V
Naturalmente mentre nel caso di Israele, che approfondiremo nella
prima parte, il cammino ha una sua conclusione, un suo coronamento,
per i palestinesi il traguardo non è ancor’oggi stato raggiunto, e soltanto
negli ultimi anni è apparso all’orizzonte, dopo che l’OLP ha rinunciato al
principio per cui in Palestina non ci sarebbe alcuno spazio per uno stato
sionista.
E’ un parallelismo anomalo, perché in realtà il processo dei secondi
ha realmente inizio solo quando è concluso quello dei primi, anzi,
proprio perchè si è concluso quello dei primi. E’ ormai chiaro, infatti,
che gli arabi che abitavano la Palestina, e che da lì fuggirono appena
sorto lo Stato d’Israele, non si sentivano in quel momento affatto
“palestinesi”. Si sentivano semplicemente arabi, “al più siriani di
periferia, perché la Palestina era parte della grande Siria”
2
. Fu proprio
la Nakba, la catastrofe umiliante della fuga disperata dalle proprie case, a
creare nella tragedia comune un senso di “nazionalità” che,
diversamente, non è affatto detto sarebbe sorto “naturalmente”. Una
delle molte, tragiche ironie della storia che accompagnano gli sviluppi
del conflitto arabo-israeliano sta proprio nel fatto che entrambe le
2
Vedasi Intervista a Giancarlo Lannutti, p. xx dell’Appendice
VI
popolazioni hanno tratto da una tragedia epocale che li ha riguardati
nella loro interezza, lo Shoah da una parte e la Nakba dall’altra, il sogno
di diventare “nazione”. Certo, l’Olocausto è una macchia sulla storia
dell’umanità di una tale folle efferatezza da rendere improponibile
qualsiasi paragone, ma, altro paradosso, i palestinesi dovettero soffrire
indirettamente anche dell’Olocausto, che, tanto (giustamente)
impressionò e sconvolse l’opinione pubblica mondiale nel dopoguerra,
da far passare (ingiustamente) del tutto in secondo piano il problema dei
profughi arabi sparsi intorno alle frontiere del nuovo stato. E’ quella che
Edward Said ha definito “la tragedia di essere vittima delle vittime”.
3
La prima resistenza palestinese la organizzarono i regimi arabi, in
particolare l’Egitto di Nasser, proprio perché i palestinesi non avevano
ancora consapevolezza di essere una componente a sé stante all’interno
dell’universo arabo. Fallirà abbastanza miseramente, per le ragioni che
avremo modo di esporre più avanti; ma proprio sulle ceneri di quel
fallimento, che si compie con la guerra dei Sei giorni nel 1967, nasce la
nuova OLP di Yasser Arafat, composta da uomini di una generazione
avanti rispetto alla Nakba, consapevoli ormai che la liberazione della
3
Edward Said, La questione palestinese, Gamberetti, Roma, 1995. Edward Said nasce nel 1935
vicino Gerusalemme da una famiglia palestinese di religione cristiana. Oggi insegna alla Columbia
University (USA) ed è un critico letterario tra i più stimati a livello mondiale. Ex membro del
Consiglio Nazionale Palestinese, è una delle figure più note della diaspora.
VII
Palestina non sarebbe mai passata attraverso l’azione dei regimi arabi.
Scriveva a tal proposito nel 1969 Umberto Cardia:
4
«Per una di quelle singolari contraddizioni, di cui però la
storia è intessuta, è stata l’occupazione dei distretti palestinesi
al di qua del Giordano ad imprimere, dopo il 1967, un moto
accelerato al processo di autocoscienza nazionale degli arabi
palestinesi, a distinguerne più nettamente […] la fisionomia e i
tratti storicamente caratterizzati non soltanto nei confronti
della antagonistica comunità ebreo-israeliana ma anche
rispetto agli altri popoli e stati arabi del Medio Oriente».
5
Il 1967 è dunque una data chiave, meritevole dal nostro punto di vista di
essere individuata come punto di partenza della terza parte di questa tesi,
quella riguardante il ruolo dell’Italia nella controversia arabo-israeliana,
con particolare attenzione ai rapporti con l’OLP di Arafat. Il limite
temporale che ci siamo autoimposti è quello del 1978, della prima
“Camp David”, perché superando quella soglia avremmo corso il rischio
di passare dalla storia alla cronaca, il che non è nelle nostre intenzioni.
4
All’epoca deputato e membro del Comitato centrale del PCI, nonché presidente della Commissione
per la politica estera del gruppo parlamentare comunista e membro della Commissione Esteri della
Camera.
5
Rivoluzione Palestinese, Roma, numeri 6-7 del 1969, p. 20
VIII
A onor del vero tale rischio sussiste anche per i periodi storici che
abbiamo inteso indagare, per la semplice ragione che il problema
palestinese è ancora lungi dall’essere risolto, il che rende difficile
qualsiasi giudizio storico definitivo (se è davvero mai possibile
formaularne) anche su avvenimenti ormai distanti nel tempo.
E' probabile che nel lettore sorga spontaneo il dubbio che la
"divagazione" sul ruolo italiano abbia una scarsa attinenza col resto della
tesi. Noi non crediamo. Crediamo invece che sia impossibile parlare e
scrivere del conflitto arabo-israeliano evitando l'intromissione di "terzi"
nella narrazione. E, se possibile, sbagliato. Il ruolo in esso di paesi come
gli USA, l'ex URSS, l'Egitto, la Siria, la Giordania, un tempo
l'Inghilterra, è talmente di primo piano da non consentirne una
"marginalizzazione" nella descrizione degli eventi. Essi tutti sono parte
facente della storia della Palestina di quest'ultimo secolo, e su di essa
hanno inciso sensibilmente, chi costantemente (i regimi arabi), chi
soltanto a partire da una certa data (USA e ex URSS), chi soltanto fino a
quella stessa data (l'Inghilterra). E non a caso tutti sono ripetutamente
chiamati in causa nel corso delle pagine seguono.
IX
Il lettore più attento converrà senz'altro, ma senza che gli sia
sfuggito un particolare: nella lista dei "terzi" non compare l'Italia. In
effetti sarebbe impossibile sostenere che essa abbia giocato mai, neppure
a partire dal 1967, un ruolo decisivo nell'indirizzare gli eventi relativi
alla contesa. In alcuni momenti essa è salita alla ribalta, ma senza mai
dare l'impressione di poter realmente condizionare le scelte dei
contendenti. Qual è allora la "giustificazione" che ci ha spinto a inserire
la terza parte, quando in effetti le prime due rappresentavano già di per
loro una tesi compiuta e lineare?
Al termine di queste pagine introduttive, ci venga concessa una
piccola premessa-divagazione. Raramente nello studio della Storia
Contemporanea capita d’imbattersi in conflitti che compiano gli
ottant’anni di vita senza aver trovato una soluzione definitiva, qualunque
essa sia. Uno di questi rari casi, forse il più eclatante, riguarda proprio le
quasi secolari controversie legate al destino e al controllo di una terra, la
Palestina, che per motivi diversi è ritenuta “sacra” da entrambe le parti in
causa.
X
Il fatto che non si sia ancora riusciti a porre la parola fine su questa
tragedia permanente è una delle ragioni che rendono più difficile il
lavoro di chi si accosta all’argomento, non foss’altro perché rende ardua
l’impresa di individuare una bibliografia realmente imparziale, anche in
riferimento ad avvenimenti molto lontani nel tempo. Basti a titolo
esemplificativo citare la Dichiarazione Balfour, dell’anno 1917, dalla
quale questa tesi prende le mosse: nell’approfondirne l’analisi abbiamo
incontrato testi che ne davano, portando numerose argomentazioni,
interpretazioni completamente inconciliabili. Questo dipende proprio dal
fatto che dare di quell’evento, apparentemente oggettivo, una lettura in
luogo di una altra, significa indirizzare in un verso e non nell’altro anche
il giudizio sulla situazione contemporanea.
Nello scrivere, partendo da una situazione nella quale la curiosità
era pari all’ignoranza, abbiamo cercato di mantenerci costantemente al di
sopra delle parti: ci venga concessa, qualora come possibile non ci sia
riuscito, l’attenuante d’esser partiti senza alcun pregiudizio. L’alibi
migliore era la nostra iniziale, assoluta ignoranza, nonché l’intento
dichiarato di restare fedeli alla massima espressa nell’introduzione al suo
Nazionalismo arabo e nazionalismo ebraico da Paolo Maltese:
«A volte, dalla lettura di questo libro sembrerà che abbiano
ragione gli ebrei (e poi gli israeliani) ed a volte gli arabi; a
XI
volte i libanesi ed a volte i siriani; ora quella che era l’Unione
Sovietica, ora gli Stati Uniti...Il lettore ne potrà ricavare una
impressione di incertezza, ma alla fine, io spero, si convincerà
che non si tratta di dar ragione o torto: si tratta semplicemente
di capire».
6
6
Paolo Maltese, Nazionalismo arabo e nazionalismo ebraico. 1798-1992. Storia e problemi, Mursia,
Milano, 1992, p. 6
1
CAPITOLO I
ISRAELE: DALLA DICHIARAZIONE BALFOUR
ALLO STATO NAZIONALE.
Gli anni del mandato britannico
IL SIONISMO E LA DICHIARAZIONE BALFOUR
Quando il 2 Novembre del 1917 il Foreign Office britannico
pubblicò sotto forma di lettera indirizzata a Lord Rothschild
1
la celebre
Dichiarazione Balfour
2
(v. documentazione), il numero di ebrei in terra
di Palestina non era certamente tale da rappresentare un irrimediabile
fattore di destabilizzazione politico-sociale. A fronte infatti di una
popolazione che complessivamente si aggirava sulle 820000 unità,
soltanto un 10% circa era di religione ebraica
3
. Tuttavia, non era difficile
prevedere che a partire da quella data, e a partire da quella
Dichiarazione, le proporzioni numeriche avrebbero rischiato di subire un
mutamento sensibile a favore della presenza ebrea, così da portare a
scontri di natura non solo dialettica tra la componente araba preesistente
e i “nuovi arrivati”. Quello che invece non era prevedibile sin d’allora
1
Attivissimo sostenitore della causa sionista e membro della Camera dei Lords, nonché presidente
onorario della Federazione sionista
2
Arthur James Balfour era l’allora Ministro degli Affari Esteri britannico, nel governo di Lloyd
George.
3
Vedasi tabella “Rapporti demografici in Palestina”
2
era uno sviluppo in prospettiva del conflitto nei termini che conosciamo.
Se lo fosse stato, il governo inglese avrebbe certamente opposto
maggiore ostruzionismo all‘operato di Weizmann
4
, erede di Herzl
5
alla
guida del movimento sionista e principale artefice della Dichiarazione
Balfour.
Taluni osservatori ritengono a tal proposito che il merito dell’aver
conseguito un documento col quale sostanzialmente una grande potenza,
uscita vincitrice dal conflitto mondiale, appoggiava gli obiettivi del
movimento sionistico, impegnandosi a favorire “la fondazione in
Palestina di un focolare nazionale per il popolo ebraico” , vada quasi
del tutto ascritto alla sapiente azione del Weizmann
6
, abilissimo a
sfruttare la sua fitta rete di conoscenze (tra le quali spicca quella di
Churchill) al fine di promuovere la causa sionista. Altri
7
invece
preferiscono addurre ragioni di politica estera, dando minor peso al ruolo
giocato dall’allora direttore dei laboratori chimici della marina
britannica. (occupazione di Weizmann dal 1916 al 1919).
Quali che fossero le ragioni che portarono alla Dichiarazione, sta di
fatto che essa servì a indurre molti ebrei sparsi per il mondo -in
4
Presidente dell’organizzazione sionistica mondiale (1921-1930, 1935-1946), presidente del governo
provvisorio del nascente Stato d’Israele (1948) e presidente dello Stato d’Israele (1949)
5
Scrittore e uomo politico ebreo, é considerato il padre del sionismo moderno
6
vedi Sergio Romano, Lettera a un amico ebreo, Longanesi, Milano, 1997, p.44
7
vedi Sergio I. Minerbi, Risposta a Sergio Romano, Giuntina, Firenze, 1998, p.49
3
particolare i più poveri, che da un trasferimento avrebbero tratto
beneficio- a “convertirsi” al sionismo e a recarsi dunque in Palestina.
Provenienti da cinque continenti e diretti in un paese i cui abitanti, fatta
eccezione per un piccolo numero di pionieri, appartenevano ad un altro
popolo. Questo avvenne soprattutto a partire dal 1922, anno nel quale, il
24 luglio, la Società delle Nazioni approvò il Mandato britannico per la
Palestina che richiamava e riproduceva la Dichiarazione Balfour. Già
due anni prima, nel 1920, la validità dello status internazionale della
Dichiarazione aveva trovato due significative conferme, con la
Conferenza di Sanremo e col trattato di Sèvres, e tutto questo facilitava
la scelta degli ebrei di tornare nella “Terra dei Padri” piuttosto che
emigrare negli Stati Uniti, che allora rappresentavano la soluzione più
praticata.
La Dichiarazione finì insomma per dare un fondamento giuridico
alla causa sionista, divenendo quella “Carta Internazionale del
Risorgimento ebraico” auspicata diversi anni prima da Theodor Herzl.
Questi aveva ben presto realizzato quanto fosse imprescindibile, per la
realizzazione concreta del sogno sionista, l’appoggio delle grandi
potenze, al punto da porre in secondo piano rispetto ad esso la stessa
meta finale “geografica” della diaspora ebraica, la sacra Eretz Israel, la
Terra di Israele sulle due rive del Giordano.
4
Dunque, la Dichiarazione Balfour fu senz’ombra di dubbio un
successo enorme per tutti quegli ebrei che ponevano in primissimo piano
l’aspetto della protezione, dell’appoggio esterno di una grande potenza al
progetto sionista, poco importa quale, come dimostrano i “pellegrinaggi”
di Herzl da una corte europea all’altra. E fu un successo le cui
conseguenze, come detto, certamente andarono oltre quelle che erano e
potevano essere le previsioni di chi quel successo aveva consentito, vale
a dire l’Inghilterra.
E’ quasi superfluo del resto sottolineare che alla base della
Dichiarazione Balfour non vi fossero di certo da parte inglese valutazioni
etico-morali di alcun genere, ma semplicemente la volontà di riuscire ad
anticipare concorrenti (vedi la Francia) desiderosi di esercitare la loro
influenza il più possibile diretta sull’area mediorientale. Non va infatti
dimenticato che la Dichiarazione cadeva in un momento altamente
strategico, quando l’Intesa aveva ormai vinto la Prima Guerra Mondiale,
e restavano da stabilire le zone di influenza di competenza dei vincitori.
Da questo punto di vista l’area mediorientale offriva interessanti
prospettive, essendo con la guerra venuto meno il dominio ottomano: la
Dichiarazione sostanzialmente serviva alla Gran Bretagna per stabilire
una testa di ponte nell’occupazione della Palestina. Ed é indubbiamente
in quest’ottica contingente che la Dichiarazione Balfour va letta e
5
interpretata, riuscendo in tal modo a intendere meglio perché di lì a soli
tre anni, quando coi trattati di pace si instaura il sistema dei mandati, gli
inglesi non mostreranno una grande soddisfazione nel vedere allegata
quella stessa Dichiarazione al loro mandato sulla Palestina. Non era
ormai difficile prevedere che la susseguente ondata di ebrei di ritorno
nella Terra dei Padri avrebbe infatti creato degli scompensi al sistema
sociale di quell’area, tali da costringere gli inglesi, come vedremo, a
rivedere fino a capovolgere la loro posizione in relazione al conflitto
arabo-palestinese. Come più volte sottolineato da Michael J. Cohen
8
, sin
dai primi anni venti “British policy in Palestina did not match up to the
pious promise made in 1917”, ovverosia la concreta politica inglese
immediatamente disattese la “pia” promessa contenuta nella
Dichiarazione Balfour, dove era affermata la ferma volontà di adoperarsi
per la concreta realizzazione della National Home ebraica.
Ad ogni modo, con o senza il concreto appoggio inglese, l’esodo
verso la Palestina era cominciato, e la Dichiarazione Balfour ne era uno
dei “motivi” principali. Ecco perché ci è sembrato giusto scegliere il
1917 come data di partenza nell’analisi del percorso di Israele “dagli
insediamenti allo Stato sovrano”.
8
Michael J. Cohen, “Palestine to Israel. From Mandate to Indipendence”, Frank Cass, London, 1988
6
Nessuno può negare che gli ebrei, sebbene in misura
numericamente molto inferiore, in Palestina c’erano anche prima di
quella data, o, meglio ancora, da essa non se ne erano mai
completamente andati. E’ altrettanto innegabile che, come afferma
Codovini, «il punto di riferimento essenziale per cogliere il nodo storico
della questione arabo-israeliana è il 1917»
9
. A partire da questa data
infatti il problema di una convivenza quasi impossibile tra due popoli su
di un’unica terra comincia ad assumere le drammatiche proporzioni che
ne caratterizzeranno lo sviluppo ancora sino ai giorni nostri. Basti di
contro pensare che soltanto venti anni prima in Palestina gli ebrei non
apparivano molto diversi dai Templari, un gruppo marginale di tedeschi
evangelici convinti di essere il vero popolo eletto, e che per questo
s’erano insediati in Terra Santa. Semplicemente, la stragrande
maggioranza della popolazione rurale araba locale ignorava l’esistenza di
entrambi i gruppi.
10
9
Giovanni Codovini, Storia del conflitto arabo israeliano palestinese, Bruno Mondadori, Milano,
1999, p.1
10
vedi Baruch Kimmerling e Joel S. Migdal, “I palestinesi. La genesi di un popolo”, La Nuova Italia,
Scandicci (Firenze), 1994, p. 22