Introduzione
La ricerca di una solida stabilità geopolitica nel territorio israelo –
palestinese è un impegno che coinvolge tanto l’intera area mediorientale
quanto i paesi occidentali: di fronte ad un mondo globale e multietnico
quale è quello odierno non si può prescindere da analisi propositive e da
iniziative concrete per garantire ad ogni società civile i diritti di
autodeterminazione che la possano rendere indipendente.
L’obiettivo del presente lavoro è quello di analizzare lo status quo attuale
(ottobre 2010) delle trattative israelo – palestinesi alla luce degli accordi di
pace sottoscritti dalle due parti dal 1993 al 2007. A tale scopo, si è avanzata
l’ipotesi che queste continuative dichiarazioni d’intenti, concordate
congiuntamente, non si tramutarono in concrete iniziative politiche volte ad
una definitiva risoluzione del conflitto in quanto si focalizzarono su un
concetto di “pace totale” troppo ambizioso e distante dalle reali condizioni
in cui versavano le due società civili coinvolte. La metodologia utilizzata
per condurre l’intero lavoro si è incentrata sull’analisi dei testi dei
documenti ufficiali, corredata dalla consultazione di giornali arabi, israeliani
e internazionali, nonché di monografie sulla questione mediorientale
risalenti all’epoca degli accordi e all’attualità. Per fornire un supporto visivo
dei vari cambiamenti territoriali che hanno caratterizzato la regione dagli
anni novanta ad oggi si è riservata un’appendice alle mappe tematiche.
Attraverso l’apporto primario fornito dal testo dei documenti ufficiali si è
potuto evincere che è stata l’impostazione concettuale con cui si
elaborarono gli accordi a decretarne il fallimento, ovvero l’irrealizzabilità
delle reciproche concessioni sottoscritte dalle parti: le proposte che furono
avanzate non riuscirono a tener conto completamente del clima di sfiducia
tra i due popoli, ossia della percezione palestinese di essere assoggettata ad
un’occupazione ingiusta e continuativa, e di quella israeliana di vivere
costantemente assediato e minacciato dalla violenza araba.
1
Nel primo capitolo si sono presi in esame gli accordi sottoscritti a
Washington il 13 settembre 1993 (la “Dichiarazione dei principi per gli
accordi sull’autogoverno temporaneo”, nota come “Oslo I”) e il 28
settembre 1995 (definiti accordi di “Oslo II”), nonché il summit tenutosi a
Camp David tra l’11 e il 24 luglio del 2000. L’analisi degli accordi di Oslo
ha evidenziato gli aspetti fallimentari insiti nella provvisorietà delle fasi
negoziali prefigurate e nella logica di differire a negoziati futuri la
trattazione delle questioni più stringenti (ossia la definizione di confini
delimitati, lo status di Gerusalemme, l’assetto finale dei profughi
palestinesi): tale approccio non offriva incentivi sufficientemente stimolanti
e solidi per invogliare le due parti ad un impegno serio al compromesso. Di
contro, nel summit di Camp David si è constatato il fallimento della
fermezza d’intenti delle due parti, le quali avanzarono una serie di
concessioni sulle questioni definitive che vennero percepite come proposte
da prendere o lasciare, destinando di fatto il negoziato a irrigidirsi e a non
concretarsi in una risoluzione fattibile.
Il secondo capitolo si è incentrato sull’analisi dei nuovi tentativi di
risoluzione avviati dal 2002 al 2007: si sono esaminati principalmente la
Dichiarazione di Beirut (il piano di pace proposto dalla Arabia Saudita e
riconosciuto ufficialmente dalla Lega Araba nell’omonimo vertice del 2002)
e la “Road Map” del 2003; una breve dissertazione è stata riservata
all’accordo di Ginevra del 2003, avanzato da membri non governativi di
ambo le società ma analitico e propositivo nelle sue dichiarazioni, e alla
conferenza tenutasi ad Annapolis nel 2007 per rilanciare i negoziati
bilaterali. Il piano di pace di Beirut, con cui tutti i vicini stati arabi
dimostrarono la volontà di normalizzare le loro relazioni con Israele, costituì
un’utile piattaforma di pace ma anch’essa senza sbocchi concreti di
implementazione: Israele percepiva le precondizioni esposte dal piano (una
soluzione equa della questione dei profughi, il riconoscimento di uno stato
palestinese indipendente e sovrano sui Territori Occupati dal 1967) come
vincolanti e non in grado di garantire la sicurezza dello stato ebraico. Nel
documento della “Road Map” si è evidenziato lo stesso aspetto fallimentare
2
che si avvertiva negli accordi di Oslo, ossia la scelta di vincolare a fasi
temporali con scadenze prefissate la finalizzazione dei negoziati risolutivi
tra le due parti: la tabella di marcia per la pace e per la soluzione
permanente dei due stati si incagliava nelle sue stesse precondizioni, prima
fra tutte la richiesta di far cessare ogni atto terroristico arabo come fase
preliminare alla prosecuzione dell’intero percorso negoziale. L’accordo di
Ginevra, risalente all’anno della “Road Map”, non assurse allo stesso livello
di ufficialità di quest’ultima: considerato un proficuo contributo che
proponeva alternative ampie e negoziabili sulle questioni definitive, rimase
delegittimato per via del suo mancato riconoscimento in seno ai governi
delle due parti coinvolte. Infine, la conferenza di Annapolis si profilò come
un punto di partenza, e non di arrivo, del dialogo tra le parti: lo stallo
negoziale nei quattro anni intercorsi dal 2003 al 2007, richiedendo il
mantenimento di un profilo volutamente basso per la ripresa del dialogo,
ebbe come risultato una nuova dichiarazione d’intenti che avrebbe
impegnato entrambe le parti a proseguire il confronto negoziale.
Si è dedicato il terzo capitolo all’esame delle rispettive opinioni pubbliche
israeliana e palestinese in merito alle condizioni reali entro cui devono
convivere le due società civili. Scopo di tale analisi è stato quello di sondare
la realtà dei fatti per trovare conferma della distanza tra le dichiarazioni
d’intenti dei negoziati ufficiali esaminati in precedenza e la percezione
pubblica delle reali iniziative politiche avviate sul campo; alla luce di tale
dimostrazione, si è suggerito un nuovo modo di concettualizzare la pace e la
ripresa dei negoziati ad essa finalizzati.
All’inizio del terzo capitolo, attraverso la trattazione delle diverse opinioni
di accademici e di politici appartenenti alle due società civili, è emerso un
atteggiamento di condivisione in merito a due temi. Il primo riguarda la
consapevolezza che i due popoli risultano inevitabilmente interdipendenti
sotto numerosi punti di vista (dall’economia alla politica, dallo sviluppo
sociale alla sicurezza e alla territorialità). Il secondo, connesso al primo, si
riferisce alla considerazione unanime che solo attraverso interventi politici
concreti si potrà garantire una reale indipendenza e favorire la creazione dei
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due futuri stati autonomi ventilata dagli accordi di pace. Si è potuto cioè
evincere un certo consenso sul diritto alla statualità auspicata da entrambi i
popoli: essa non è concepita come la conseguenza di una netta separazione
territoriale tra le due società, bensì come il frutto di un impegno di
rifondazione dall’interno delle istituzioni statuali, rese in tal modo
indipendenti da aiuti e pressioni esterne e vere garanti della democrazia.
Le condizioni reali in cui vivono attualmente le due società civili risentono
del fallimento degli obiettivi prefissati dai passati accordi di pace e
contraddicono le condivise aspirazioni delle due opinioni pubbliche
suddette. In relazione a ciò, nella seconda parte del terzo capitolo si è
proceduto all’esame della situazione de facto circoscrivendo l’analisi a due
elementi emblematici. Il primo riguarda il muro di separazione innalzato tra
i due popoli per volere di Sharon, allora primo ministro, dal 2002:
giustificato da Israele come barriera di sicurezza contro il terrorismo, di
fatto la barriera si è dimostrato uno strumento di controllo che ha reiterato la
condizione di dipendenza e di occupazione del popolo palestinese. Il
secondo si riferisce alla demografia: in base alle tendenze demografiche
stimate dal professore Sergio Della Pergola (il cui studio viene descritto in
modo approfondito nel corso del terzo capitolo) si assisterebbe fino al 2050
ad una progressiva crescita della popolazione totale presente nell’area
contesa parallelamente ad un abbassamento della percentuale della presenza
ebraica. Tale dislivello si potrebbe lentamente rimarginare, secondo i dati
addotti dallo studio di Della Pergola, solo attraverso l’attuazione di
ponderate politiche di integrazione tra i due popoli e di un compromesso
reciproco.
L’ultima parte del terzo capitolo, volta a fornire un breve compendio della
situazione attuale, si è incentrata sulla ripresa dei negoziati bilaterali tra il
premier israeliano Benjamin Netanyahu e il leader palestinese Abu Mazen,
avviata dal settembre del 2010 tramite la mediazione americana di Barack
Obama. E’ stata inoltre descritta l’iniziativa politica intrapresa
unilateralmente dal primo ministro di Ramallah, Salam Fayyad, in
Cisgiordania a partire dal 2007. Tale opera di “nation building” ha mirato
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alla riforma dalle fondamenta delle istituzioni interne al territorio
cisgiordano (istituzioni governative, scolastiche, ospedaliere, infrastrutturali,
del welfare) per assicurarne l’indipendenza e garantirne un futuro sviluppo
autonomo, e per consentire entro il 2011 la proclamazione di uno stato
palestinese autosufficiente. Gli esiti positivi di una simile politica si sono
ultimamente evidenziati a confronto con la stagnazione in cui permane la
situazione socio – economica della striscia di Gaza controllata da Hamas.
Nelle conclusioni al presente lavoro si è infine suggerita una nuova
concettualizzazione del termine “pace”, relativamente al contesto
geopolitico esaminato. La pace non può più cristallizzarsi entro un’ideologia
totalizzante ed astratta, volta a raggiungere nell’immediato un’assenza totale
di conflitti; va piuttosto intesa come costruzione graduale e autonoma entro i
due popoli dei presupposti per garantire una solida sostenibilità degli
accordi bilaterali. A tal proposito risulterebbe funzionale l’avvio di politiche
preliminarmente unilaterali che vengano intraprese non per ledere i diritti
legittimi del popolo confinante, ma per rafforzare i reciproci parametri
istituzionali interni (emblematico risulta l’esempio fornito dal primo
ministro Fayyad). Il negoziato bilaterale beneficerebbe di una simile
iniziativa, poiché non verrebbe avviato sulla base di uno status quo
stagnante e incapace di evoluzioni positive, bensì porrebbe a confronto due
delegazioni negoziali che occupano posizioni finalmente pragmatiche
perché maggiormente equilibrate tra loro.
Premessa
Il discorso che il presidente degli Stati Uniti Barack Obama ha tenuto all’
università del Cairo, il 04 giugno del 2009, aveva annunciato in maniera
evidente una svolta politica rispetto ai precedenti approcci americani alle
questioni mediorientali e, nello specifico, al perdurare del conflitto tra
Israele e Palestina. I principi a cui l’azione di pace si sarebbe dovuta ispirare
sarebbero stati: piena legittimità riconosciuta alle reciproche rivendicazioni;
interdipendenza tra le nazioni; senso di responsabilità e giustizia; lotta
5
comune contro qualsiasi forma di fanatismo; pragmatismo al fine di
raggiungere la pace. Questi i cardini su cui Obama aveva dichiarato di voler
allineare la propria politica, una politica radicata sull’esigenza di un nuovo
modo di guardare l’attuale assetto mondiale, da una prospettiva globale e
multilaterale.
A più di un anno di distanza dallo storico discorso del Cairo, la difficoltà di
avviare una concreta piattaforma di pace guidata da tali principi è sfociata in
una completa paralisi dei negoziati tra Israele e Palestina. Obama aveva
apertamente esposto all’università del Cairo la linea politica su cui avrebbe
voluto condurre i futuri rapporti degli Stati Uniti con i due popoli: gli USA
si sarebbero schierati con chi avrebbe perseguito la pace, e avrebbero
riconfermato gli impegni già accettati e sottoscritti nel 2003 con la “Road
Map”; di conseguenza, tutte le fazioni politiche palestinesi avrebbero
dovuto riconoscere il diritto d’esistere di Israele abbandonando ogni forma
di violenza e costituendo un governo unito e democraticamente eletto
(Hamas quindi sarebbe stato riconosciuto come legittimo rappresentante di
una parte dei palestinesi) ; Israele avrebbe dovuto fermare la costruzione di
nuovi insediamenti, considerati illegittimi in virtù dei precedenti accordi
firmati dalle parti. Per dare un senso di continuità con i tentativi precedenti e
per ricercare una pace duratura e regionale, inoltre, Obama non aveva
mancato di confermare la sua adesione al piano di pace promosso
dall’Arabia Saudita e firmato dai membri della Lega Araba nel 2002,
richiamando quegli stessi stati a rinnovare le loro responsabilità e i loro
impegni in tal senso.
Di fatto, l’“impasse” attuale della situazione mostra quanto le speranze di
risoluzione del conflitto siano state alimentate più dalla dimensione umana
ed etica delle dichiarazioni d’intenti del nuovo presidente, che non da
decisioni veramente originali e concrete sul piano operativo. D’altra parte,
l’odierno assetto geopolitico mediorientale, altamente instabile, sarebbe
divenuto definitivamente ingestibile se l’approccio statunitense non avesse
virato verso una maggiore apertura al dialogo e una reale disponibilità
all’ascolto. Il processo di pace tra Israele e Palestina non riesce a beneficiare
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completamente della nuova opportunità che Obama e la sua politica
potrebbero rappresentare: il presidente, nonostante una spiccata capacità di
comprendere le difficoltà della situazione, e una fermezza nell’astenersi da
eccessivi giudizi di parte o prese di posizione, rischia di non fornire nessun
reale e significativo incentivo al proseguimento del processo di pace,
reiterando il perdurare dello stallo. Si ha l’impressione di una inerzia
collettiva per la quale si preferisce lo status quo piuttosto che l’avvio di
riforme interne efficaci e il ritorno a solidi negoziati di pace i quali,
inevitabilmente, imporrebbero più scomodi compromessi; eppure la storia
del conflitto israelo – palestinese non è stata priva di iniziative di pace, né di
duro confronto finanche sul tavolo delle trattative. E’ irrinunciabile l’avvio
di una politica più empatica per promuovere e sostenere dall’esterno un
rinnovato percorso risolutivo: Obama potrebbe offrire questo genere di
appoggio tanto a Israele quanto alla Palestina; rivalutare gli storici passaggi
già esperiti per ricercare una soluzione alla guerra è altresì utile, per capire
più da vicino le rivendicazioni delle parti coinvolte, e i motivi dei loro
fallimenti sulla via della pace. Lo status quo tra israeliani e palestinesi va
quindi analizzato alla luce di una riflessione sui processi di pace che l’hanno
preceduto: superarlo richiederà tempo, perseveranza e piena comprensione
degli errori commessi dalle parti e dalla comunità internazionale; capire le
ragioni del suo perdurare dovrebbe essere un atto di volontà consapevole per
avviare il concreto “new beginning” auspicato da Obama.
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I. Oslo e Camp David, due processi di pace falliti
1. “Oslo I”, la logica delle fasi
1.1. Contesto e sintesi dell’accordo
Un primo ufficiale tentativo di avviare un accordo di pace tra Israele e
Palestina è rappresentato dalla firma della “Dichiarazione dei principi per
1
gli accordi sull’autogoverno temporaneo” (nota con l’espressione “Oslo I”),
avvenuta il 13 settembre 1993 a Washington. Il documento venne firmato
congiuntamente da Itzhak Rabin e Shimon Peres, per lo stato di Israele (in
qualità di primo ministro e ministro degli esteri), e da Abu Mazen e Yasser
2
Arafat per l’OLP, alla presenza di testimoni americani (Warren
Christopher) e della Federazione russa (Andrei Kozyrev). La storica stretta
di mano tra Arafat e Rabin, sul prato della Casa Bianca, fu presieduta
dall’allora presidente degli Stati Uniti Bill Clinton.
Il documento si suddivideva in diciassette articoli, quattro allegati e alcuni
promemoria aggiuntivi.
Fin dall’introduzione che precede gli articoli si delineavano i principi
fondanti le successive modalità di gestione dell’accordo: le due parti
coinvolte (il governo dello stato d’Israele e il gruppo dell’OLP, riconosciuto
1
L’iniziativa di avviare un dialogo promotore di pace venne dalla Norvegia, in particolare dal
direttore del FAFO (l’Istituto norvegese di studi sociali applicati) Terje Larsen, che convocò e mediò
gli incontri segreti a Oslo tra le due delegazioni coinvolte: tali incontri, condotti tra gennaio e agosto
del 1993, definirono i termini del definitivo accordo successivamente redatto a Washington. Abu Ala
e Uri Savir furono i due negoziatori, palestinese l’uno e israeliano l’altro, che formalizzarono le
reciproche rivendicazioni da sottoporre ai rispettivi capi di governo.
Per ulteriori dettagli vedi Tramballi Ugo, 2002, L’ulivo e le pietre, Marco Tropea Editore, Milano, pp.
30-60.
2
L’OLP, Organizzazione per la liberazione della Palestina, nacque nel 1964 per volere di formazioni
politico – militari arabo – palestinesi di varie tendenze, convergenti nella affermazione che l’entità
sionista di Israele dovesse essere liquidata per consentire la piena e legittima affermazione di
indipendenza della Palestina; la Carta dell’OLP, a cui l’organizzazione si ispirava, ribadiva la
necessità della lotta armata, accusando il sionismo di essere espansionista e colonialista, un
movimento illegittimo e aggressivo verso l’unico detentore per diritto del territorio palestinese. Arafat
prenderà la guida dell’OLP a partire dal 1969, e con gli accordi del 1993 sconfesserà gli articoli più
radicali della Carta, che avevano contribuito a demonizzare lo stato ebraico.
8
come rappresentante della popolazione palestinese, ma all’interno di una
delegazione giordano – palestinese) riconoscevano la improrogabile
necessità di porre fine a decenni di conflitto, la legittimità dei reciproci
diritti politici, e l’impegno a raggiungere una pace equa, duratura e completa
attraverso un processo politico concordato, ribadendo inoltre l’adesione alle
3
risoluzioni 242 e 338 del consiglio di sicurezza dell’ONU.
Gli articoli descrivevano le modalità concordate dalle due parti al fine di
realizzare, in tempi determinati, un autogoverno palestinese temporaneo in
previsione di un futuro negoziato sullo status definitivo: lo scopo dei
negoziati risultava essere quindi l’istituzione del Consiglio per il popolo
palestinese in Cisgiordania e nella striscia di Gaza, il quale avrebbe
mantenuto un’autorità transitoria della durata di cinque anni. Le questioni
rimanenti, tra cui Gerusalemme, i profughi, gli insediamenti, la definizione
dei confini e della statualità palestinese, sarebbero state oggetto di un
accordo definitivo, da avviare non più tardi dell’inizio del terzo anno del
periodo ad interim.
1.2. Contenuti salienti della Dichiarazione dei principi
Stabilito lo scopo dei negoziati con il primo articolo (la formazione del
Consiglio eletto per il popolo palestinese), il documento proseguiva nel
terzo con la descrizione della fase che sarebbe stata ad esso preparatoria: la
proclamazione di elezioni generali politiche, dirette e libere, il cui
fondamento democratico sarebbe stato garantito da una supervisione
concordata dalle autorità di entrambi i paesi, e da una osservazione
3
La risoluzione ONU 242 (22 novembre 1967) fu votata dal consiglio di sicurezza a seguito della
guerra dei Sei Giorni del 1967: ribadendo l’inammissibilità dell’acquisizione di territori con la guerra
e la richiesta di consolidare una pace duratura e giusta nella regione, essa sancisce il necessario ritiro
delle forze armate israeliane dai Territori Occupati. Quest’ultima espressione, che nella versione
inglese del documento ha forma “from territories”, mentre nella francese è posta come ritiro “des
territoires”, ha acceso un dibattito tuttora aperto sulla sua interpretazione: ci si chiede se l’appello al
ritiro sia valido su confini non ancora esattamente definiti o se sia da recepire come ritiro integrale da
tutti i Territori Occupati (Cisgiordania e Gaza).
La risoluzione ONU 338 (22 ottobre 1973) fu votata dal consiglio di sicurezza a seguito della guerra
dello Yom Kippur del 1973: essa richiama le parti ad una immediata cessazione di qualsiasi attività
militare, e ad una altresì rapida implementazione della risoluzione ONU 242 in ogni sua parte.
Per i testi integrali dei documenti vedi http://domino.un.org/UNISPAL.NSF/vCouncilRes.
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internazionale; le elezioni si sarebbero dovute tenere non più tardi di nove
mesi dalla entrata in vigore della Dichiarazione, e avrebbero costituito “[…]
a significant interim preparatory step toward the realization of the legitimate
4
rights of the Palestinian people and their just requirements”. Preposto alla
dettagliata descrizione delle modalità gestionali delle elezioni era il primo
allegato del documento, a cui il terzo articolo in questione rimandava:
nell’allegato si leggevano alcune precisazioni circa il diritto concesso ai
palestinesi di Gerusalemme a partecipare al processo elettorale; circa la
decisione di stipulare un accordo tra le due parti che disciplinasse il sistema
elettorale, la prevista supervisione concordata e internazionale, e le norme
relative alla campagna elettorale. Il protocollo terminava con una clausola
sullo status futuro dei palestinesi espatriati registrati a seguito del 4 giugno
1967: questi ultimi, poiché “[…] unable to participate in the election process
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due to practical reasons”, non avrebbero visto variare il loro status.
Il Consiglio, secondo il quarto articolo dell’accordo, avrebbe esteso la sua
giurisdizione alla Cisgiordania e alla striscia di Gaza, “[…] except for issues
7
that will be negotiated in the permanent status negotiations”; le due zone
venivano inoltre considerate come una singola unità territoriale da
preservare durante il periodo ad interim.
Gli articoli quinto e sesto disponevano che l’inizio del periodo transitorio
per l’autogoverno palestinese sarebbe stato fissato a partire dall’avvio di un
ritiro graduale delle forze israeliane dalla striscia di Gaza e da Gerico, città
posizionata sulla riva occidentale del Giordano e al confine con la
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Giordania; veniva confermato inoltre che dall’entrata in vigore della
4
“[…] un’importante tappa temporanea preparatoria in vista della realizzazione dei diritti legittimi del
popolo palestinese e delle sue giuste richieste” , tratto dal Text of Declaration of principles on interim
self – government arrangements, 13 settembre 1993, in “Dispatch magazine online”,
http://dosfan.lib.uic.edu/ERC/briefing/dispatch/1993/html/Dispatchv4Sup4.html.
5
“[…] impossibilitati a partecipare alle elezioni per ragioni pratiche”, ibidem.
6
La cosiddetta guerra dei Sei Giorni del 1967, con la quale Israele conquistò la Cisgiordania, con
Gerusalemme Est, la striscia di Gaza, il Sinai e le alture del Golan (da allora definiti Territori
Occupati), aveva avviato un esodo di profughi palestinesi la cui soluzione equa divenne una delle
fondamentali richieste avanzate dalla Palestina ad Israele.
7
“[…] ad eccezione di questioni che saranno oggetto di negoziati per lo status definitivo”, ibidem.
8
Questa proposta di ritiro verrà soprannominata “Gaza and Gerico first” con l’intento dichiarato di
sperimentare una forma di autogoverno palestinese che rimanesse inizialmente circoscritto a due zone
specifiche.
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