui chiusi in carcere;
la privazione degli stimoli, in quanto l’individuo si adatta alla parsimonia dell’ambiente fisico che lo circonda e al ritmo routinario
della vita istituzionale;
l’estraniamento, ossia l’incapacità di adeguarsi alle novità dell’ambiente esterno una volta conclusa la detenzione.
29
Alla fine degli anni ’50 questa tesi viene ripresa da Bruno Cormier, all’epoca psichiatra del penitenziario di St. Vincent de Paul in
Canada. Egli afferma: “nelle nostre attuali società democratiche […] quei gruppi di persone che sono rinchiusi nelle istituzioni penali
stanno conducendo un’esistenza governata da un principio completamente diverso da quello che governa la nostra società. L’istituzione
penale, come la conosciamo oggi, priva i suoi membri della libertà sociale ed individuale che costituisce il fondamento della nostra
società” (Cormier, 1957 tr.it. in Santoro, 1997:42).
In Italia Francesco Ceraudo, presidente dell’associazione dei medici penitenziari, si fa sostenitore di una tesi simile scrivendo: “si ha la
pretesa di insegnare al detenuto il modo di vivere e di comportarsi nel mondo libero e nello stesso tempo lo si costringe a vivere nel
carcere che di quel mondo è l’antitesi” (Ceraudo,1988 in Santoro, 1997: 42).
30
Il desiderio di un lavoro confortevole non è peculiare della comunità carceraria, ma sembra essere una fase della prigionizzazione, ci
dice Clemmer, per il seguente motivo: “quando hanno scontato una condanna prima di entrare in penitenziario i detenuti esaminano la
situazione e quasi subito esprimono un desiderio di un certo tipo di lavoro. Quando arrivano in prigione soggetti che si sono realmente
macchiati di un reato per la prima volta, invece, raramente esprimono il desiderio di un particolare tipo di lavoro, sono piuttosto pronti a
fare qualsiasi cosa. Entro un periodo di pochi mesi, tuttavia, questi stessi individui, che non avevano scelto il lavoro, sviluppano preferenze e
rendono noti i loro desideri, «si fanno esperti», come dicono i detenuti, o in altre parole, attraverso il contatto diventano prigionizzati” (Clemmer
1941, tr. it. in Santoro, 1997: 207).
31
“I detenuti in cella passano tredici ore ogni giorno senza avere mai la possibilità di allontanarsi l'uno dall'altro più di sei piedi.
L'uso del bagno avviene necessariamente in maniera pubblica. Le docce sono fatte in pubblico, otto uomini alla volta. La radio tra-
smette melodie da ballo e canzoni piene di temi amorosi e di suggestive implicazioni sessuali. Le riviste e i giornali nelle loro
pubblicità ritraggono donne in ogni tipo di abbigliamento. Le riviste, specialmente quelle di basso profilo, sono piene di storie
d’amore e argomenti sessuali. Le lettere delle innamorate, delle fidanzate e delle mogli portano idee d'amore. Nessuno di questi
stimoli, preso separatamente, è abbastanza forte da far sì che l'uomo medio normale si dedichi a comportamenti sessuali anormali, ma
combinati con tutti gli importanti fattori che caratterizzano un ambiente senza donne, essi suscitano desideri, atteggiamenti e
comportamenti sessuali che assumono una grande importanza per gli uomini dietro le sbarre” (Clemmer 1941, tr. it. in Santoro, 1997:
215).
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sessuale, che nel caso di un condannato a vita, può non giungere mai, questa è la quintessenza della
miseria umana.(...) (I prigionieri hanno) non solo un forte desiderio per il rapporto sessuale, ma anche
per la voce, il contatto, il riso e le lacrime di una donna; un forte desiderio per la Donna in se stessa”
(Clemmer 1941, tr.it. in Santoro, 1997:216).
Il detenuto la cui moglie divorzia può cercare una risposta e un riconoscimento nei suoi compagni
più prossimi e questo perché, secondo il sociologo americano, quando i ricordi dell’esperienza pre-
penale smettono di essere soddisfacenti o utili praticamente, una barriera contro la prigionizzazione
viene rimossa.
Clemmer individua tre livelli
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generali di adeguamento sessuale che, allo stesso tempo, rappresentano
la progressione con la quale avviene la prigionizzazione: il livello normale, il quasi-normale e
l’anormale.
Il livello cosiddetto “normale” è quello che comprende la categoria più numerosa di persone. I detenuti
appartenenti a questa categoria sono di solito individui che hanno avuto uno sviluppo ordinato della
loro vita amorosa, anche se gli elementi determinanti per il loro adattamento in carcere sono da
individuarsi in primo luogo nella ragionevole brevità della condanna, e in secondo luogo,
nell’esistenza di “un oggetto d’amore nella comunità libera” (Clemmer 1941, tr.it. in Santoro,
1997:218). Gli uomini di questa categoria risentono maggiormente della privazione sessuale e del
senso di solitudine degli altri detenuti. Si masturbano occasionalmente giustificando il loro
comportamento su basi biologiche, e le loro fantasie sono sempre rivolte al mondo femminile.
La durata del periodo in cui un detenuto può rimanere nel livello di adattamento normale dipende da
numerosi fattori, tra cui svolge un ruolo primario la qualità delle relazioni che è stato capace di
mantenere con le persone a lui affettivamente legate nella società libera e nondimeno l’aver
accresciuto tutti i tipi di occupazione e tutti gli artifici per consumare quanta più energia possibile.
Gli appartenenti alla categoria dei “quasi-normali” sono di solito gli uomini più anziani o quelli più
giovani di età, per lo più recidivi che pur avendo avuto uno sviluppo normale, sono poi regrediti
durante la detenzione. Essi non hanno relazioni significative con persone esterne al carcere, e questa
mancanza di legami provoca in loro un vuoto di “interessi sani” (Clemmer 1941, tr.it. in Santoro,
1997:220), generando un’attenzione totalmente rivolta alla comunità carceraria. Questi individui sono
spesso pervasi da un profondo senso di fallimento che dà loro la percezione di non essere più capaci di
adattarsi alla società libera; tale sentimento produce un tipo di condotta che difficilmente
approverebbero al di fuori della prigione. La soglia di resistenza è ridotta a tal punto da assimilare con
facilità la cultura carceraria. I quasi-normali hanno comportamenti sessuali basati sull’omosessualità,
ma tale condotta assume i toni di un’attività surrogatoria, poiché le fantasie che li accompagnano sono
sempre rivolte al contatto con le donne.
Appartengono, invece, al terzo livello di adattamento sessuale quei detenuti che sono dediti alla pratica
omosessuale “come un fine in se stessa” (Clemmer 1941, tr.it. in Santoro, 1997:221). Il numero degli
invertiti, è comunque piccolo, ma il dato interessante è costituito dal fatto che la maggior parte di loro
hanno appreso questo comportamento sessuale attraverso i contatti con la cultura carceraria, che in
questi individui risulta essere largamente assimilata. La perversione, secondo Clemmer, è pertanto
una reazione appresa, così com’è una reazione appresa il comportamento sessuale normale nei
gruppi convenzionali. Allo stesso modo, è stato notato (Garland, 1990) che la soggettività, la
personalità, l’identità personale, sono tutte entità socialmente e culturalmente costruite.
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Clemmer specifica che i dati concernenti il comportamento sessuale sono difficili da raccogliere. Pertanto, le informazioni per la
sua ricerca sono state ottenute in primo luogo da pochi detenuti e guardie che erano a conoscenza dell'interesse oggettivo dell'autore.