progetto che, invece, additando tempi e modi, cause prime e cause ultime, si gioca sicuramente
nella città terrena, come direbbe Agostino d’Ippona, ma trova coronamento, scopo e legittimazione
nella città celeste. La prima posizione si riduce a contemplare il fine, dimentica del mezzo; la
seconda farebbe del fine intermedio, l’essere umano, il fine ultimo della propria azione.
La Chiesa cattolica si trova a condividere l’appartenenza a due città (sempre per utilizzare la
metafora agostiniana), quella celeste e quella terrena. Tuttavia si pone in posizione intermedia tra le
due: vive nel mondo, ma protende i propri sguardi verso l’ultra mondano. Peregrina è l’apposizione
predominante, che Agostino attribuisce alla Chiesa, nella sua opera De Civitate Dei. Orbene,
peregrinus, in latino, copre due significati. Peregrinus è “colui che cammina”, ma è anche lo
“straniero”. Peregrina è dunque la Chiesa, che procede sulle strade degli uomini e delle donne, al
fianco di ciascuna persona, ma mostra loro un sentiero che conduce ad una terra nuova, della quale
nessuno ancora possiede la cittadinanza, di fatto, ma che la concederà de iure a tutti coloro che
avranno creduto alla verità e alla necessità di camminare per l’Uomo e con l’Uomo.
L’adesione a questa spinta ideale, ad agire nel saeculum, non si colloca nel solco tracciato da
filosofie umane e da dottrine politiche di carattere utopico. L’utopia resta tale, fintanto che non si
implementino le ideazioni, fintanto che i progetti restano sulla carta e nella mente dei loro ideatori.
Da questo punto di vista, politico, dico, o politologico, la Chiesa cattolica sa di poter dare un
contributo all’intera umanità, indicando alla politica, se e quando essa fosse solo il prodotto di
un’etica di potenza o scienza della ragione di Stato, altre vie, più nuove e più umane, per mettersi
veramente al servizio dell’uomo e della donna, servendo contemporaneamente la causa della pace e
della giustizia. Infatti, filigrana regale, fine, oggetto e soggetto della politica, negli innumerevoli
documenti della Chiesa e dei filosofi cristiani, è la persona, l’uomo integrale, come affermerebbe
Jacques Maritain.
L’azione della Chiesa non è accidentale, e nemmeno nasce da una sorta di “agire di ruolo”
di tipo sociologico. L’adesione al progetto dell’amore crea i presupposti di un’azione logicamente
necessaria: se si ama Dio si devono amare anche i propri fratelli (all’estremo, persino chi ci odia,
persino chi ci uccide). Dunque, le categorie della politica, di schmittiana memoria, perdono la loro
dimensione antinomica: esistono solamente amici, se ciascuno è capace di amare anche i nemici. Si
apre, così, il mondo alla pace, non alla coesistenza, ma alla convivenza di popoli e culture differenti,
non la sospettosa coabitazione gli uni a fianco gli altri, ma la consapevolezza che le sorti dei vicini
sono le comuni sorti anche dei lontani.
Ecco, appunto, l’amore e il perdono, ritenuti, per lungo tempo, attitudini appartenenti alla
sfera dell’intimità individuale (e promananti da essa) vengono esaltati a categorie politiche, che
devono informare di sé l’intera sfera politica. Infatti, l’empatia, intesa come la capacità di
partecipare alla vita di una persona, non è solo o tanto sentimento (che, pure, alla stregua di tanti
altri, in politica, potrebbe godere di una propria dignità). Empatia è quella capacità di far proprie le
speranze e le sofferenze che ci giungono dal volto dell’altro, interiorizzandone le responsabilità,
all’assunzione delle quali siamo richiamati. A questo scopo, più avanti illustrerò alcuni passaggi del
pensiero di Emmanuel Lévinas, il quale, ancorché appartenente alla fede ebraica, presenta, tuttavia,
molti punti di contatto con una certa filosofia politica cattolica, che se ne lasciò ispirare: alludo,
cioè, ad alcuni capisaldi della cosiddetta Teologia della Liberazione.
E’ il volontarismo, non il determinismo o il fatalismo, dunque, posto dal pensiero politico
cattolico alla base di ogni azione in politica: se vuoi la pace prepara la pace e lavora per la sua
edificazione! La conversione del cuore non deve essere considerata un intimo e privato
atteggiamento, esautorato da ogni dignità pubblica. La virtù, certamente, non può essere pubblica,
se, prima, non è privata. Tuttavia essa deve uscire dalla sfera del singolo cuore, fino a toccare tutte
le sfere del politico, del sociale, dell’economico, del giuridico, del civile, del tecnologico, dello
scientifico. Ed è questo l’insegnamento che ci giunge dal pensiero sociale cattolico: amore e
perdono, categorie, per definizione millenaria, estranee alla politica, quando informano di sé la
politica stessa, la riavvicinano all’uomo, la umanizzano, perseguendo e realizzando la pace e la
giustizia, contemporaneamente.
Ma ci si potrebbe interrogare sul senso di un accoglimento in politica, sfera meramente e
prettamente umana, di un imperativo categorico di natura metafisica. Perché un organismo
confessionale si sente legittimato a produrre un’ideologia che possa indirizzarsi all’attenzione delle
ideologie, tradizionalmente annoverate tra quelle politiche o sociologiche? Si tratta forse di voler
clericalizzare la politica? Perché la Chiesa cattolica ritiene che il proprio Magistero possa riscuotere
unanime consenso? A queste domande cercherò di rispondere nel corso di questo scritto, che
intende sostenere una tesi ben precisa: per umanizzare la società occorre che l’uomo e la donna
siano considerati, con amore e giustizia, al centro di ogni politica.
Tutte le dottrine politiche e sociologiche - per lo meno quelle più vicine ai nostri tempi - dal
liberismo, al socialismo, al funzionalismo, all’utilitarismo, qualora si siano informate ad una
antropologia lacunosa della considerazione di queste due categorie, dell’amore e della giustizia, nel
migliore dei casi si sono rivelate felici utopie, mentre, nel peggiore, hanno apportato al genere
umano guerre, miserie, oppressioni, disumanizzazione.
Ritengo, mutuando questo pensiero dalla dottrina sociale della Chiesa cattolica, essere
giunto il tempo nel quale si possano ascoltare anche gli appelli di chi ci esorta ad introdurre in
politica la considerazione del metafisico, non più considerato come avulso e assoluto dalla
contingenza delle scelte quotidiane, ma capace di illuminarle di una luce più umana.
In merito all’interrogativo posto poco sopra, sulla fiducia, cioè, che la Chiesa ripone
nell’universale accoglimento del suo messaggio, eloquente è l’incipit dell’enciclica Gaudium et
spes, elaborata dai Padri conciliari nel 1965:
Le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce degli uomini d’oggi, dei poveri, soprattutto, e di tutti coloro
che soffrono, sono pure le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce dei discepoli di Cristo e nulla vi è di
genuinamente umano che non trovi eco nel loro cuore. (…). Perciò essa si sente realmente ed intimamente solidale con
il genere umano e la sua storia
2
.
Da questa dichiarazione di non neutralità, da questa vocazione a camminare accanto
all’uomo e alla donna, deriva il fermo proposito di sollecitare tutto il genere umano ad accogliere la
voce della Chiesa, soprattutto laddove ravvisi, scrutando i segni dei tempi, che il progresso
scientifico, la tecnologia, l’economia, lungi dall’assicurare serenità di vita e benessere diffuso,
divengono mezzi d’oppressione, forieri di una sottile, ma non meno immorale, schiavitù culturale,
sociale e politica. Tutto ciò accade proprio quando l’intero genere umano ambisce ad un maggior
riconoscimento dei diritti dei quali è portatore, essendo ormai aspirazione comune di tutti che
prossimo sia l’avvento di un ordine sociale, politico ed economico al servizio dell’essere umano e
della sua dignità.
(…) Il mondo si presenta oggi potente ad un tempo e debole, capace di operare il meglio e il peggio, mentre gli
si apre dinanzi la strada della libertà e della schiavitù, del progresso o del regresso, della fraternità o dell’odio
3
.
Segnatamente, il Magistero della Chiesa è indirizzato a rivelare all’uomo e alla donna di
oggi il senso autentico della propria dignità, denunciando le diverse forme di sopruso, velate o
palesi, nelle quali vengono irretiti, vuoi da fallaci interpretazioni intorno al libero esercizio della
coscienza, vuoi dall’esaltazione della libertà senza responsabilità o dai soli doveri, svuotati della
vera libertà, proposti dalle fluttuazioni di opinioni, leggi e costumi, promulgati dal diritto positivo,
spesso in contrasto con la legge naturale, della quale, invece, la Chiesa proclama la superiorità.
La Gaudium et spes non manca di sottolineare che sussiste una stretta correlazione, una
rigida interdipendenza tra il perfezionamento della società e lo sviluppo della persona umana. Se la
società abdica ai propri doveri, se, cioè, al suo interno tollera, o, peggio, favorisce perturbamenti,
che derivano dalle tensioni economiche, politiche e sociali, anche le persone, che nella società
vivono, saranno irrimediabilmente proiettate in un bellum, in una strenua lotta per la sopravvivenza,
nella quale la dottrina dell’homo homini lupus, non solo sarebbe, esistenzialmente parlando,
consigliata, ma innesca una tale spirale perversa di odio, cui l’intera società non saprebbe opporre
resistenza, se non atomizzandosi, individualizzandosi, nutrendo ciascun membro il sospetto per
l’altro, abbandonando la spinta solidaristica, alla base della sua fondazione, in ultimo,
annichilendosi.
Da questa visione apocalittica, viene l’appello che la Chiesa rivolge a tutti gli uomini e le
donne di buona volontà ad accogliere l’invito a lasciarsi permeare dal metafisico, a non impedire
che etica possa finalmente costituirsi come il più appropriato aggettivo di politica.
(…) Sempre e dovunque, e con vera libertà, è suo diritto predicare la fede e insegnare la sua dottrina sociale,
esercitare senza ostacoli la sua missione tra gli uomini, e dare il suo giudizio morale, anche su cose che riguardano
l’ordine politico, quando ciò sia richiesto dai diritti fondamentali della persona (…).
4
Così come gli antichi profeti, anche la Chiesa oggi ritiene la propria voce autorizzata ad
intervenire nel dibattito pubblico, intorno ai temi morali, dove sia in gioco l’integrità della persona,
integralmente concepita come corpo e spirito, come ebbe ad affermare, nel 1979, Giovanni Paolo II
all’assemblea delle Nazioni Unite:
Bisogna misurare il progresso dell’umanità, non solo con il progresso della scienza, e della tecnica, (…) ma
contemporaneamente ed ancor più col primato dei valori spirituali, e col progresso della vita morale.
5
Così, la missione della Chiesa nel mondo consiste nel far ravvedere l’essere umano, quando
si lasci sopraffare dal delirio di considerarsi artefice e demiurgo della storia
6
, poiché spesso questa
concezione ha condotto alla sperimentazione di forme politiche altamente alienanti dei diritti e della
dignità umani. Non può la Chiesa interessarsi solamente all’aspetto spirituale, intimo dell’uomo e
della donna, trascurandone, invece, il lato materiale, quando soprattutto questi si trovino esposti ed
inermi, in balìa di ideologie che di umano hanno ben poco, nonostante i clamori delle loro
proclamazioni.
Per molteplici argomentazioni, la filosofia teoretica classica ha escluso la possibilità che da
descrizioni si traggano prescrizioni (legge o principio di Hume). Il pensiero politico cattolico,
invece, ha ridato nuovo vigore e nuova dignità all’azione diretta, sia in campo sociale, sia in ambito
economico e politico. Pertanto la difesa della pace e la promozione della dignità umana - due facce
della stessa medaglia: non può esistere la seconda se non è cercata, costruita e garantita la prima, e
viceversa - costituiscono le linee guida per una filosofia morale e per una teologia della prassi, in
ottemperanza al principio che operari sequitur esse. Sei una persona umana, comportati, dunque,
come tale: umanamente!
Vorrei ricordarlo nuovamente: l’azione non è ispirata da semplice pietà umana. Non è pura
filantropia! La Chiesa ha elaborato un pensiero che, pur non essendo possibile considerare, a tutti
gli effetti, strettamente dottrina politica, tuttavia si muove nelle pieghe del sociale, del politico e
dell’economico. Questa dottrina, definita pensiero sociale della Chiesa, non è nient’altro che
l’immagine speculare dell’indagine teologica del Magistero. E’, in definitiva, il Vangelo che si
traduce in vita vissuta, in insegnamento morale e pratico. Pertanto, è l’amore, centro del messaggio
evangelico - che informa tutta la predicazione della Chiesa cattolica - ad essere assunto a nuova
categoria della politica, a via pratica verso l’edificazione di una città più umana. Dall’amore nasce il
perdono, fondamento della pace vera; dall’amore nasce e rinasce l’essere umano, capolavoro del
«digitus paternae dexterae
7
».
In ultima analisi, l’argomento di questa tesi indaga il ruolo che potrebbe giocare l’amore,
qualora fosse assunto a categoria dell’azione politica.
L’amore ha la capacità di unire i simili, i vicini. Il perdono trasforma in familiare colui che,
per antonomasia, è mantenuto a debita distanza, poiché ritenuto pericoloso, capace di distruggere; lo
riconduce a una griglia interpretativa, dalla quale emerge solamente l’uguaglianza e la reciproca
dignità, di chi offre e di chi riceve il perdono.
1.2. Quale antropologia? Persona versus individuo.
E’ opportuno ora indagare intorno alla dimensione “uomo e donna”, secondo l’antropologia
teologica e filosofica cattolica, considerando, in primo luogo, l’apporto fondamentale del pensiero
del filosofo francese Jacques Maritain, contenuto nell’opera La persona e il bene comune.
Successivamente, avvalendoci del contributo del documento Depositum fidei, cioè del
Catechismo della Chiesa cattolica, analizzeremo, con particolare riguardo alla definizione di uomo,
persona ed individuo, questi temi, considerando, da un lato, lumine revelationis, da dove derivi
l’inviolabilità della persona umana, e, dall’altro, lumine rationis, quali vie siano indicate, come
maestre da battere, per l’edificazione della pace e la promozione della dignità di ogni persona.
Maritain, ripercorrendo la filosofia di Tommaso d’Aquino, contrappone, come speculari,
l’individualità e la personalità dell’Uomo, distinzione metafisica che ci consente di valutare come
una certa filosofia sociale possa fondarsi sul primato della dignità umana.
La posizione dell’Aquinate è in stretta aderenza con la teologia medioevale, ribadendo,
infatti, che l’umanità è ordinata a Dio, come bene assoluto, e che questo rapporto trascende ogni
bene comune - sia quello della città, sia quello universale
8
-. La personalità dell’uomo e della donna
deriva, così, in ultima analisi, dal rapporto amicale che s’instaura tra Dio e l’uomo e la donna stessi.
Deus non tantum diligit creaturam sicut artifex opus, sed (…) sicut amicus amicum
9
.
Da questa comunione intima e personale dell’anima razionale con Dio, deriva un’amicizia
aperta e generosa, che intesse la trama della società, comprendente tutti coloro che vivono il
medesimo rapporto di compartecipazione in Dio. E tale atto, atto egregiamente spirituale, fonda la
dottrina del primato di quanto è più autenticamente spirituale, personale, su quanto è sociale
10
.
Infatti, è il polo spirituale che racchiude la personalità, mentre la dimensione materiale
riguarda solamente l’individualità. Questa dicotomia, tuttavia, non significa contrapposizione!
L’anima umana costituisce un’unica realtà con la materia corporale che informa, ed ogni anima ha
caratteristiche individuali che la distinguono dalle altre anime
11
.
La vera essenza della personalità, dunque, per Maritain (e per Tommaso d’Aquino) non
riposa tanto o solo nell’individualità, quanto nel rapporto d’amore che s’instaura tra la creatura ed il
creatore. L’amore non è indirizzato a “qualità” o ad “essenze”, ma è prerogativa della persona, in
quanto amante ed in quanto amata.
Per potersi dare, bisogna prima esistere, e non solo come un suono che passa nell’aria, o un’idea che mi passa
nella mente, ma come una realtà che sussiste e che esercita da se stessa l’esistenza. (…) Bisogna esistere di un’esistenza
spirituale, capace di afferrarsi essa stessa, per mezzo dell’intelligenza e della libertà, di sovresistere in coscienza ed
amore
12
.
La persona emerge, dunque, nell’atto stesso d’amare, in quanto capace d’instaurare legami
liberi, razionali e relazionali con le altre persone. Ed in questa dimensione relazionale troviamo un
altro fondamentale presupposto della personalità. La personalità presuppone l’interiorità. Tuttavia
essa non è una monade, chiusa in se stessa; soggettività della persona, non si declina assolutamente
con mancanza di dialogo, di intelligenza e di amore.
Stante questo ragionamento, dovremmo giocoforza sostenere l’irriducibilità dei due aspetti
metafisici dell’essere umano: la personalità e l’individualità?
Maritain ci mette in guardia dal cadere in un simile tranello…
E’ evidente che non c’è in me una realtà che si chiami il mio individuo, ed un’altra realtà che si chiami la mia
persona. E’ lo stesso essere intero, che, in un senso, è individuo e nell’altro senso è persona. Io sono tutto individuo in
ragione di ciò che mi viene dalla materia, e tutto persona, in ragione di ciò che mi viene dallo spirito
13
.
Compete all’educazione, allora, formare persone che non s’incamminino sulla via
dell’individualità materiale, di quell’io odioso (presente ovunque, anche se non in questi termini,
nei Pensieri di Blaise Pascal), avidamente ancorato alla legge del prendere e dell’assorbire ogni
cosa, al fine di soddisfare il proprio utile particolare. Seguendo questa via, il traguardo finale non
sarà lo sviluppo della personalità spirituale, ma la dissoluzione della dignità stessa dell’uomo e della
donna.
Tutto quel che vi è di più umano nell’uomo si ritira in una sorta di vuoto, ricoperto di frivolezza
14
.
Occorre invece incamminarsi sulla via dell’io generoso. Dall’idea dell’esistenza di un io
generoso deriva l’interrogativo se la società sia costruita per noi, ovvero, se, viceversa, noi per essa.
Colui che pretendesse fornire una risposta unilaterale a questa domanda, si troverebbe
irrimediabilmente invischiato nell’individualismo o stritolato dagli ingranaggi del totalitarismo. È’
la persona stessa che, in virtù della propria dignità, reclama il diritto a vivere in una società, nella
quale la regola sia la ridistribuzione del bene comune. Negli alveari (come pure nelle altre società
animali), infatti, gli individui non sono propriamente considerabili persone, non essendo loro
riconosciuto il valore di “tutto” morale e di soggetto portatore di diritti inalienabili: le parti che
compongono tali società sussistono e vengono mantenute in vita solamente in vista della
sopravvivenza stessa del “tutto” collettivo e del bene del “tutto” stesso. Un bene comune, questo,
che non può essere considerato formalmente un “bene sociale”. Il bene comune, per essere tale,
implica la ridistribuzione alle persone, in quanto persone, di ciò che contiene.
(Il bene comune) racchiude la somma o l’integrazione sociologica di tutto ciò che v’è di coscienza civica, di
virtù politiche e di senso del diritto e della libertà, e di tutto ciò che v’è di attività, di prosperità materiale e di ricchezze
dello spirito, di sapienza ereditaria messa inconsciamente in opera, di rettitudine morale, di giustizia, d’amicizia, di
felicità e di virtù e di eroismo, nelle vite individuali dei membri della comunità, in quanto tutto questo sia, in un certo
senso, comunicabile e si riversi in una certa misura su ciascuno, ed aiuti ciascuno a completare la sua vita e la sua
libertà di persona
15
.
E’ questa, forse, la definizione più completa (che abbia mai ritrovato nei miei studi),
impiegata per rispondere alle domande intorno a cosa si intenda per società, come nasca, quale sia
la sua funzione per i membri che la compongono.
Esiste una spinta solidaristica, che da ogni persona deriva, e che raggiunge l’intera società,
affinché ciascun “associato” possa crescere in dignità e libertà. Le virtù civiche, qui sopra ricordate
da Maritain, partono dalle singole persone, si comunicano a tutta la società e dalla società
nuovamente si ripartiscono uniformemente alle persone stesse.
Questo doppio movimento, dalle persone alla società e dalla società alle persone, costituisce
il presupposto di quell’amore sociale (che vedremo, più avanti, esposto nelle encicliche pontificie),
il quale si nutre di giustizia e diritto, appellandosi all’intelligenza dell’uomo e della donna, come
agenti morali, capaci di far uso della propria libertà, non in chiave utilitaristica, cioè
individualistica, ma di impiegarla nella realizzazione di una società più giusta, pacifica (poiché
ciascuno è responsabile dell’altro) e rispettosa della dignità dell’uomo e della donna, visti non come
semplici “ingranaggi” di un meccanismo che li trascende, ma come fondatori e beneficiari primi ed
unici della vita in società.
Passiamo ora alla posizione teologica e antropologica della Chiesa cattolica, analizzandone
alcuni capisaldi, in tema di definizione di cosa essa intenda per Uomo e per dignità della persona.
Nel Catechismo Universale della Chiesa cattolica, molti sono i richiami ad una corretta
interpretazione dell’uomo e della donna, della loro vita, delle loro istituzioni, non solo riferendosi
allo status quo ontologico, ma anche e soprattutto mirando a fornire indicazioni deontologiche circa
il loro dover essere.
Secondo la tradizione rivelata dalla Bibbia, l’uomo e la donna, insieme a tutto l’universo,
sono stati creati con un’azione diretta, volontaria e libera da parte di Dio. Nel libro della Genesi
(1,27), è Dio stesso che crea l’uomo e la donna a sua immagine, cioè conferisce loro la dignità di
persone, in quanto esseri liberi, razionali. Libertà e razionalità: è questa la realtà dell’umanità,
immagine di Dio. Dunque, la dignità dell’uomo, non è qualcosa che gli viene ottriata da sintesi
politiche o sociali a lui superiori: non è lo Stato, non è l’appartenenza di classe, né di genere, non è
la Costituzione, fosse anche la più democratica. L’essere umano possiede una propria dignità di
persona in quanto non è “qualcosa”, ma qualcuno
16
. Infatti, Dio e Adamo, nel giardino dell’Eden si
chiamano per nome. E nel corpo del primo uomo e della prima donna, da cui derivarono tutte le
nazioni - e, grazie a questa comune origine, tutto il genere umano forma un’unità, fondando in
questo modo il principio della solidarietà umana - coesistono i due principi metafisici della materia
e dello spirito, non in qualità di due nature distinte (come le voleva Réné Descartes: la res cogitans,
il pensiero, distinta dalla res extensa, il corpo), ma nella fusione di un’unica natura
17
.
La dignità dell’uomo e della donna risulta, dunque, impastata nella, e della, loro stessa
natura: è dignità di essere vivente, è dignità di essere spirituale. Se non si assume questo
presupposto come punto di partenza nella nostra analisi, si perverrà a formulare una, forse, perfetta
filosofia politica, mirante alla promozione della dignità umana, ma, considerando l’Uomo, ut Deus
non esset (come se Dio non esistesse), rischieremmo di incorrere in un relativismo utopico, che ci
condurrebbe alla formulazione di un’esaltante dottrina filantropica, miope dal punto di vista
dell’individuazione delle cause ultime. Senza la considerazione del fatto che la libertà umana
discende, in ultima analisi, dalla libertà del Creatore, si rischierebbe di cadere in una sorta di
relativismo etico, nel quale la libertà stessa diviene sinonimo di individualismo, cancellazione del
riconoscimento di una dimensione anche spirituale della persona umana. Da qui l’invito della
Chiesa cattolica a concepire l’Uomo integrale, non solo materia, non solamente vuoto concetto,
inane idea. In lui risplende, infatti, l’immagine divina, dalla quale derivano tutte le sue dignità, tutte
le sue libertà, tutta la sua inviolabilità.
In virtù della sua anima e delle sue potenze spirituali d’intelligenza e di volontà, l’uomo è dotato di libertà,
segno altissimo dell’immagine divina
18
.
Segno supremo della dignità dell’uomo e della donna, del loro essere persona, è l’esercizio
della propria coscienza morale, la capacità di discernere il bene dal male, non solo sul piano delle
realtà ultraterrene, ma anche sul piano delle scelte concrete.
L’importante per ciascuno è di essere sufficientemente presente a se stesso, al fine di sentire e seguire sempre
la voce della propria coscienza. Tale ricerca d’interiorità è quanto mai necessaria per il fatto che la vita spesso ci mette
in condizione di sottrarci ad ogni riflessione, esame o introspezione
19
.
Questo era in sostanza anche il consiglio che forniva Agostino d’Ippona: a far ritorno in se
stessi e lì cercare la verità
20
.
Solo nel foro della coscienza morale la dignità della persona può realizzarsi, assumendo,
così, anche le responsabilità degli atti compiuti.
Ciò vale soprattutto per l’azione politica, nella quale deve primeggiare la giustizia sociale,
impossibile se avulsa dal riconoscimento della dignità trascendente di ogni persona, che scaturisce,
come precedentemente affermato, dal suo essere creatura, dall’essere, e dalla vocazione a divenire,
il migliore amico di Dio. I diritti della persona umana devono così informare la sfera sociale, pena
la sua dissoluzione, causa il ritiro del proprio consenso da parte di esseri liberi, riluttanti a vivere in
un contesto sociale, politico ed economico lesivo della loro trascendente dignità personale.
Questi diritti sono anteriori alla società e ad essa s’impongono. Essi sono il fondamento della legittimità morale
di ogni autorità: una società che li irrida o rifiuti di riconoscerli nella propria legislazione positiva, mina la propria
legittimità morale
21
.
Pertanto, la dottrina sociale della Chiesa esorta gli Stati a non tramutarsi in disumani
meccanismi che stritolano sotto i propri cingolati i diritti fondamentali ed inalienabili di ogni essere
umano. La Chiesa condanna insieme le dottrine capitalistiche, socialiste e razziste come causa
dell’oppressione della persona. Nel capitalismo, l’individualismo ed il desiderio smodato di danaro
minano alla base della società ogni spinta solidaristica, trascurando di considerare l’esistenza di
numerosi bisogni umani, che non hanno accesso al mercato
22
. Analogamente anche il comunismo, o
economia pianificata, è condannato quale dottrina economica e di organizzazione politica, in quanto
riduce la persona umana a docile strumento nelle mani di un “programma economico”, che aliena
all’essere umano stesso il diritto di esercitare il lavoro come espressione della propria personalità e
creatività
23
.
La cosiddetta terza via tra capitalismo e comunismo, il programma economico e sociale che
deriva dalla speculazione teologica, filosofica, sociologica e morale della Chiesa cattolica, in grado,
da un lato di salvare l’individualità della persona (elemento mancante al socialismo) e dall’altro di
garantire la solidarietà tra i membri del corpo sociale (“la grande assente” del capitalismo), sarà
illustrata successivamente, quando discuteremo dell’enciclica Centesimus annus, laddove sono
delineati i parametri ideologici per la fondazione del personalismo comunitario, retto dal
riconoscimento del valore della soggettività della società.
Ancora viene chiamato in causa il pensiero di Maritain, a conclusione di quest’excursus
intorno al concetto di “persona”, indicando come sia possibile fondere politica e Vangelo, come la
prima possa trarre insegnamenti dal secondo, in vista dell’edificazione del migliore dei mondi
possibili. Se veramente è questo che la politica, alla fine di questo millennio, cerca ed invoca.
La relazione dell’individuo alla società deve concepirsi su di un tipo irriducibilmente umano e specificamente
etico-sociale, vale a dire al tempo stesso personalistico e comunitario, e si tratta allora di un’organizzazione di più
libertà; cosa strettamente impensabile senza quelle realtà morali che si chiamano la giustizia e l’amicizia civile, la quale
è come la corrispondenza naturale e temporale di quello che, sul piano spirituale e naturale, il Vangelo chiama
l’amicizia fraterna
24
.
Attingere, dunque, il significato del concetto d’amore agli insegnamenti del Vangelo non
equivale strettamente a clericalizzare la politica, né ad «equipaggiarsi da metafisici»
25
nella
gestione del contingente. Si tratta di puntare alla realizzazione di un fine pratico, la cui espulsione
dal panorama ideale ed ideologico della scienza e della filosofia politica è stata, a mio avviso, sino
ad oggi, esiziale nei riguardi della società e della sua stessa sopravvivenza. Si entra, così, in un
circolo virtuoso, nel quale il rispetto della dignità della persona da parte di tutti gli uomini e dello
Stato è la conditio sine qua non per assicurare la pace all’interno della sintesi politica stessa, nel
perseguimento della giustizia sociale che, annullando i motivi dello stesso stato di conflitto sociale,
instaura un clima d’amicizia fraterna, all’interno ed all’esterno, dilatando ad ogni angolo del mondo
i confini della pace, garanzia della dignità di ogni singola persona, di tutti i cosmopoliti.
Pertanto, il Vangelo, può insegnare ad ogni uomo il valore dell’amore e come tradurlo in
strumento concreto rivolto al servizio di tutti gli uomini, in ottemperanza ed in ossequio alla
comune appartenenza alla famiglia umana.
1.3. Ontologia e deontologia della pace.
Pace a voi! Questo è il saluto che, universalmente, la Chiesa intende estendere a tutti. In un
mondo dove la pace sembra essere compromessa da interessi di nazioni voraci e da oppressioni
d’ogni sorta, la cui crudele primitività si allarga al panorama internazionale, appare sempre più
utopistico riporre serie speranze nella ferma volontà di edificazione della pace stessa. Può forse
generarsi la pace, dove trionfano le guerre? Se volessimo considerare la mentalità corrente, la
risposta sarebbe, sicuramente, affermativa: la pace risulta essere lo stato di normalità dei periodi
conseguenti la guerra.
La Chiesa cattolica nutre, tuttavia, un parere d’avviso contrario, in contrasto sia con la teoria
contemporanea della pace (contrattualistica o pattizia, garantita da accordi tra nazioni belligeranti, o
tra esse ostili, sotto l’egida dell’ONU), sia con la teoria classica (imperialistica, sullo stile della pax
romana). La situazione di non pace non è in grado, per sua natura, di generare la pace. La pace,
infatti, non è, secondo l’irenismo cattolico, il contrario della guerra, ma soprattutto un dono divino
26
riposto nelle mani dell’Uomo, dono che necessita dedizione da parte di tutti, fondato sulla capacità
di perdono e d’amore, sulla volontà di garantire la giustizia ad ogni persona, nel rispetto della
dignità umana e del bene comune.
La costituzione pastorale su “la Chiesa nel mondo contemporaneo” Gaudium et spes è, sotto
questo aspetto, esplicita:
La pace non è la semplice assenza della guerra, né può ridursi unicamente a rendere stabile l’equilibrio delle
forze contrastanti, né è effetto di una dispotica dominazione, ma essa viene con tutta esattezza definita opera della
giustizia. (…). Poiché, infatti, il bene comune del genere umano è regolato, sì, nella sua sostanza, dalla legge eterna, ma
è soggetto, con il progresso del tempo, per quello che concerne le sue concrete esigenze, a continue variazioni, la pace
non è stata mai qualcosa di stabilmente raggiunto, ma è un edificio da costruirsi continuamente. (...). Tuttavia questo
non basta. Tale pace non si può ottenere sulla terra se non è tutelato il bene delle persone e se gli uomini non possono
scambiarsi con fiducia e liberamente le ricchezze del loro animo e del loro ingegno
27
.
La fiducia reciproca diviene, allora, un imperativo categorico, ontologico, fondatore e
costitutivo della pace, essendo l’unico mezzo che, instaurando quella fratellanza umana, frutto
dell’amore, è capace di sanare quelle ferite, inflitte dai conflitti ai popoli e alle persone, che la
semplice giustizia non è in grado di guarire.
La pace non può nemmeno essere garantita attraverso la corsa agli armamenti, in un
equilibrio precario fondato sul terrore reciproco e sulla mutua dimostrazione di forza. Infatti,
affidare la pace nella speranza che il possesso delle testate atomiche possa dissuadere chiunque a
sfidare la sicurezza mondiale, equivale a fissarla concettualmente sulla guerra. Il fatto che esistano
armi, anche se non impiegate, costituisce già la causa di un loro potenziale utilizzo, quando siano
venute a mancare le ragioni del civile dialogo e del democratico confronto.
La politica di fondare la pace internazionale sulla minaccia del ricorso alle armi, procede nel
solco tracciato dal pensiero classico, nel quale le guerre, seppur stigmatizzate - le guerre, odiate
dalle madri, «Bellaque matribus detestata» (Orazio, Odi, I,1,24-25) - o avvertite come inevitabili,
tuttavia erano accolte, nella comune accezione, come finalizzate al raggiungimento della pace.
Tuttavia, la pace in questione è prerogativa del vincitore della guerra. La pace trarrebbe, dunque,
origine da un’immagine speculare della guerra: pace e guerra, sorelle siamesi.
Il traguardo finale della guerra è leges pacis imponere, dettate dalle condizioni di pace all’avversario vinto. La
pace significa sempre, di conseguenza, anche soggiogamento del vinto
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.
Il desiderio d’una pax sempiterna costituisce un passo ulteriore nella definizione classica
della pace. La pax augustea si riproponeva la definitiva eliminazione del conflitto armato all’interno
dei territori annessi all’Impero romano. Da questa concezione si parte alla volta di una definizione,
di un’epistemologia della pace: pace non più intesa in una forma mentis che la contrapponga quale
concetto e realtà speculari alla guerra, ma come valore autonomo, come valore in sé. La situazione
di pace non nasce (o non dovrebbe, piuttosto, più derivare, in questa visione dell’etica della pace)
dai conflitti, pacificati attraverso il passaggio, sempre cruento, delle armi. «Ubi solitudinem faciunt,
pacem appellant». Tale era la considerazione di Tacito, sullo stile dei Romani nel ristabilire la
pace
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.
Dunque, per contrapposizione, l’icona della pace non sorge dalle rovine delle città, né dalle
fosse comuni, dai campi di battaglia o dai cataloghi dei trafficanti di armi. La pace si presenta
autonomamente, come la potenza in grado di assicurare l’esistenza: l’altro nome della pace è la vita.
In sintonia con questa dottrina della pace, anche Agostino d’Ippona intravede nell’istinto di
autoconservazione dell’essere umano, la nascita di una volontà di pace, non chiusa in un’etica
individualistica, ma orientata verso la comunità
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.
La tranquillitas ordinis di cui parla Agostino nel De Civitate Dei, intendendo definire la
pace, non consiste di una statica coesistenza di entità diverse, una quasi subita coesistenza, ma di
una dinamica reciprocità, tale da condurle in un ordine armonico: pace nell’ambito sociale, nella
famiglia e negli Stati
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. Questa “tranquillità dinamica”, questo sforzo dei cristiani a ricercare la
pace, soprattutto in vista dei beni eterni, secondo l’Ipponate non manca di produrre i propri effetti
anche nella città terrena, nell’adempimento del comandamento evangelico dell’amore.
Sento di dissentire parzialmente da questa visione, forse un po’ troppo fatalistica, poiché,
volendo addentrarsi nelle pieghe della deontologia della pace, presenta le vie, attraverso le quali
pervenire alla pace stessa, ma per accidens. Un conto - ritengo - sia affermare che la pace terrena, in
un’ottica rivolta al Trascendente, è un valore intermedio, rispetto al valore assoluto (la pace in Dio).
Ben diversa cosa è sostenere che i cristiani, perseguendo la pace eterna, accidentalmente o, forse,
con un calcolo umano, temperato da una prudente attesa soteriologica (di salvezza eterna, cioè),
pervengano all’edificazione della pace terrena. Costruire la pace non dovrebbe essere per nessuno,
un piacevole, anche se impegnativo, passatempo! La pace terrena necessariamente deve informarsi
ad un valore terreno: se si vuol costruire la pace per gli uomini è perché si è inteso interiorizzare il
valore e la dignità dell’uomo e della donna, in quanto tali. Diversamente, lo sforzo per la pace
diverrebbe una sorta di esercizio spirituale, eventualmente caratterizzato dalla presenza di non
previsti effetti “umani” o politici.
Paradossalmente, e con un percorso filosofico opposto, Thomas Hobbes fissa l’attenzione
nella necessità degli uomini di ricercare la pace sociale, non in vista di una sfera trascendente, la
quale ridurrebbe la pace a fine e valore intermedio, ma finalizzata alla tutela del singolo individuo.
Rispetto al Padre della Chiesa, Agostino d’Ippona, Hobbes propone un’etica della pace, con un
valore ed un fine che potremmo giudicare infra-intermedio (non è in vista di un mondo ultraterreno,
e non è nemmeno una pace capace di valorizzare la naturale trascendenza e l’inalienabile dignità
della persona umana). Infatti, se lo Stato, nato per assicurare la possibilità d’esistenza a ciascun
cittadino, con la coercizione e l’uso della forza, dietro la maschera di una persona artificiale, in
forza del fatto di aver avocato a sé ogni individualità, personalità e libertà dei cittadini, riesce a
garantire la pace al suo interno, anche questa pace risulterà fittizia, artificiale come chi l’ha
prodotta. Non si tratta più della tranquillità dinamica dell’ordinata composizione della società, quale
aveva presentata Agostino, ma di una reductio ad unum: inglobati, solipsisticamente, come in una
pozza ghiacciata, i cittadini possono muoversi solo quando trovino falle o fratture, sostanzialmente
imperfezioni del sistema, in quel “cemento” sociale che li costringe in una pace forzosa.
La pace, in quest’ottica è, in definitiva
L’autosuperamento dell’uomo coinvolto per natura nella guerra di tutti contro tutti. E’ l’autosuperamento
dell’uomo naturale e, nella sua naturalità, bellicoso. Questo autosuperamento, però, è un atto di assoluta sottomissione
allo Stato, al quale è riconosciuta una dignità quasi divina. E’ una pace che vive della rinuncia volontaria alla libertà.
L’unica pace, intesa come superamento della natura di lupo dell’uomo, si realizza allora soltanto mediante la
rassegnazione di molti lupi in favore di un unico lupo gigantesco, di una superbestia munita di ogni potere. (…).
Soltanto alla sua autorità è dovuta, allora, la pace sulla terra
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.
Dal punto di vista della Chiesa, che rispecchia l’insegnamento vetero e neotestamentario, la
pace è posta nelle mani dell’uomo, non discendendo, dunque, dalla volontà degli Stati. E’ alla
singola persona che è demandata la responsabilità di perseguire la pace, anche quando la sintesi
politica nella quale vive persegue, invece, scopi bellicosi. La Chiesa confida nella buona volontà
degli Stati e dell’Organizzazione delle Nazioni Unite a ricercare e a mantenere pacifici rapporti di
collaborazione. Ma è conscia che la “coscienza” degli Stati rispecchia quella dei cittadini che essi
raccolgono. Dove questa coscienza comune fosse orientata esclusivamente ad un’etica di potenza o
di predominio, anche le politiche statali, che, di questa coscienza, sono emanazione, saranno
inevitabilmente orientate al perseguimento dei medesimi scopi. Da qui l’esortazione della Chiesa
alla conversione di ogni cuore, cioè alla Π Η Ω ∆ Θ Ρ Λ ∆. La pace perpetua sulla terra si potrà ottenere se,
in cuor loro, tutti gli abitanti del mondo saranno capaci di desiderarla. Sotto quest’aspetto, la pace
diviene, allora, frutto della volontà comune, se tutti i cuori e tutte le coscienze saranno accomunati
dalla medesima ricerca del vero bene.
Allora il saluto «Pace a voi!», non suona semplicemente come ben augurante: il saluto di
pace distribuisce esso stesso la pace, con un moto induttivo, capace, cioè, di condizionare la volontà
e modificare il comportamento, di allargare l’orizzonte di coloro che hanno ricevuto e voluto
accogliere la pace, che, mediante il saluto stesso, a loro si comunica.
Per questo il saluto di pace possiede una forza obbligante per colui che porge il saluto. Egli sa di essere
responsabile per la pace dell’uomo al quale offre la pace e con ciò stesso gli accorda di partecipare al proprio benessere.
La pace è, per così dire, un ambito nel quale chi è salutato viene accolto e nel quale si trova al sicuro. Si può fare
affidamento su ciò che è detto e ci si può fidare di colui che parla, poiché mediante il saluto di pace avviene ciò di cui si
parla
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.
Pertanto l’antropologia teologica della Chiesa è, per sua natura, un’antropologia della pace:
l’uomo e la donna vivono ontologicamente dell’imperativo della pace che Dio ha creato, così come
è presente nel testo biblico della Genesi, quando tutta la creazione viveva in una pace perfetta.
Se così non fosse, se veramente, al di là di tutte le elucubrazioni, più o meno fascinose ed
affascinanti, di Thomas Hobbes, l’uomo e la donna non agognassero al raggiungimento della vera
pace, il determinismo ontologico imposto dall’homo homini lupus risulterebbe a tal punto
schiacciante da insidiare la vita stessa dell’umanità. A questo fosco futuro, il pensiero irenico della
Chiesa si oppone, affinché sia, invece, verificata l’affermazione homo homini homo
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: l’Uomo è un
uomo per l’altro essere umano. Su questa dichiarazione, dal sapore tautologico, riposa quel
determinismo, ma determinato dalla volontà di ciascuno, della dottrina cristiana, che insiste sul
valore dell’affermazione: operari sequitur esse. La vita dell’uomo e della donna, secondo tale
pensiero, deve essere improntata dall’adesione a questo progetto, volto all’umanizzazione
dell’uomo e della donna stessi. Ritengo che questa filosofia “pratica” possa essere accettata anche
da coloro che, pur non appartenendo a confessioni religiose, tuttavia nutrono ancora speranze e
fiducia nell’uomo e nella donna. Tuttavia la Chiesa, pur assumendo che la pace terrena debba essere
ricercata in vista della pace eterna, non vuole fondare una morale dell’inerzia e dell’inoperosità: la
pace creata da Dio non è insignificante per la pace sulla terra, né, cercando la prima, si consegue la
seconda per accidens, accidentalmente.
L’indicativo della pace fondato cristologicamente vuole invece imporsi in questo mondo e di fronte ad esso.
Sotto tale aspetto, questo indicativo non è esso stesso un perfetto immoto, ma una potenza molto mossa e movente: non
è un indicativo della pace archeologica, bensì di una pace escatologica. Interessa l’uomo intero, rivendica l’uomo
intero
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La nozione di uomo intero, o di uomo integrale, sarà fondamentale quando analizzeremo il
pensiero di Jacques Maritain e la dottrina contenuta nelle encicliche di Giovanni Paolo II. Per il
momento è sufficiente definire qui che l’integrità dell’uomo si realizza e si perfeziona attraverso il
circuito di relazioni sociali che la persona instaura con Dio (o con il Trascendente), con le altre
persone, con il proprio ambiente. Laddove una di queste relazioni si interrompa, si generano
discordie che determinano lo smarrimento della pace. L’essere “uomo” dell’uomo intero deriva,
così, in ultima analisi, dalla capacità che egli possiede di vivere in misura relazionale, in sintonia
con il mondo sensibile e metafisico.
Così, i tre capisaldi su cui si regge la definizione cattolico-antropologica dell’indicativo
della pace, possono essere qui riassunti:
a) Sicurezza creativa. La sicurezza nasce dal fatto che coloro che ricevono il saluto di pace
non hanno motivo di temere per la propria incolumità fisica, poiché la semplice parola
“pace” crea, da se stessa, le condizioni della propria attuazione, conferendo una stabilità
“dinamica”, un invito ad uscire dai ristretti confini del proprio “io”
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b) Fiducia. La persona ha bisogno di ricevere fiducia e di vivere in un contesto nel quale
possa fidarsi della lealtà degli altri. Infatti, l’incapacità di fidarsi e di ricevere fiducia,
minano alla base ogni rapporto interpersonale e tra gli Stati, contestualmente,
destabilizzando radicalmente la pace.
c) Responsabilità. Il presupposto della responsabilità possiede un doppio movimento: a
colui che promette pace si richiede il mantenimento della promessa, contenuta nel suo
saluto. A colui che questo saluto riceve si richiede di partecipare attivamente a tale dono,
che diventa anche dovere morale di sanare tutte le altre esistenze infrante. La pace non si
lascia limitare, includendo nei suoi confini tutti gli ambiti dell’umano
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