Introduzione
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casa. Il tutto dovrà naturalmente essere supportato da un’adeguata attività promozionale,
attraverso il ricorso a differenti canali pubblicitari, con la mediazione delle associazioni di
categoria. Solo così l’agricoltore potrà perseguire il suo fine ultimo, cioè ottenere una fonte di
reddito integrativa, che si rivelerà indispensabile ora che le politiche garantiste dell’Unione
verranno meno.
Per tutti questi motivi mi sono appassionato all’argomento ed ho deciso di intraprendere
questo lavoro sulla realtà agrituristica italiana, con particolare focalizzazione sull’analisi del
fenomeno nella mia terra, cioè il Veneto e la Provincia di Vicenza, zone interessate negli
ultimi decenni da uno sviluppo economico tumultuoso che ha portato, accanto ad un diffuso
benessere, molte conseguenze negative. La massiccia cementificazione del territorio,
l’inquinamento idrico ed atmosferico, la viabilità impazzita, la progressiva perdita di valori
rurali tipici della tradizione veneta sono solo alcuni esempi di tutto ciò. L’agriturismo forse
può porsi come un fenomeno pionieristico per supportare un nuovo modello di sviluppo che
salvaguardi la qualità ambientale e, in fin dei conti, la qualità della vita. Un recente sondaggio
effettuato dall’Associazione Industriali della provincia di Vicenza
1
ha evidenziato un diffuso
bisogno, sentito dalla gente comune, di puntare verso la “qualità dello sviluppo”, piuttosto che
sulla quantità dello stesso. Lo stesso concetto di “sviluppo” sembra dunque in discussione, in
quanto non deve implicare, come in passato, l’espansione continua e travolgente, a scapito del
territorio, ma un miglioramento graduale verso una realtà più vivibile. Un fenomeno tipico di
una società che oramai si può definire post-industriale.
La presente elaborazione si strutturerà in tre capitoli. Nel primo di essi verrà presentato un
quadro giuridico dei rapporti tra le istituzioni deputate ad intervenire nella normazione del
settore, evidenziando in particolare le ambiguità e le difficoltà che accompagnano il grande
progetto di riforma federalista del nostro Stato, avviato con la revisione del titolo V della
Costituzione.
Il secondo capitolo, prendendo le mosse dalla legge quadro nazionale che disciplina il
settore agrituristico (legge n. 730 del 5 dicembre 1985), offrirà una panoramica
dell’agriturismo nei suoi aspetti più rilevanti.
Infine il terzo capitolo sarà dedicato all’analisi della disciplina di dettaglio del Veneto, con
delle considerazioni sull’estensione del fenomeno in regione, supportate da interviste ad
alcuni operatori del settore.
1
Si veda il VII Rapporto sugli orientamenti dei cittadini condotto da Poster per conto dell’Associazione
Industriali della provincia di Vicenza nel 2001, reperibile presso il sito www.assind.vi.it
Pag. 6
CAPITOLO I
LE ISTITUZIONI CHE CONCORRONO ALLA DISCIPLINA
DELL’ATTIVITA’AGRITURISTICA
1.1 I RAPPORTI TRA STATO, REGIONI ED UNIONE
EUROPEA
1.1.1 Le Regioni dal 1948 ad oggi: evoluzione in senso federale dello Stato?
L’articolo 5 della nostra Costituzione afferma esplicitamente che “La Repubblica, una ed
indivisibile, riconosce e promuove le autonomie locali; attua, nei servizi che dipendono dallo
Stato, il più ampio decentramento amministrativo; adegua i principi ed i metodi della sua
legislazione alle esigenze dell’autonomia e del decentramento”. E’ questa la dichiarazione di
base sulla quale trovano il fondamento e la ragione stessa della loro esistenza tutti gli enti
locali, e quindi anche le Regioni. Può essere utile, nell’ambito della nostra analisi, ripercorrere
brevemente la storia dell’autonomia regionale dall’entrata in vigore della Costituzione, il
primo gennaio del 1948, fino ai nostri giorni, in cui infuria il dibattito politico in merito
all’attuazione della riforma federalista dello Stato.
E’ importante innanzi tutto delineare, a mio parere, una demarcazione tra due tipologie
d’autonomia regionale, profondamente diverse tra loro in termini di potestà legislativa e
amministrativa esercitabile. Da una parte esistono le Regioni a Statuto Ordinario, tra le quali
annoveriamo il Veneto, alle quali è concessa potestà nelle forme e nei limiti stabiliti nel titolo
V della Costituzione. Potremmo affermare, a grandi linee, che a questi enti è attribuita
un’autonomia di tipo “standardizzato”, e la conferma viene dal fatto che gli statuti, secondo
quanto disposto dalla nuova versione dell’articolo 123 della Costituzione, 2° comma, sono
approvati e modificati dai rispettivi Consigli Regionali con un atto normativo di rango
primario. Ovviamente, per la basilare regola della predominanza della fonte di rango
superiore (Costituzione) rispetto a quella inferiore (Legge Regionale d’approvazione), lo
statuto delle regioni ordinarie non potrà accordare alcuna forma d’autonomia aggiuntiva
rispetto a quanto previsto nel titolo V. Per fare un banale esempio, le condizioni d’autonomia
di cui gode la Regione Veneto coincidono, sostanzialmente, con quelle della Lombardia, ed
entrambe le regioni esercitano il potere loro accordato nel rispetto dei limiti stabiliti nel titolo
1.1 I rapporti tra Stato, Regioni ed Unione Europea
Pag. 7
V della Costituzione. Lo stesso discorso è replicabile per tutte le altre Regioni a Statuto
Ordinario.
Notevolmente diverso è il quadro per le cinque Regioni a Statuto Speciale, elencate
analiticamente nell’art. 116 della Costituzione. A questi enti, infatti, spetta, in ragione delle
loro peculiarità geografiche, storiche e linguistiche, un’autonomia di tipo “personalizzato”,
conferita attraverso l’approvazione del rispettivo statuto con un’apposita Legge
Costituzionale, diversa per ogni Regione. La fonte del diritto in questione, essendo di pari
rango in rapporto alla Costituzione, è in grado di riscrivere il titolo V, ampliando in questo
modo i poteri attribuibili alle Regioni Speciali.
Dopo questa breve digressione nozionistica torniamo ad esaminare il cammino storico
dell’autonomia regionale. Nel 1948, anno d’entrata in vigore della Costituzione, esistevano
già le Province ed i Comuni, disciplinati da una legislazione anteriore. Le Regioni invece,
dopo un lungo e glorioso passato come veri e propri stati autonomi, sparirono con
l’unificazione del paese. L’atteggiamento della classe politica che fondò, nel 1861, il Regno
d’Italia fu quello di accentrare il più possibile il potere, nel timore che il giovane stato
nascente potesse disgregarsi nuovamente, e nel periodo fascista vi fu un’ulteriore spinta a
concentrare la pubblica amministrazione a livello centrale. E’ per questo motivo che la
disciplina dei rapporti tra Stato ed enti regionali fu costruita lentamente e progressivamente,
solo dopo l’entrata in vigore della Costituzione Repubblicana.
Per le Regioni a Statuto Speciale l’attuazione del testo costituente fu immediata, con
l’approvazione dei rispettivi statuti già nel 1948. L’unica eccezione fu il Friuli-Venezia
Giulia, il cui statuto venne adottato con Legge Costituzionale n.1 del 1963, a seguito della
risoluzione della controversia tra Italia ed Ex-Jugoslavia sull’area di Trieste.
Le Regioni a Statuto Ordinario, invece, ebbero un cammino assai più tortuoso prima di
venir alla luce. L’approvazione della legge elettorale dei Consigli Regionali, indispensabile
per il funzionamento degli enti (art.122 Cost. 1° comma), fu posticipata di molti anni dal
Parlamento, per motivi prettamente politici. La difficile situazione del tempo (guerra fredda
tra USA ed ex-URSS) non rendeva opportuno, agli occhi di molti, affidare il governo di
alcune regioni a partiti di sinistra, i quali in alcuni ambiti regionali godevano di un’ampia base
di consenso. La situazione si sbloccò solo nel 1968 allorché le camere approvarono la legge
elettorale che permise, finalmente, l’elezione dei Consigli Regionali nel 1970 e la successiva
approvazione degli statuti.
A quel punto sorse il problema di trasferire poteri amministrativi, risorse finanziarie
nonché personale agli enti appena costituiti e, contemporaneamente, di riorganizzare gli
apparati burocratici statali, che fino ad allora avevano svolto i compiti propri delle Regioni.
1.1 I rapporti tra Stato, Regioni ed Unione Europea
Pag. 8
La devoluzione avvenne gradualmente, a partire dalla legge n.281 del 1970, nel rispetto del
principio stabilito nell’VIII disposizione transitoria e finale della carta costituzionale, in base
alla quale solo un atto legislativo di rango primario può attuare il trasferimento di pubblici
poteri agli enti regionali. I successivi trent’anni videro una coesistenza degli organismi locali
accanto a strutture burocratiche centrali spesso eccessivamente complesse, che tendevano a
mantenere funzioni amministrative proprie delle Regioni o addirittura a riappropriarsi di
competenze che, in linea di principio, spettavano agli enti locali. L’insofferenza per questa
situazione sfociò apertamente sul finire del secolo scorso, quando, accanto alla nascita, nel
nord Italia, di movimenti politici autonomisti, furono altresì promosse diverse iniziative per
conseguire un maggiore decentramento amministrativo:
™ Una prima strategia seguita fu la richiesta di referendum abrogativi di leggi istitutive
di Ministeri, da parte dei Consigli Regionali.
™ Una seconda linea d’azione fu promossa dallo Stato centrale, che attuò un nuovo
decentramento di funzioni amministrative a favore degli enti locali
2
.
™ Ed infine la terza direttrice dell’iniziativa nasce dall’idea che il problema della scarsa
autonomia regionale risiede essenzialmente nella Costituzione stessa che non consente,
nella sua formulazione originale, di attuare il decentramento richiesto a gran voce da più
parti.
E veniamo così all’attualità dei nostri giorni, alla riforma del titolo V della Costituzione,
con l’ambizioso obiettivo dichiarato di consentire un’evoluzione in senso federalista del
nostro Stato. La Legge Costituzionale n.3 del 2001 ha profondamente modificato, in linea di
principio, l’assetto dei poteri tra governo centrale ed autonomie locali. Sarà compito delle
pagine successive fornire un quadro generale della situazione che si è venuta a creare dopo la
riforma, senza trascurare un confronto con la situazione esistente prima del 2001, che
ovviamente influenza ancora profondamente la ripartizione dei poteri tra Stato Italiano e
Regioni. Volutamente la domanda posta nel titolo rimane per ora sospesa, in quanto sarà
compito dei successivi due paragrafi cercare di dare un metro di giudizio per capire se la
Repubblica possa dirsi, ora, uno Stato federale.
2
si veda la legge n.59 del 1997, meglio nota come “legge Bassanini”
1.1 I rapporti tra Stato, Regioni ed Unione Europea
Pag. 9
1.1.2 I poteri regionali prima e dopo la riforma del titolo V della
Costituzione
L’analisi della riforma del titolo V non può che iniziare dalla lettura dell’articolo 114 della
Costituzione, dove viene enucleato, nella nuova versione, il fondamentale principio di parità
tra i livelli di governo. Il testo novellato recita che “La Repubblica è costituita dai Comuni,
dalle Città Metropolitane, dalle Province, dalle Regioni e dallo Stato”. Quest’ultimo quindi
contribuisce, al pari degli altri livelli di governo, posti in ordine ascendente, a costruire
l’ossatura dell’amministrazione pubblica. Nella precedente formulazione, molto più diretta e
breve, gli enti locali venivano visti come mere ripartizioni della Repubblica, posti in posizione
di subordinazione rispetto all’autorità centrale.
Per le Regioni l’esplicitazione più vistosa di questo nuovo principio si rinviene scorrendo il
testo dell’articolo 117, che stabilisce le modalità di esercizio della potestà legislativa
regionale, completamente rinnovato rispetto alla sua versione originale. E’ opportuno, a mio
parere, sintetizzare come si presentasse la situazione prima della riforma, per apprezzare al
meglio le novità introdotte nell’Ottobre del 2001.
Fino a tale data vi era una profonda differenza tra le quindici Regioni a Statuto Ordinario e
le restanti cinque, con poteri speciali. Queste ultime, infatti, e solo queste, potevano esercitare
una potestà legislativa di tipo esclusivo, nelle materie che venivano sottratte, nei rispettivi
statuti, alle spire della legislazione statale. Per apprezzare al meglio il significato del termine
“esclusivo” bisogna capire quali fossero le possibilità di legiferare, accordate dal titolo V, per
le Regioni Ordinarie. “La Regione emana per le seguenti materie norme legislative nei limiti
dei principi fondamentali stabiliti dalle leggi dello Stato”: così recitava la vecchia versione
dell’articolo 117, garantendo alle Regioni a Statuto Ordinario solamente una potestà
legislativa di tipo concorrente. La situazione delineata comportava un assetto di separazione
delle competenze tra Parlamento e Consigli Regionali, dove il primo si occupava della
normazione di principio della materia, mentre i secondi della disciplina di dettaglio. Un
classico esempio lo ritroviamo proprio in una materia, l’agriturismo, posta a cavallo tra la
macroclasse dell’agricoltura e quella del turismo, entrambe affidate alla competenza
legislativa concorrente Stato-Regioni. La legge quadro statale (nel nostro caso la n. 730/1985)
fissa solo dei paletti, entro i quali la Regione è tenuta a dare contenuto normativo alla materia.
E’ altresì importante osservare che la Costituzione non vieta al legislatore regionale di
emanare norme, gerarchicamente sullo stesso piano di quelle statali, in assenza di specifica
disciplina statale. I principi fondamentali possono venir ricostituiti, infatti, per via
interpretativa, sulla base della normativa nazionale già vigente in un determinato settore. Si
1.1 I rapporti tra Stato, Regioni ed Unione Europea
Pag. 10
spiega così, sempre nel caso dell’agriturismo, come sia stato possibile che alcune Regioni
(ad esempio la Campania) abbiano emanato una disciplina agrituristica anteriore all’entrata in
vigore della legge cornice. E il fatto che questa normativa sia rimasta in vigore
sostanzialmente immutata
3
, anche dopo il 1985, dimostra la bontà del lavoro interpretativo
svolto dal legislatore regionale. Se infatti la norma statale confliggesse con la Legge
Regionale, anteriore ad essa, in virtù del rapporto di competenza che si stabilisce tra le due
fonti la normativa si dettaglio sarebbe costretta ad un riallineamento a quella di principio.
Cosa che nel nostro caso non è avvenuta.
Tutto questo discorso è volto a mettere in luce il notevole limite che era posto di fronte alle
Regioni a Statuto Ordinario, impedimento che invece veniva meno, nelle materie a
legislazione esclusiva, per le Regioni speciali. Non bisogna però erroneamente pensare che,
ad esempio, il Trentino Alto-Adige non incontrasse limiti all’esercizio della propria potestà
legislativa. Esistevano infatti tutta una serie di barriere, insite nell’impianto costituzionale,
che garantivano la coesione interna dello Stato, vincolando l’attività legislativa regionale sia
primaria che concorrente.
Un primo limite esplicito era posto nello stesso articolo 117 della Costituzione, nel quale si
affermava che le Leggi Regionali non devono essere “in contrasto con l’interesse nazionale e
quello delle altre Regioni”. Poi, ovviamente, il potere normativo può esercitarsi solo
nell’ambito territoriale dell’ente stesso (una legge del Veneto non può vincolare un cittadino
lombardo) ed esclusivamente nelle materie tassativamente previste dall’articolo 117 (per le
Regioni Ordinarie) o nelle Leggi Costituzionali d’approvazione degli Statuti (per quelle
speciali). Naturalmente la Legge Regionale è fonte del diritto gerarchicamente subordinata
alla Costituzione, e perciò sarebbe inammissibile che la prima contrasti con i principi
fondamentali insiti nella seconda. Un’esemplificazione di quest’affermazione si rinveniva
scorrendo l’articolo 120 del testo costituzionale, ma possiamo affermare, in via generale, che
tutti i principi cardine del nostro ordinamento giuridico (ad esempio il principio di
irretroattività delle leggi) vincolano l’attività del legislatore regionale. Non va trascurato
inoltre che anche le Regioni, come lo Stato, sono assoggettate al rispetto degli obblighi
internazionali e comunitari, assunti a norma dell’articolo 11 della Costituzione. Ed ultimo un
limite molto controverso e dibattuto venne definito dalla Corte Costituzionale, chiamata in
causa per dirimere controversie sorte tra Stato e Regioni, la quale affermò che le grandi leggi
nazionali di riforma economica e sociale vincolano, nei principi fondamentali espressi, la
produzione normativa di tutte le autonomie regionali.
3
Si veda a proposito il “Manuale di diritto del Turismo” edizione 2001, di Franceschelli V. e Silingardi G. e in
particolare il cap. VIII, par.2, a cura di Busti S.
1.1 I rapporti tra Stato, Regioni ed Unione Europea
Pag. 11
Il quadro veniva chiuso da una terza tipologia di potestà legislativa regionale, quella
attuativa, esplicitamente riconosciuta e garantita, in alcune materie, alle Regioni Speciali, ma
che poteva essere affidata, a discrezione del legislatore statale, pure a quelle ordinarie.
La riforma del 2001 muta radicalmente il criterio di riparto delle competenze parificando,
nella forma e nella sostanza, il potere legislativo statale e quello regionale. Naturalmente,
trattandosi di una riforma del titolo V della Costituzione, essa avrà effetto esclusivamente
sulle Regioni a Statuto Ordinario, salva la previsione contenuta nell’articolo 10 della Legge
Costituzionale di revisione che consente, fino all’adeguamento dei rispettivi statuti, di
applicare le disposizioni innovatrici anche alle Regioni Speciali “per le parti in cui prevedono
forme di autonomia più ampie rispetto a quelle già attribuite”.
La ripartizione è così definita dalla nuova versione dell’articolo 117:
™ Innanzitutto nel secondo comma vengono enumerate una serie di materie la cui
disciplina è demandata alla competenza esclusiva dello Stato.
™ Sono quindi individuate, nel terzo comma, una seconda serie di materie a legislazione
concorrente, per le quali è attribuita alle Regioni potestà legislativa, salvo che per la
determinazione dei principi fondamentali, attribuita allo Stato. In pratica, in queste
materie, permane l’assetto definito nel 1948.
™ Il quarto comma afferma che alle Regioni spetta potestà legislativa, in via esclusiva, su
tutte le altre materie non menzionate dal testo costituente
™ Va infine notato che viene ridimensionata la possibilità di delega di ulteriore potestà
legislativa attuativa alle Regioni, limitata ad alcuni particolari casi dall’articolo 116 3°
comma, il quale stabilisce anche la procedura per l’esercizio della stessa.
Come si può notare la situazione è mutata profondamente, in quanto ora anche le Regioni
Ordinarie possono liberamente esercitare, al pari delle altre, la potestà legislativa primaria
sulle materie in cui sono competenti. Gli impedimenti che incontrerà il legislatore regionale
saranno gli stessi posti nei confronti del legislatore nazionale, e in particolare sarà d’obbligo il
rispetto della Costituzione, dei vincoli relativi all’ordinamento comunitario, degli obblighi
internazionali, nonché dei limiti generali posti dalla disciplina privatistica e penalistica
nazionale.
Particolari problemi sorgono qualora si cerchi di capire se permangono due limiti del
vecchio ordinamento, non espressamente previsti dalla nuova carta costituzionale. Il primo, il
rispetto dell’interesse nazionale e quello delle altre Regioni, era esplicitamente menzionato,
come abbiamo visto, nel vecchio articolo 117 mentre il secondo, la subordinazione della
1.1 I rapporti tra Stato, Regioni ed Unione Europea
Pag. 12
normativa regionale alle grandi leggi di riforma economica e sociale, si era formato per via
giurisprudenziale nel corso degli anni. Ritorneremo nel prossimo paragrafo su questo
argomento, per il momento rimane un punto interrogativo a stimolo della curiosità del lettore.
L’esame delle novità introdotte dal nuovo articolo 117 prosegue con il formale
riconoscimento costituzionale della potestà regolamentare prevedendo che:
™ Lo Stato dispone di potestà regolamentare nelle materie a potestà legislativa esclusiva
statale, salva la possibilità di delega (volontaria) alle Regioni.
™ Le Regioni dispongono di potestà regolamentare in ogni altra materia (e quindi anche
in quelle a legislazione concorrente).
™ Agli enti locali minori spetta potestà regolamentare in ordine alla disciplina
dell’organizzazione interna e dello svolgimento delle funzioni loro attribuite.
Il nuovo testo costituzionale consente inoltre agli enti territoriali di partecipare “alle
decisioni dirette alla formazione degli atti normativi comunitari” e di provvedere
“all’attuazione e all’esecuzione degli accordi internazionali e degli atti dell’Unione Europea ,
nel rispetto delle norme di procedura stabilite dalle Leggi dello Stato”
4
. Un’ulteriore conferma
del rapporto di piena parità che si viene a creare tra centro e periferia nel nuovo assetto di
poteri. Sempre per lo stesso motivo l’articolo 117 garantisce alle Regioni la possibilità di
concludere direttamente ed autonomamente intese con altri enti equiparati o addirittura, nelle
materie di competenza, di “concludere accordi con Stati ed intese con enti territoriali interni
ad altro Stato”, fermo restando il rispetto dei limiti fissati dalle leggi statali
5
.
Se tutte queste sono le novità importanti sul piano del potere normativo regionale,
altrettanto profonde e promettenti sono le modifiche introdotte nell’articolo 118, le quali
stabiliscono l’assetto di ripartizione dei poteri amministrativi. Fino al 2001 la norma in
questione attuava una suddivisione di competenze sulla base del “principio del parallelismo”,
in base al quale spettavano alle Regioni le funzioni amministrative nelle stesse materie,
elencate nell’articolo 117 della Costituzione, in cui esse godevano di potestà legislativa. In
pratica, come ho avuto modo di accennare nel primo paragrafo, questo principio fu applicato
disordinatamente, con larghe eccezioni che portarono al risentimento degli enti locali verso
l’autorità centrale. Oggi invece il parallelismo viene abbandonato. E’ stata infatti prevista
l’attribuzione, in via generale, delle funzioni amministrative ai Comuni, salva la possibilità di
devolvere le stesse ad altri enti (le Città Metropolitane, le Province, le Regioni e lo Stato), per
4
così il 5° comma del nuovo articolo 117 Cost. , modificato dall’art. 3 della Legge Cost. n.3/2001.
5
ultimo comma della nuova versione dell’articolo 117, introdotto con l’art.3 della Legge Cost. n.3/2001.
1.1 I rapporti tra Stato, Regioni ed Unione Europea
Pag. 13
assicurarne “l’esercizio unitario....sulla base dei principi di sussidiarietà, differenziazione ed
adeguatezza”
6
.
Nello stesso articolo 118 si enfatizza peraltro l’importanza dell’autonoma iniziativa dei
cittadini, singoli o associati, per lo svolgimento di attività di interesse generale. Una conferma
della valorizzazione del volontariato, del confronto tra le parti sociali e del principio di
sussidiarietà, che potrebbe essere riassunto con lo slogan “amministrare dal basso è meglio”.
Merita un minimo di attenzione anche la modifica introdotta dall’articolo 5 della Legge
Costituzionale n.3/2001. “ I Comuni, le Province, le Città Metropolitane e le Regioni hanno
autonomia finanziaria d’entrata e di spesa. Così esordisce il nuovo articolo 119 della
Costituzione, introducendo il concetto di federalismo fiscale nell’ordinamento. Gli enti locali
possono dunque stabilire ed applicare tributi propri, ed in più sono chiamati a compartecipare
al gettito di tributi erariali, riferibili al loro territorio. Nella situazione che si era venuta a
delineare fino al 2001 l’autonomia finanziaria era garantita solo dal lato dell’impiego delle
risorse, mentre il reperimento delle stesse era rigidamente disciplinato dalle leggi della
Repubblica. Le Regioni, insomma, non potevano istituire tributi propri con Leggi Regionali,
ma questa prerogativa era concessa solo al legislatore statale, con un provvedimento valido
per tutti
7
. Lo Stato, comunque, non esce di scena nel nuovo assetto: alla Legge Ordinaria è
infatti attribuito il compito di istituire un fondo perequativo, senza vincoli di destinazione, per
i territori con minore capacità fiscale per abitante. Per lo più rimane compito dello Stato
quello di rimuovere gli squilibri sociali ed economici, destinando risorse aggiuntive in favore
di determinati enti locali.
In conclusione, scorriamo brevemente le altre novità introdotte dalla riforma
costituzionale, che riguardano in primis le modalità di esercizio, da parte del Governo, del
potere sostitutivo a fronte di inadempienze regionali verso gli obblighi comunitari o di
situazioni particolarmente rischiose per l’interesse e l’unità nazionali
8
. Da rilevare la piena
parificazione delle Regioni allo Stato, sul piano dei ricorsi alla Corte Costituzionale, per leggi
ritenute lesive delle rispettive sfere di competenza e il fatto che spariscano organi di controllo
a livello regionale come il Commissario di Governo. Va notata la previsione contenuta
nell’articolo 11 del testo di revisione costituzionale, che individua un meccanismo consultivo
qualificato per le questioni regionali ed inserisce le Regioni direttamente, tramite loro
delegati, nel procedimento legislativo parlamentare. Ed infine il nuovo articolo 123 afferma
che ogni Regione, nel proprio statuto, dovrà disciplinare la creazione di un “Consiglio per le
Autonomie Locali”, organo di consultazione e raccordo tra i vari enti territoriali.
6
Art. 118 1° comma Cost. , come integrato e modificato dall’art. 4 della Legge Cost. 3/2001.
7
Si veda a tal proposito il testo della legge 281/1970 e le successive integrazioni.
1.1 I rapporti tra Stato, Regioni ed Unione Europea
Pag. 14
1.1.3 I problemi applicativi della riforma
Nei precedenti paragrafi abbiamo avuto modo di apprezzare quali siano i rapporti di forza
instauratisi tra Stato e Regioni, lungo il percorso storico dell’autonomia locale. Una domanda
che è rimasta irrisolta è capire se la nostra Repubblica possa o meno definirsi uno Stato
federale.
Ad una prima lettura del testo costituente, nella sua versione originale, la risposta da dare
non poteva che essere negativa. La Repubblica Italiana è rimasta, fino ai nostri giorni, uno
Stato regionale e non federale. Certo tracciare una linea di demarcazione tra le due entità
statali non è facile, poiché il passaggio verso l’autonomia federalista avviene gradualmente,
mano a mano che la sovranità viene trasferita agli enti locali. In quest’ottica, almeno fino al
2001, le Regioni italiane non potevano essere definite, a detta di molti giuristi, Stati federali,
per il semplice motivo che i poteri loro riconosciuti e attribuiti non erano di tale ampiezza da
giustificare tale dizione.
Le Regioni godevano, come abbiamo visto, di un certo grado d’autonomia legislativa,
amministrativa e finanziaria, ma è d’altro canto vero che le norme costituzionali hanno
trovato un’applicazione, nella prassi, assai poco favorevole per le autonomie locali. Se
pensiamo a classici esempi di nazioni rette dal principio federale, come gli Stati Uniti
d’America o la Germania, si nota che le autonomie regionali detengono poteri normativi e di
governo ben più ampi di quelli concessi alle Regioni italiane.
Nella realtà statunitense gli Stati federali hanno competenza nella disciplina dei rapporti
privatistici e penalistici (classico esempio è il fatto che la pena di morte sia istituita solo in
alcuni Stati), hanno un certo grado di autonomia dal punto di vista giurisdizionale (ogni
ambito ha la sua magistratura) e detengono il controllo sulle forze dell’ordine. I vari Stati
federati presentano grosse diversità nel loro ordinamento interno, mentre le Regioni italiane,
specie quelle Ordinarie, erano obbligate a mantenere una totale somiglianza tra di loro, e il
vincolo era così forte da portare la Corte Costituzionale a giudicare illegittima, per violazione
dell’articolo 3 della Costituzione (principio di eguaglianza), una Legge Regionale che
introduceva alcune forme di differenziazione, rispetto ai criteri standard, nei rapporti di lavoro
tra l’ente e i suoi dipendenti.
Se questa era la situazione che si era delineata prima della riforma del titolo V, resta da
capire se ora si possa sostenere che l’Italia sia una Repubblica di stampo federale. Il nuovo
8
Articolo 120 2° comma, nuova versione introdotta dall’art. 6 della Legge Cost. n.3/2001.
1.1 I rapporti tra Stato, Regioni ed Unione Europea
Pag. 15
testo costituzionale sembra molto promettente, ma esistono una serie di problemi applicativi
della riforma che non possono essere trascurati.
Innanzi tutto la Legge di Revisione non ha previsto alcun sistema organico di norme
transitorie. A questo punto si possono teorizzare varie ipotesi interpretative in merito al
silenzio del legislatore:
1) In assenza di espresse previsioni transitorie, le Regioni possono legiferare (ed
amministrare) anche prima dei trasferimenti espressi dallo Stato.
2) L’VIII e la IX disposizione transitoria e finale si applicano ancora oggi.
3) L’esigenza del previo trasferimento è una necessità logica del sistema, sicché non
sarebbe opportuno l’esercizio immediato delle nuove prerogative regionali.
La prima tesi è da escludere, in quanto comporterebbe il rischio della disgregazione del
nostro ordinamento, senza contare che alcune Regioni non sembrano ancora detenere le
competenze necessarie per legiferare, in via esclusiva, su materie importanti come l’industria
o la viabilità.
La seconda ipotesi vede le disposizioni transitorie della Costituzione anche come
disposizioni finali, nel senso che contengono norme di chiusura del sistema, da applicare
sempre e in qualunque caso vi sia nuova devoluzione di potere alle Regioni. In questa ottica il
concreto trasferimento di poteri dovrebbe obbligatoriamente avvenire tramite Leggi della
Repubblica (VIII disposizione) ed entro tre anni dall’entrata in vigore dell’emendamento
costituzionale (IX disposizione).
Infine la terza tesi, collegabile alla seconda, è basata su un ragionamento di ordine logico,
che afferma l’opportunità (anche se non l’obbligatorietà) che lo Stato emani i decreti di
trasferimento di funzioni, risorse finanziare e umane provvedendo, contestualmente, a
riorganizzare l’amministrazione centrale.
La linea battuta dal Parlamento sembra voler seguire il tracciato costituzionale, non senza
palesi ambiguità. Votare la Legge sulla “devolution” con procedura d’urgenza, prima che sia
stata votata la Legge d’attuazione della riforma federalista, è un’irritualità costituzionale, a
mio modo di vedere, rilevante.
Entrando in profondità è giunto il momento di chiarire cosa sia avvenuto, nella nuova
formulazione dell’articolo 117, al limite “dell’interesse nazionale e a quello delle altre
Regioni”. Scomparso il riferimento testuale parrebbe, ad una prima, sommaria, lettura della
nuova norma che l’interesse nazionale non costituisca più un paletto da rispettare
nell’esercizio della potestà legislativa regionale. Tuttavia, non si può comprendere cosa
1.1 I rapporti tra Stato, Regioni ed Unione Europea
Pag. 16
giustifichi, nel nuovo articolo 120, l’esercizio di penetranti poteri statali sostitutivi, né cosa
possa mai coordinare l’applicazione del principio di sussidiarietà verticale (nuovo articolo 118
1° comma), se non il raffronto tra l’interesse nazionale e quello delle Regioni. Si potrebbe
ritenere che il limite sia stato, per così dire, esemplificato, poiché sia le materie di
competenza esclusiva statale (di cui all’articolo 117 2° comma), sia i presupposti per
l’esercizio del potere governativo sostitutivo costituiscono forme di manifestazione
dell’interesse nazionale
9
. In sostanza l’interesse nazionale continua a vivere, e la conferma
viene dal fatto che l’articolo 119, nella nuova versione, richieda che l’autonomia impositiva
regionale si eserciti “in armonia con la Costituzione e secondo i principi di coordinamento
della finanza pubblica e del sistema tributario”.
E l’interesse delle altre Regioni? L’articolo 116, nella nuova dizione, disegna la possibilità,
per le Regioni più intraprendenti e meglio attrezzate, di usufruire di “ulteriori forme e
condizioni particolari d’autonomia”. Si verrebbe a creare, in prospettiva, un federalismo
asimmetrico e competitivo che, agli occhi del CNEL, sarebbe particolarmente rischioso nella
realtà economica e sociale italiana. Dunque il tema dell’interesse “delle altre Regioni” oggi è
destinato a diventare centrale, e un ruolo fondamentale lo svolgerà la Corte Costituzionale la
quale, attraverso le sue sentenze volte a dirimere le controversie regionali, potrebbe optare per
valorizzare maggiormente un federalismo di tipo concorrenziale o uno di tipo cooperativo.
Ulteriori problematiche sorgono in materia di riparto delle competenze dato che il nuovo
articolo 117, nella sua attuale formulazione, non lo rende rigido e predeterminato. L’esatta
delimitazione dei poteri regionali dipende dall’estensione dei confini di materie attribuite alla
competenza esclusiva dello Stato. Così termini come “ordinamento civile” (articolo 117
comma 2 lettera l) o “determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i
diritti civili e sociali” (lettera m del medesimo articolo) si possono prestare a interpretazioni
più o meno estensive, a seconda delle circostanze.
Il rovente dibattito che si è sviluppato nelle aule parlamentari riguarda più che altro questo
aspetto cruciale della riforma, e l’esito finale condizionerà pesantemente il conseguimento o
meno dell’obbiettivo federalista. A complicare il quadro viene la storia, forse troppo
dimenticata ma che dovrebbe sempre insegnare la strada da seguire. I grandi Stati federali,
quali gli USA, il Canada o la Germania, sono nati dall’unione di entità statali
precedentemente autonome o addirittura ostili tra loro, mentre non è mai avvenuto che uno
Stato unitario si spezzettasse per delegare i suoi poteri ad entità sottostanti
10
. Il rischio di
9
Così il Consiglio Nazionale dell’Economia e del Lavoro nel documento “Osservazioni e proposte- La riforma
del titolo V”, reperibile presso il sito Internet www.cnel.it nella sezione “documenti del CNEL”.
10
Si veda a proposito un articolo sul tema di Giovanni Sartori pubblicato sul “Corriere della Sera” del
23/11/2002.
1.1 I rapporti tra Stato, Regioni ed Unione Europea
Pag. 17
finire in un vicolo cieco, in fondo al quale c’è la dissoluzione dell’identità nazionale e della
coesione sociale, è forte. Una garanzia contro questo pericolo viene dal fatto che la riforma, in
linea di principio legittima, del titolo V della Costituzione, non può ledere i principi
fondamentali fissati nella prima parte della stessa, laddove si proclama che la Repubblica è
una ed indivisibile ed essa ha come fondamento la solidarietà tra tutte le componenti sociali e
territoriali. Cruciale sarà in questo contesto il ruolo di garanzia costituzionale di cui sono
investiti il Presidente della Repubblica, nell’atto di promulgare le Leggi, e la Corte
Costituzionale, qualora fosse chiamata in causa per verificare la costituzionalità della
normativa in questione.
Cambiando tema, più volte la Conferenza delle Regioni e delle Province Autonome ha
evidenziato che il primo passo fondamentale per percorrere la strada del federalismo è quello
di dare rapida attuazione all’articolo 119 della Costituzione, quello che attribuisce piena
autonomia finanziaria agli enti locali. I problemi maggiori si manifestano in merito ai
trasferimenti statali destinati ad integrare, senza vincolo di destinazione, le entrate proprie
delle Regioni e le compartecipazioni a tributi erariali. La Legge Costituzionale istituisce un
fondo perequativo per i territori a minore capacità fiscale per abitante, stabilendo perciò il
principio che le Regioni economicamente più sviluppate dovrebbero essere in grado, con le
entrate proprie e le compartecipazioni al gettito statale, di finanziare integralmente le funzioni
loro attribuite. Cosa che per ora non avviene. Il problema potrebbe essere risolto, a parere del
CNEL, graduando le attuali compartecipazioni in base al criterio geografico ed assegnando il
fondo perequativo solo alle regioni deboli.
Ulteriori problematiche sono poste dalla soppressione dei controlli di legittimità sugli atti
delle Regioni e degli altri enti locali, attraverso l’esplicita abrogazione degli articoli 125 e 130
della Costituzione originale. Questo non significa assenza di qualsiasi controllo, almeno per
quanto riguarda il conseguimento degli obbiettivi finanziari generali (patto di stabilità e di
crescita europeo, patto di stabilità interno), da parte di organi come la Commissione
Bicamerale per le Questioni Regionali
11
o la Corte dei Conti.
In chiusura va verificato se questa riforma così ampia e radicale dello Stato goda del favore
dei cittadini. Fermo restando che il referendum confermativo della revisione costituzionale ha
ottenuto un largo consenso positivo, emerge anche da recenti sondaggi
12
una forte fiducia
verso le istituzioni regionali, e una diffusa avversione verso quelle statali. Il 57,3% degli
intervistati afferma di non avere alcuna fiducia nello Stato centrale, mentre ben il 70%
11
Istituita dall’art. 126 della Costituzione, nonché legittimata dalla legge 10 febbraio 1953, n. 62,art. 52 e legge
28 ottobre 1970, n. 775, art.li 21 e 32
12
Rapporto Italia- Sondaggio CIRM del 1999 reperibile nel sito Internet www.regioni.it/miscellanea/
1.1 I rapporti tra Stato, Regioni ed Unione Europea
Pag. 18
afferma di nutrire stima verso le istituzioni regionali. Il dato è più alto in Valle D’Aosta, dove
il 90% dei cittadini è soddisfatta del funzionamento dell’istituzione regionale, nonché in
Trentino Alto Adige ed in Emilia Romagna, con l’85% di cittadini appagati. Ben sotto la
media sono alcune Regioni meridionali, come la Calabria e la Puglia, dove rispettivamente
solo il 43,1 e il 45,8% degli intervistati si dichiara contento dell’operato della Regione.
Appare dal sondaggio un’Italia fortemente legata al contesto locale, dato che ben il 90,8%
del campione si dichiara orgoglioso di essere cittadino della propria Regione, percentuale di
poco superiore al senso di appartenenza all’Italia (88,3%), all’Europa (86,5%) a al Comune
(83%).
Le istanze pervenute dal basso hanno già portato alla riforma del titolo V della
Costituzione e all’elezione diretta dei Presidenti delle Regioni. Per otto italiani su dieci la
riforma attualmente più urgente è il federalismo fiscale, tanto è vero che il 34% degli
intervistati si dichiara favorevole a pagare le tasse al Comune e il 29,5% alla Regione, mentre
solo il 13% è a favore del sistema attuale.
Emerge anche una diffusa ignoranza su quali siano esattamente i compiti delle Regioni: un
italiano su due (il 52,8%) non sa quali siano le attività svolte da tali enti, e il deficit di
informazione potrebbe causare una carenza di fiducia verso l’ente regionale.
Il sondaggio conferma un dato di fatto: è il nord Italia, ed in particolare il nord-est, a
spingere verso l’evoluzione federalista dello Stato, mentre il centro esprime meno
determinazione, pur nutrendo comunque fiducia nelle Regioni. Ed infine c’è il sud, che
reclama istituzioni pubbliche più efficienti, poco importa se siano di gemmazione nazionale o
regionale.
Infine una piccola e piacevole curiosità: di fronte alla richiesta se conservare o cambiare la
bandiera italiana l’86% degli intervistati non ha dubbi: meglio il tricolore!