di efficienza). Infatti, da un lato il petrolio consentiva un rendimento energetico
superiore mentre dall’altro la disponibilità del carbone era in fase decrescente, cosa che
ne aumentava i costi di estrazione. Naturalmente, il passaggio dal carbone al petrolio va
catalogato tra i processi a lungo termine: dalla sua prima comparsa allo sfruttamento
massiccio passò un secolo.
La letteratura in questione, è solita salutare l’inizio “dell’era del petrolio” con
l’intuizione di Winston Churchill relativa alla conversione della Royal Navy
6
dal
carbone al petrolio
7
. Colui che sarà poi Primo Ministro inglese durante gli eventi al
centro del presente lavoro, era nel 1911 appena stato nominato Primo Lord
dell’Ammiragliato, massima carica civile all’interno della marina britannica.
Uno dei motivi di tensione internazionale durante il primo decennio del secolo,
era rappresentato dalla contesa navale anglo-tedesca
8
. La Germania, infatti, minacciava
direttamente l’influenza e gli interessi franco-britannici nel Mediterraneo e su scala
mondiale, aspirando non solo ad un “posto al sole”, ma ad una più generale posizione
egemonica. Quando, con la seconda crisi marocchina del 1911, la guerra sembrò
inevitabile, Churchill ritenne che la conversione al petrolio avrebbe di molto aumentato
le potenzialità di vittoria inglesi. La propulsione a petrolio, infatti, avrebbe consentito di
sfruttare una varietà di vantaggi strategici, quali una maggiore velocità e autonomia, e
maggiore efficienza nell’utilizzo degli equipaggi. Il rischio dell’operazione era evidente:
l’abbandono di una fonte di energia, il carbone, il cui approvvigionamento era garantito
dalle miniere del Galles, in favore dei giacimenti di greggio da poco scoperti in una
regione lontana e turbolenta quale la Persia (1908), era quantomeno un azzardo. I fatti
però, gli diedero ragione e la Gran Bretagna uscì vincitrice dallo scontro navale con il
Reich tedesco nella Prima guerra mondiale
9
.
Il petrolio mediorientale quindi, si affermava per la prima volta quale risorsa
strategica. Lo sviluppo economico ed il progresso dei decenni seguenti, ed il sempre più
sviluppo, cit., p. 9; e Rifkin J., Economia all’idrogeno,. (Milano: Arnoldo Mondadori Ed., 2002), pp. 78-
79.
6
Marina militare britannica, Ndr.
7
Cfr. Ferrier R., “The Development of the Iranian Oil Industry”, p. 96, in Amirsadeghi H. (ed.),
Twentieth-Century Iran. (London: Heinemann, 1977); Elm M., Oil, Power and Principle. Iran’s Oil
Nationalization and its Aftermath. (Syracuse, NY: Syracuse University Press, 1992), pp. 15-16; Heiss
M.A., Empire and Nationhood. The United States, Great Britain and Iranian Oil, 1950-1954. (New York:
Columbia University Press, 1997), p. 6; Kinzer S., All the Shah’s Men. An American Coup and the Roots
of Middle East Terror, (New Jersey: J. Wiley and Sons, 2003), p. 49; e Yergin, Il Premio, cit., pp. 134-
136.
8
Cfr. Yergin, Il Premio, cit., pp. 134-136. Sulla rivalità tra Regno Unito e Germania cfr. Kennedy P.,
L’antagonismo anglo-tedesco, (Milano: Rizzoli, 1993).
9
Nonostante l’unica battaglia si fosse combattuta allo Jutland, la Gran Bretagna confermò la propria
posizione egemonica sui mari.
7
diffuso utilizzo del greggio ai danni del carbone
10
, proiettarono la politica petrolifera tra
le istanze principali delle strategie di politica estera dei paesi industrializzati. La
dimostrazione della sua imprescindibilità fu data dal fatto che il suo uso si estese
rapidamente a tutti i settori produttivi - agricoltura, industria, servizi. Inoltre, il
progresso del XX secolo in tutti i suoi aspetti, trovò nel petrolio la sua fonte d’energia
per eccellenza, e nella sua disponibilità la capacità di evoluzione del sistema. L’energia
elettrica e l’automobile (per citare i due esempi più rappresentativi a livello domestico),
poterono diffondersi, a livello di massa, grazie alla disponibilità di greggio
11
. Il petrolio,
così come si rivelò decisivo nel muovere la macchina bellica già nella prima guerra
mondiale, rappresentò nei decenni a venire, la “linfa” vitale del sistema capitalistico
12
.
Per evitare che tutto ciò appaia fuori luogo ai fini della nostra ricerca, l’obiettivo
da focalizzare è quello relativo alla scarsità delle riserve petrolifere
13
. Queste sono
infatti, concentrate in un limitato numero di aree geografiche. Avendo constatato il
valore strategico di tale fonte di energia, i paesi industrializzati si vedono quindi,
obbligati a garantirsi approvvigionamenti sicuri in grado di supplire alla crescente
domanda. La disponibilità di greggio (come tutte le risorse naturali) si rivelò fin
dall’inizio limitata. L’influenza politico-economica sulle aree del globo ricche di
petrolio si rivelerà, quindi, una linea fondamentale di politica estera delle cancellerie
mondiali
14
. L’attenzione all’area mediorientale assumerà perciò, dal secondo
dopoguerra soprattutto, connotati specifici in relazione a questo tema. Infatti, se il
greggio era l’elemento essenziale in grado di muovere la macchina capitalista, il
10
“Fra il 1920 e il 1960 la domanda mondiale di petrolio crebbe di otto volte, mentre nello stesso periodo
i consumi di carbone sono cresciuti solo del 50 per cento. Così, se nel 1920 il carbone copriva l'85 per
cento della produzione energetica a fini industriali, di trasporto e domestici, quaranta anni dopo la sua
rilevanza era ormai scesa al 50 per cento.” Tonini A., Il sogno proibito, cit., p. 15.
11
Negli USA, maggior consumatore mondiale di petrolio, la quota più rilevante dei consumi di greggio
(pari a 1/3) è coperta dai mezzi di trasporto; l’industria copre il 23% (di cui ¼ per il settore chimico); il
riscaldamento domestico il 6% e la produzione di energia elettrica il 4%. Cfr. Rifkin J., Economia
all’idrogeno, cit., pp. 78-79.
12
Cfr. Maugeri L., Petrolio. Storie di falsi miti, sceicchi e mercati che tengono in scacco il mondo.
(Milano: Sperling & Kupfer Ed., 2001), pp. 27-28; Rifkin J., Economia all’idrogeno, cit., pp. 88-89;
Tonini A., Il sogno proibito, cit., p. 11; Di Nolfo E., “Prefazione”, in Tonini A., Il sogno proibito, cit., pp.
7-8; e Yergin D., Il Premio, cit., pp. 1-2 e 136-139.
13
Come cautamente suggerisce Maugeri, quello di riserva non è un concetto “statico”: vi sono infatti, una
serie di variabili che concorrono a rendere più complessa la valutazione e la stima riguardo alla reale
capacità di un giacimento petrolifero. L’abbassamento dei costi di estrazione dato dal miglioramento della
tecnologia, l’aumento o la diminuzione del prezzo e le oscillazioni tra domanda e offerta, sono tutti fattori
che incidono sulle riserve di greggio (distinte in provate, probabili, possibili), “sia in termini assoluti
(volume complessivo) sia in termini relativi (anni residui di disponibilità rispetto alla produzione
attuale).” Maugeri L., Petrolio, cit., p. 86; e cfr. pp. 84-86.
14
I giacimenti iraniani furono scoperti nel primo decennio del ‘900; quelli iracheni negli anni ’20; i
giacimenti sauditi e del Kuwait risalgono invece, agli anni ’30.
8
controllo sui giacimenti equivaleva ad una posizione di predominio
15
. La crisi scoppiata
tra Iran e Gran Bretagna nel 1951 trova una delle sue cause remote proprio in questo
tipo di interazione: la necessità del mondo capitalista di approvvigionarsi di una fonte
d’energia presente in abbondanza in zone sottosviluppate del globo.
Il punto di partenza è datato 28 maggio 1901. Quel giorno l’ingegnere
australiano William Knox D’Arcy, per conto del governo di Sua Maestà britannica,
ottenne dallo scià di Persia Muzaffar al-Din una concessione per la ricerca, l’estrazione,
la raffinazione e la vendita di gas naturale e petrolio. Della durata di 60 anni, essa
prevedeva in cambio una percentuale sui profitti del 16%, una somma iniziale di
£20,000 e altrettante sotto forma di azioni. Il fatto non poteva ovviamente essere
percepito in tutta la sua portata, né lo furono le pesanti conseguenze che esso avrebbe
determinato per l’economia e la sovranità persiane.
La concessione, avallata dal governo britannico in chiave anti-russa, escludeva
le cinque province limitrofe alla Russia, così che non risultasse un atto ostile nei
confronti di questa
16
.
La zona prescelta per le prime trivellazioni fu quella nord-occidentale ai confini
con l’Iraq, presso la località di Chiah Surkh. I primi giacimenti qui scoperti nel periodo
1902-1904 furono, però, al di sotto delle aspettative: le poche quantità di greggio
estratto indicavano una spesa ben superiore ai ricavi. Le difficoltà finanziarie
dell’impresa allestita da D’Arcy furono, infatti, il leit-motiv di questi primi anni di
esplorazioni. I costi andavano ben oltre quanto era stato preventivato. Un primo
tentativo di coinvolgere finanziariamente l’autorità pubblica inglese non andò a buon
fine: nonostante l’appoggio del Foreign Office – timoroso di un’intromissione della
Russia - il Tesoro britannico si rifiutò di concedere un prestito. Poi, quando D’Arcy
cercò l’aiuto di gruppi finanziari francesi, entrò in gioco l’Ammiragliato britannico che
espose un piano risolutore imperniato su un consorzio, al fine di mantenere la
concessione sotto controllo e proprietà britanniche. L’associato ideale venne individuato
nella scozzese Burmah Oil, che per la sua esperienza petrolifera in Birmania fu
15
Come ricorda Rifkin, assumendo l’equivalenza: ingente disponibilità energetica = condizione
egemonica, “gli USA divennero la principale potenza industriale del Novecento soprattutto perché
avevano ricchi giacimenti petroliferi. Analogamente, il successo della Gran Bretagna agli albori dell'era
industriale era, in buona parte, attribuibile agli immensi giacimenti di carbone presenti nel suo
sottosuolo.” Rifkin J., Economia all’idrogeno, cit., p. 84.
16
Cfr. Ferrier R., pp. 93-4, in Amirsadeghi H. (ed.), Twentieth-Century Iran, cit.; Elm M., Oil, Power and
Principle, cit., pp. 6-8; Heiss M.A., Empire and Nationhood, cit., p. 5; Kinzer S., All the Shah’s Men, cit.,
pp. 47-48; Sabahi F., Storia dell’Iran. (Torino: Bruno Mondadori Ed., 2003), p. 15; Saikal A. The Rise
and the Fall of the Shah, 1941-1979. (Princeton, N.Y.: Princeton University Press, 1980), p. 13; e Yergin
D., Il Premio, cit., pp. 118-121.
9
considerata il partner ideale. Dopo lunghi negoziati nel 1905 si arrivò alla costituzione
del “consorzio della concessione”: l’impresa D’Arcy era salva. La formazione del
consorzio coincise con la chiusura dei pozzi scoperti ed il trasferimento delle ricerche
nella zona sud-occidentale, presso la località di Masjid-i-Suleiman. Le ricerche furono
ritardate da ogni immaginabile impedimento tecnico, ambientale e politico, dato che
proprio allora in Persia scoppiava la rivoluzione costituzionale. Inoltre, da Glasgow i
dirigenti della Burmah Oil si facevano sempre più impazienti. Nel maggio 1908
decisero infine di ritirare i propri capitali e rinunciare all’impresa; ma proprio nel
momento in cui arrivava in Persia la notizia della rinuncia, nella notte tra il 25 e il 26
maggio il giacimento principale si rivelò ricchissimo di greggio e gas naturale
17
. Una
coincidenza apparentemente fortuita spianò la strada allo sfruttamento del petrolio
iraniano, i cui giacimenti si riveleranno tra i più copiosi a livello mondiale
18
.
La scoperta di ingenti quantità di petrolio determinò la vendita della concessione
D’Arcy e la formazione di una società per azioni (Anglo-Persian Oil Company, da ora
APOC) con un capitale iniziale di £2 milioni (aprile 1909). Contemporaneamente si
provvide alla costruzione di un oleodotto lungo più di duecento chilometri, e di una
raffineria presso Abadan, località situata all’estuario dei fiumi Tigri, Eufrate e Karun
19
.
La neonata compagnia affrontò presto una nuova crisi finanziaria. Per ovviarvi
cercò e trovò l’appoggio della Royal Dutch-Shell. Frattanto a Londra partiva la
scommessa della conversione della Marina alla nafta. La contesa navale anglo-tedesca
si avviava verso un conflitto armato, ed a quel punto il governo britannico si trovò ad un
bivio: accettare la dipendenza della marina da fonti di petrolio olandesi, il cui governo
era fortemente dipendente da quello del Reich; oppure, intervenire direttamente nel
salvataggio dell’APOC, al fine di farne uno strumento della propria strategia ed evitare
che questa diventasse una sussidiaria della Shell. Alla divisione tra “economisti”
(favorevoli ad un riassestamento delle finanze interne), e “navalisti” (fautori della
conservazione del predominio britannico sui mari a tutti i costi), si univa quella fra la
corrente “tradizionalista”, incline all’osservanza del dogma di politica estera di non
coinvolgimento diretto negli affari commerciali, e coloro che invece, attribuendo al
17
Cfr. Elm M., Oil, Power and Principle, cit., pp. 9-12 ; Kinzer S., All the Shah’s Men, cit., pp. 48-49; e
Yergin D., Il Premio, cit., pp. 122-130.
18
Secondo alcune stime, l’Iran conta riserve accertate pari a 88,2 miliardi di barili, per un totale di riserve
mondiali di 1016,9 miliardi, collocandosi al quinto posto dietro Arabia Saudita, Iraq, Emirati Arabi Uniti
e Kuwait. Cfr. D’Ermo V., Le fonti di energia tra crisi e sviluppo, cit., p. 77.
19
Cfr. Elm M., Oil, Power and Principle, cit., pp. 12-15; Ferrier R., pp. 95-96, in Amirsadeghi H. (ed.),
Twentieth-Century Iran, cit.; Saikal A., The Rise and the Fall of the Shah, cit., pp. 13-14; e Yergin D., Il
Premio, cit., pp. 130-132.
10
petrolio un valore strategico, vedevano tale coinvolgimento necessario. Il salvataggio
dell’APOC, comunque, fu determinato almeno inizialmente da ragioni finanziarie e non
strategiche. Proprio alla vigilia della prima guerra mondiale, nel maggio 1914, fu
firmato l’accordo tra APOC e governo, approvato dalla Camera dei Comuni il 17
giugno. Il decreto prevedeva innanzi tutto un investimento del governo di £2,2 milioni
con l’acquisizione del 51% delle azioni dell’APOC. In secondo luogo, la nomina
governativa di due rappresentanti nel CdA, che avrebbero avuto potere di veto per le
questioni politico-strategiche, ma non per quelle commerciali. Erano previsti, infine, sia
un contratto ventennale per la fornitura di nafta alla marina a condizioni favorevoli, sia
una sua partecipazione agli utili della compagnia
20
.
Le ragioni dell’accordo, finanziarie o strategiche che fossero, fecero sì che da
allora in poi il governo britannico esercitasse un’elevata ingerenza nei confronti
dell’Iran. Non si trattava, infatti, solo di preservare un’attività commerciale, ma vi erano
implicati profondamente gli interessi della Royal Navy e per questo della sicurezza
stessa del suolo e della potenza inglesi
21
. Così Ferrier, storico della British Petroleum.
E’ innegabile che la partecipazione del Governo nella compagnia cambiò lo
spirito della concessione D’Arcy ed ebbe un profondo impatto sulla posizione
della Gran Bretagna nel sistema internazionale. La compagnia, per quanto si
sforzasse di proclamare la propria indipendenza, era considerata non più solo
un’iniziativa privata, ma un’impresa a partecipazione statale costituita per un
interesse nazionale.
22
Così, molti governi, incluso quello iraniano, erano convinti che “si poteva
intravedere la mano nascosta del Governo britannico dietro quasi, se non tutte, le attività
della compagnia petrolifera.”
23
Durante la Prima guerra mondiale, poi, l’APOC acquisì la British Petroleum,
una delle maggiori tra le reti distributive britanniche di petrolio, e sviluppò la propria
flotta di navi cisterna. Nel giro di pochi anni quindi divenne una struttura complessa che
gestiva interamente il processo petrolifero dall’estrazione alla distribuzione,
20
Cfr. Elm M., Oil, Power and Principle, cit., pp. 15-16; Ferrier R., p. 96, in Amirsadeghi H. (ed.),
Twentieth-Century Iran, cit.; Ferrier R., “The Anglo-Iranian oil dispute: a triangular relationship”, p. 165,
in Bill J. e Louis W.R. (ed.), Musaddiq, Iranian Nationalism and Oil. (London: I.B. Tauris, 1988);
Kinzer S., All the Shah’s Men, cit., p. 49; e Yergin D., Il Premio, cit., pp. 134-143. Vedi anche: Ferrier R.,
The History of the British Petroleum Company, vol. 1: The Developing Years, 1901-1932. (New York:
Cambridge Univ. Press, 1982).
21
Tale considerazione è corretta in una prospettiva di lungo periodo: infatti, nel 1914 la produzione di
petrolio iraniano costituiva appena l’1% della produzione mondiale. Cfr. Yergin D., Il Premio, cit., p.
154.
22
Elm M., Oil, Power and Principle, cit., p. 16 (Traduzione a cura dell’autore).
23
Elm M., Oil, Power and Principle, cit., p. 16 (Traduzione a cura dell’autore).
11
affiancandosi alle grandi compagnie internazionali. Se nel 1916-7 più dell’80% del suo
capitale fisso si trovava in Persia, nel seguente anno fiscale la quota scese al 50%. Come
conseguenza dell’espansione dell’impresa, la produzione petrolifera aumentò fra il 1912
e il 1918 di ben dieci volte: da 1.600 a 18.000 barili al giorno
24
.
Il vertiginoso aumento della produzione non corrispose, però, ad un aumento
degli utili in favore del governo iraniano. Le royalties (concordate per il 16% dei
profitti) nel 1920 raggiunsero le £470,000. Gli iraniani accusavano la compagnia, che si
rifiutava di mostrare i libri contabili, di non destinare loro quanto fosse stato stabilito, e
pretendevano, inoltre, il 16% dei profitti anche sulle operazioni effettuate fuori dalla
Persia con petrolio persiano. Rifiutavano, infine, di assumersi la responsabilità degli atti
di sabotaggio compiuti da gruppi tribali locali contro le installazioni della compagnia
(avvenute durante la Grande Guerra su pressione di turchi e tedeschi). Infatti, la zona
che si era rivelata più ricca di greggio (quella sud-occidentale), si trovava quasi
esclusivamente sotto controllo tribale o di gruppi regionali autonomi: qui il governo di
Teheran non esercitava a pieno la sua sovranità, e la compagnia doveva lei stessa venire
a patti con le popolazioni locali
25
. Per appianare le divergenze maggiori, fu firmato
l’accordo Armitage-Smith nel dicembre 1920, la cui disposizione più rilevante fu di
includere le operazioni non iraniane nel computo delle royalties, calcolate però
discrezionalmente dalla compagnia. Il 16% sui profitti, da destinarsi al governo
iraniano, venne poi esteso a tutte le attività dell’APOC in Persia.
Se agli occhi inglesi l’accordo rappresentava una sistemazione definitiva della
divisione dei profitti, per gli iraniani era solo una prima tappa verso termini ancora più
favorevoli. Tra l’altro l’assemblea parlamentare iraniana, Majlis, si rifiutò di ratificare
l’accordo, ma poco importava: gli inglesi vi fecero riferimento e gli iraniani dovettero
adeguarsi
26
.
Infine, degno di menzione è il fatto che la costituzione di un polo industriale
tanto complesso in una zona remota e tribale come quella presso Abadan fece sì che
24
Cfr. Elm M., Oil, Power and Principle, cit., pp. 17-19; Ferrier R., p. 97, in Amirsadeghi H. (ed.),
Twentieth-Century Iran, cit.; e Yergin D., Il Premio, cit., pp. 154-155. L’indicazione dei barili prodotti al
giorno “è il modo più utilizzato per indicare la produzione petrolifera di un paese o di una compagnia”. Il
barile è l’unità di misura petrolifera standard, equivale a circa 159 litri. Una tonnellata di greggio equivale
a 7,3 barili. Esso risale alla seconda metà dell’ottocento, quando in Pennsylvania il greggio prodotto
veniva raccolto in barili di legno delle suddette dimensioni. Oggi non si usano più barili di alcun
materiale, ma l’unità di misura è rimasta. Cfr. Maugeri L., Petrolio, cit., pp. 235-236.
25
Cfr. Ferrier R., p. 97, in Amirsadeghi H. (ed.), Twentieth-Century Iran, cit.; Ferrier R., pp. 164-165, in
Bill J. e Louis W.R. (ed.), Musaddiq, Iranian Nationalism and Oil, cit.; e Elm M., Oil, Power and
Principle, cit., pp. 10-19.
26
Cfr. Ferrier R., p. 98, in Amirsadeghi H. (ed.), Twentieth-Century Iran, cit.; Elm M., Oil, Power and
Principle, cit., pp. 19-22; e Heiss M.A., Empire and Nationhood, cit., p. 6.
12
nella mentalità dei tecnici e dirigenti inglesi si inculcasse la convinzione di vivere in
un’enclave per nulla radicata localmente bensì aliena alla realtà locale. Il fatto che
l’industria petrolifera si sviluppasse in anni in cui ancora mancava uno Stato persiano
moderno favorì una certa “distanza” e diffidenza reciproca tra questa e la società
persiana. E’ per questo motivo che ad Abadan gli inglesi quasi istituirono una colonia,
con un loro centro abitato, scuole, ospedale e servizi sociali che potessero riprodurre in
qualche modo la madrepatria
27
. Dice a questo proposito Kinzer.
Abadan era una classica enclave coloniale, provvista di un suo esclusivo
“Persian Club” dove camerieri in livrea servivano funzionari inglesi; fornita di
quartieri strapieni di lavoratori iraniani e di fontane pubbliche con la scritta
“Vietato agli iraniani”. Quasi tutti i tecnici e amministratori erano inglesi, e
molti di loro godevano di belle case con terrazze e prati perfetti. Per loro e le loro
famiglie, Abadan era un posto idilliaco.
28
27
Cfr. Ferrier R., pp. 95-96, in Amirsadeghi H. (ed.), Twentieth-Century Iran, cit.; Ferrier R., pp. 164-
165, in Bill J. e Louis W.R. (ed.), Musaddiq, Iranian Nationalism and Oil, cit; e Kinzer S., All the Shah’s
Men, cit., pp. 49-50.
28
Kinzer S., All the Shah’s Men, cit., p. 50 (Traduzione a cura dell’autore).
13
2. MEDIO ORIENTE E GUERRA FREDDA
Nell’agosto del 1949 il Segretario agli Esteri del governo laburista inglese
presieduto da Clement Attlee, Ernest Bevin, affermava: “[…] in guerra o in pace il
Medio Oriente rappresenta un’area di vitale importanza per il Regno Unito, seconda
solo al Regno Unito stesso”; e ancora, “strategicamente il Medio Oriente è un punto di
comunicazione focale, una risorsa petrolifera, una zona di protezione per l’Africa e
l’Oceano Indiano, ed una base offensiva insostituibile. A causa del petrolio e del cotone,
esso è economicamente essenziale alla ricostruzione inglese.”
29
Così invece il
Dipartimento di Stato nel maggio 1945: “Il Medio Oriente è e rimarrà uno dei principali
terreni di verifica degli ideali per i quali la guerra viene combattuta, e del sistema di
sicurezza mondiale che è in corso di costruzione.”
30
Queste due dichiarazioni parallele
di politica estera dei due alleati anglo-americani indicano l’importanza strategica
attribuita nel secondo dopoguerra all’area mediorientale, e le radici del potenziale
confronto per l’egemonia sulla zona. La crisi petrolifera anglo-iraniana vede, infatti, le
due potenze assumere posizioni contrastanti in quanto entrambe perseguivano una
propria agenda nell’area, dettata da condizioni strategiche ed economiche. In questo
senso la crisi anglo-iraniana del 1951-53 rappresenta un esempio eclatante, sia nello
sviluppo degli eventi che nella sua conclusione, delle divergenze tra Stati Uniti e Gran
Bretagna. Alla fine del secondo conflitto mondiale, la centralità del Medio Oriente nella
politica di potenza, sebbene tarderà ad affermarsi, rimane indiscussa.
Come noto, la Seconda guerra mondiale aveva sconvolto molti degli assetti
prebellici relativi all’ordine internazionale. Il mondo post-bellico che gli USA avevano
in mente, era potenzialmente minacciato dalle forze comuniste, che a ragione si riteneva
fossero collegate (o subordinate) alla casa madre russa, rappresentante principale del
comunismo mondiale. Le idee e le pratiche comuniste sembravano diffondersi
velocemente e prosperare nella miseria che caratterizzava il mondo appena uscito dal
più spaventoso dei conflitti. Stante l’opposta visione del mondo di USA e URSS, agli
attori del sistema internazionale si imponeva una scelta di campo.
29
Northedge F.S., “Britain and the Middle East”, p. 149, in Ovendale R. (ed.), The Foreign Policy of the
British Labour Governments, 1945-1951. (Gloucester: Leicester University Press, 1984).
30
Report by the Coordinating Committee of the Department of State, May 2, 1945, in Foreign Relations
of the United States, 1945, vol. VIII, The Near East and Africa, U.S. Government Printing Office,
Washington: 1969, p. 37, e cfr. pp. 34-39; e Kolko J. e G., I limiti della potenza americana. Gli Stati
Uniti nel mondo dal 1945 al 1954. (Torino: Giulio Einaudi ed., 1975), p. 89.
14
Gli Stati Uniti già durante la guerra iniziarono a comprendere, e forse a temere,
la portata della sfida a cui sarebbero stati chiamati: porre un argine all’espansione del
comunismo in Europa, in Asia, in Medio Oriente, rappresentava un compito al quale gli
americani non potevano sottrarsi a meno di non vedere perduti i vantaggi politici ed
economici acquisiti con la posizione di preminenza assunta in seguito alla sconfitta
dell’Asse.
L’azione di Washington, e quella speculare di Mosca, mirarono quindi ad un
ampliamento della rispettiva influenza politica ed economica su scala mondiale. La
contesa fu aspra: sia USA sia URSS, attraverso distinte forme di ingerenza nella vita
degli Stati, allargarono idealmente i propri confini, fino alla formazione di due macro-
sfere d’influenza nelle quali fossero comprese realtà statuali, che per scelta o per
imposizione, condividessero il sistema politico, sociale ed economico della potenza di
riferimento.
La storiografia saluta unanimemente l’inizio, o meglio la formalizzazione della
Guerra fredda, con la decisione dell’Amministrazione americana di sostenere
economicamente la Grecia e la Turchia nel loro sforzo contro le spinte di sovversione
comunista. Proprio in occasione della presentazione del piano di aiuti per quei due
paesi, il 12 marzo 1947, il Presidente Truman pronunciò un discorso di fronte al
Congresso che costituì l’ossatura di quella che è conosciuta come “dottrina Truman”. In
essa vi era la constatazione che il mondo fosse diviso in due blocchi contrapposti, e che
compito degli Stati Uniti fosse preservare l’unitarietà del proprio campo attraverso un
confronto globale (quindi su ogni potenziale terreno di scontro) con l’URSS,
contenendo (containment) le pressioni che questa esercitava
31
. L’agitare lo spauracchio
del comunismo che minacciava il mondo libero permise a Truman di conquistare a
livello interno il necessario consenso al nuovo impegno mondiale degli USA,
tradizionalmente vincolati fino a quel momento ad una politica estera che non era
politica realista di potenza
32
. La dottrina Truman poneva la difesa dell’Europa
occidentale quale condizione necessaria della sicurezza nazionale degli Stati Uniti: qui,
infatti, la percezione che il mondo libero fosse minacciato dalla tirannia bolscevica era
unanime, e loro malgrado le correnti neo-isolazioniste furono arginate proprio su queste
premesse. La dottrina Monroe del 1823, che adottava il dettame delle sfere d’influenza
31
Cfr. “The Truman Doctrine”, No. 85, pp. 273-275, in Diplomacy in the Near and Middle East. A
Documentary Record: 1914-1956, volume II, a cura di Hurewitz J.C., (Princeton, N.J.: D. Van Nostrand
Company, Inc., 1956); Di Nolfo E., Storia delle relazioni internazionali, 1918-1999. (Bari: Editori
Laterza, 2000), pp. 678-684; e Kolko J. e G., I limiti della potenza americana, cit., pp. 407-411.
32
Cfr. Kolko J. e G., I limiti della potenza americana, cit., p. 855.
15
circoscrivendo quella statunitense al continente americano, veniva ora rielaborata sulla
base di una strategia necessariamente globale
33
.
Dove invece la nuova formulazione del containment si contraddiceva era rispetto
al Medio Oriente. La difesa di questa area non poteva infatti essere giustificata sullo
stesso piano di quella dell’Europa, e la contraddizione tra le intenzioni professate di
voler arginare il comunismo e la realtà di dover proteggere e coltivare i propri interessi
petroliferi, appariva lampante
34
. L’importanza strategica di aree ricche di petrolio non
era “vendibile” al cittadino medio americano. Non è questa la sede per analisi sulle
cause e i modi della guerra fredda, ma, secondo Kolko, è in questo contesto che la
contraddizione tra le formulazioni mediatiche del nascente conflitto bipolare e la “reale”
politica di potenza, si rivela strisciante ma necessaria: strisciante in quanto ipocrita e
potenzialmente comprendente tutte le attività di politica estera; necessaria, perché gli
arcana imperii dovevano essere preservati nella loro segretezza di fronte alle
opportunità di un’informazione libera e di una democrazia aperta
35
.
In realtà la propaganda rappresentò solo un aspetto, per quanto importante,
dell’ideologizzazione della Guerra fredda: premettendo che il confronto bipolare fu
qualcosa di molto più complesso, la contraddizione di Kolko va sfumata affermando che
le élites politiche americane credevano fermamente nella minaccia rappresentata dal
comunismo e nella superiorità morale del sistema occidentale, così come quelle
sovietiche erano convinte che il sistema capitalista sarebbe rimasto stritolato dalle
proprie contraddizioni interne. Che poi la politica che entrambi i contendenti
perseguivano talora potesse apparire cinica ed in parte svincolata dagli ideali professati,
è talmente ovvio che non possiamo proprio dare torto a Kolko.
L’aspetto che qui interessa analizzare in relazione al mutato ordine
internazionale del 1945 era rappresentato dal ruolo del Terzo Mondo, ed in particolare
del Medio Oriente, nel sistema internazionale. Gli Stati Uniti intuirono l’importanza
assunta da questa zona che, nel caso di Iran e Turchia, rappresentò uno dei punti di
rottura e di scontro con l’Unione Sovietica. Infatti, Washington prese ad insegnamento
la politica delle potenze dell’Asse, prima e durante il secondo conflitto mondiale, che
basarono parte della loro strategia sul controllo politico ed economico di zone
“strategiche” per lo sfruttamento di materie prime; ed in secondo luogo, gli USA
dovettero adattarsi – con fatica – al nuovo ruolo che il loro rango internazionale
33
Cfr. Di Nolfo E., Storia delle relazioni internazionali, cit., pp. 682-683.
34
Cfr. Di Nolfo E., Storia delle relazioni internazionali, cit., pp. 683-684.
35
Cfr. Kolko J. e G., I limiti della potenza americana, cit., pp. 411-415.
16
imponeva, e cioè quello di essere coinvolti a tutto campo sulla scena mondiale
36
. Alla
luce di ciò l’elaborazione di una politica ad hoc relativa al Medio Oriente si rendeva
quantomai necessaria.
L’adozione di un’agenda mediorientale e l’interesse per i paesi del Terzo
Mondo rappresentavano poi due degli aspetti del nascente confronto bipolare con
l’Unione Sovietica, ed in un certo senso possono essere annoverati tra le cause dello
scoppio della guerra fredda stessa. Tuttavia, anche senza la “minaccia” sovietica, gli
USA avrebbero comunque mirato ad un allargamento dei mercati internazionali
attraverso il coinvolgimento del più vasto numero di paesi del globo
37
.
Inoltre, la necessità di dover perseguire i propri interessi attraverso il
contenimento della pressione comunista produsse molto spesso effetti nefasti per
l’equilibrio politico dei paesi coinvolti (come è infatti il caso dell’Iran del 1953). A
conferma di questa tesi vi è il parere della prima ondata degli storici revisionisti degli
anni ’60-’70 sulle cause del confronto bipolare (tra i quali spiccano Gabriel e Joyce
Kolko), che individua nella “determinazione degli Stati Uniti di sfruttare le risorse e
dominare i mercati delle nazioni in via di sviluppo, […] uno dei fattori scatenanti
l’inizio della guerra fredda.” Secondo tale corrente fu dunque la necessità di assicurare
lo sviluppo e la crescita del sistema capitalista che portò gli USA ad impegnarsi
progressivamente nelle arene periferiche del sistema internazionale
38
. Un estratto da un
documento di Kennan è illuminante a questo riguardo.
Possediamo circa il 50% della ricchezza mondiale, ma solo il 6,3% della
popolazione: appare dunque inevitabile divenire l’oggetto dell’invidia e dell’astio
[delle nazioni asiatiche]. Ora, il nostro scopo nel prossimo futuro deve essere
quello di dar vita ad un assetto internazionale che perpetui questo squilibrio in
nostro favore. Pertanto, dovremmo mettere da parte le nostre aspirazioni ad
“essere amati”, ad essere considerati i depositari degli ideali di altruismo e
fratellanza internazionale. Dovremmo svestire i panni del fratello maggiore che,
mentre protegge, dispensa consigli morali e lezioni ideologiche. Dovremmo
insomma smetterla di parlare di vaghi e – per l’Asia orientale – irrealistici
obiettivi quali i diritti umani, l’aumento del tenore di vita, la democratizzazione.
[…] Meno slogan idealistici intralciano la nostra azione, meglio è.
39
36
Cfr. Hahn P.L. e Heiss M.A. (ed.) Empire and Revolution. The U.S. and the Third World since 1945.
(Columbus: Ohio University Press, 2001), pp. 2-3.
37
Cfr. Hahn P.L. e Heiss M.A. (ed.) Empire and Revolution, cit., p. 4.
38
Hahn P.L. e Heiss M.A. (ed.) Empire and Revolution, cit., p. 8. A prova di ciò, i Kolko ripetono con
insistenza che la corsa di Washington ad accaparrarsi più fette possibile del mercato petrolifero
mediorientale iniziò durante la seconda guerra mondiale, ben prima quindi delle crisi esplose nel
dopoguerra. Cfr. Kolko J. e G., I limiti della potenza americana, cit., pp. 91, 96.
39
Per evitare fraintendimenti è bene precisare che la figura di Kennan fu controversa, e la sua posizione
di estremo ‘realismo’ lo isolò ed emarginò all’interno dell’amministrazione, tanto che due anni dopo fu
17
Per analizzare le linee della politica anglo-americana nella regione mediorientale
con le loro divergenze e reciproci sospetti, appare inoltre utile ricordare brevemente le
fasi relative al prestito che Washington concesse alla Gran Bretagna nell’immediato
dopoguerra. L’obiettivo degli Stati Uniti, infatti, al fine di massimizzare i vantaggi
derivati dalla posizione di vincitore principale della Seconda guerra mondiale, era
rappresentato dalla diffusione delle esportazioni statunitensi su scala mondiale e la
penetrazione in quei paesi che si trovavano nell’area della sterlina britannica. Le
resistenze inglesi furono strenue, ma dovettero piegarsi alla realtà dei fatti che,
nell’immediato dopoguerra, vedeva Londra finanziariamente dipendente da
Washington
40
. E così, nel dicembre del 1945, il Regno Unito si vide costretto a
scambiare un prestito di 3,75 miliardi di dollari con l’adesione al sistema finanziario e
commerciale voluto dagli americani, che prevedeva la convertibilità in dollaro della
sterlina compresa nei mercati del Commonwealth. In altre parole, le misure adottate
determinarono l’apertura di quei mercati agli USA
41
.
L’Amministrazione Truman, nei primi sei mesi del 1946, faticò, però, non poco
per convincere il Congresso e l’opinione pubblica della convenienza e dei vantaggi che
gli Stati Uniti avrebbero tratto da un prestito al Regno Unito. Infatti, l’argomento
puramente astratto ma incontrovertibile dell’apertura al mercato globale – o meglio
multilaterale - di cui gli Stati Uniti avrebbero enormemente beneficiato, dall’aumento
delle esportazioni all’approvvigionamento di materie prime, non riuscì a persuadere i
membri del Congresso. Solo in luglio il governo riuscì a far passare il prestito
colorandolo di tinte anti-comuniste
42
. Fu questo un primo decisivo esempio di come la
crociata anti-bolscevica e l’elemento ideologico avessero un’enorme presa tra gli
americani.
allontanato da qualsiasi incarico pubblico e si ritirò a insegnare a Princeton. George Kennan, Documento
PPS23, 24 febbraio 1948; in Foreign Relations of the United States, vol. I, n. 2, 1948, in Maronta F. (a
cura di), “L’impero del bene”, in Limes. Rivista italiana di geopolitica, n. 2/2004.
40
Sulle difficoltà inglesi di convenire con gli americani riguardo al prestito e ai suoi fini, cfr. The
Secretary of State to the Ambassador in the U.K. (Winant), August 27, 1945, in Foreign Relations of the
United States, 1945, vol. VI, The British Commonwealth-The Far East, U.S. Government Printing Office,
Washington: 1969, pp. 110; e The British Prime Minister (Attlee) to President Truman, September 1,
1945, in FRUS, 1945, vol. VI, pp. 113-115.
41
Cfr. Di Nolfo E., Storia delle relazioni internazionali, cit., pp. 675-677; Kolko J. e G., I limiti della
potenza americana, cit., pp. 76-81; Louis W.R., The British Empire in the Middle East 1945-51. Arab
Nationalism, the United States, and the Postwar Imperialism. (Oxford: Clarendon Press, 1984), p. 12;
Perkins B., “Unequal Partners: The Truman Administration and Great Britain”, pp. 51-52, in Louis W.R.
e Bull H. (ed.), The “Special Relationship”: Anglo-American Relations since 1945. (Oxford: Clarendon
Press, 1986); Mini F., “La strana coppia”, in Limes. Rivista italiana di geopolitica, n. 2/2004, p. 129; e
Northedge F.S., p. 151, in Ovendale R. (ed.), The Foreign Policy of the British Labour Governments, cit.
42
Cfr. Kolko J. e G., I limiti della potenza americana, cit., pp. 82-87.
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La penetrazione economica americana nelle aree dell’Impero britannico costituì
un evento che inizialmente non fu compreso in tutta la sua portata; “[…] il blocco della
sterlina ed i regimi coloniali, in senso più largo la potenza britannica, costituivano
l’ostacolo principale di fronte al quale gli Stati Uniti si trovarono alla fine della
guerra.”
43
Afferma ancora Kolko che i mercati di cui gli USA poterono beneficiare,
come contropartita del prestito al Regno Unito, erano ricchi di materie prime a basso
costo: venivano così riproposte le stesse dinamiche economiche ineguali dell’Impero
britannico, ora allargate e promosse a sistema economico globale caratterizzato da
ineguaglianza tra paesi industrializzati e Terzo Mondo
44
. Vi è poi una contraddizione
evidente in merito ai propositi propagandati e alla loro reale applicazione. Infatti, la
retorica ufficiale si esprimeva in termini di globalizzazione inevitabile del mercato
mondiale (anche se a causa della defezione del blocco sovietico il termine
‘globalizzazione’ andrà in soffitta per mezzo secolo, sostituito dal più appropriato
multilateralismo). Nella pratica però, continua Kolko, l’amministrazione perseguiva
strenuamente i propri interessi interni (come abbiamo visto di natura commerciale), da
un lato curando la propria bilancia commerciale e sussidiando le proprie esportazioni
allo scopo di renderle competitive (di fatto penalizzando i paesi del Terzo Mondo);
dall’altro lato, accordandosi con gli inglesi al fine di evitare e di vietare l’ingresso
commerciale in Medio Oriente ad imprese che non fossero inglesi o americane
45
.
La Gran Bretagna, da parte sua, usciva dalla II guerra mondiale come l’unica
delle vecchie potenze europee ad avere ancora delle responsabilità dirette in Medio
Oriente: tedeschi e italiani erano sconfitti, i francesi con l’indipendenza di Siria e
Libano nel 1941 avevano di gran lunga pregiudicato le loro posizioni, che sarebbero
state definitivamente compromesse dopo la disfatta a Suez. Le due aree di maggior
rilevanza strategica, dove erano concentrate gran parte delle truppe britanniche, erano la
Palestina e proprio il Canale di Suez. Le uniche minacce esterne al controllo politico ed
economico su tale area provenivano dalle due super-potenze USA e URSS. La minaccia
sovietica era di certo molto più temibile, ma allo stesso tempo meno convinta – almeno
in questi primi anni. Se si eccettua la crisi azera del 1946, la politica sovietica nell’area
43
Kolko J. e G., I limiti della potenza americana, cit., p. 94; e cfr. Memorandum by the Assistant
Secretary of State (Clayton) to the Director of the Office of War Mobilization and Reconversion
(Vinson), June 25, 1945, in FRUS, 1945, vol. VI, pp. 54-56.
44
Cfr. Kolko J. e G., I limiti della potenza americana, cit., pp. 93-95.
45
Cfr. Kolko J. e G., I limiti della potenza americana, cit., pp. 88, 93; e Kolko G., Confronting the Third
World. United States Foreign Policy 1945-1980. (New York, 1988), p. 69.
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