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cambiamenti non si ottengono solo intervenendo sulle capacità
comportamentali di chi lavora a contatto con la clientela, ma definendo a
monte strategie di acquisto, distribuzione, allestimento e marketing.”
Durante l’anno fiscale 2000 (settembre ’99 – agosto ’00) quasi 230
milioni di persone sono entrate in uno dei negozi IKEA sparsi nel mondo ed
è stato realizzato un fatturato di 8.5 miliardi di dollari; nel corso dell’ultimo
anno inoltre sono stati aperti dodici nuovi negozi, tra cui spicca quello di
Mosca. IKEA attraverso 100 milioni di cataloghi pubblicati in 32 lingue,
diffonde il proprio design e le proprie tradizioni in tutto il mondo. Ma il
successo di questa azienda viene anche da un forte orientamento al cliente
che all’interno dei suoi negozi viene letteralmente coccolato. Molti servizi
sono offerti a chi si reca nei negozi IKEA: un ampio parcheggio gratuito, i
bambini hanno uno spazio giochi nel Paradiso dei Bambini controllato dal
personale e per i più piccoli passeggini e delle stanze munite di fasciatoi, i
disabili dispongono di un comodo parcheggio vicino all’entrata, di sedie a
rotelle e di servizi igienici adeguati. Ogni negozio IKEA è aperto a orario
continuato e offre a chiunque l’opportunità di trascorrere la pausa del
pranzo nel Restaurant & Café, con un menu di tipo svedese.
L’obiettivo dell’azienda è di vedere il cliente soddisfatto e soprattutto di
vederlo tornare, di instaurare con lui un rapporto particolare, quasi
“chiedendogli di condividere le proprie strategie, i valori, la filosofia
aziendale, diventando così parte del proprio campo simbolico allargato”
(Berg, Gagliardi, 1986).
La storia di IKEA è quindi quella di una azienda che si è posta grandi
obiettivi e li ha gradualmente raggiunti, sempre con enormi successi, e
poiché come molti sostengono la fortuna di un’organizzazione dipende
dalle persone che ne fanno parte, scopo di questa ricerca è analizzare come
queste contribuiscono al vantaggio competitivo di questa azienda. In
particolare la tesi, attraverso l’analisi della creazione e del persistere di una
cultura organizzativa, si soffermerà sulla formazione delle risorse umane:
3
IKEA si differenzia da altre aziende perché ha un suo modo fare le cose, il
personale fa riferimento ad una “Comunità di Pratiche” (Lave, Wenger,
1991) e ad alcuni valori fondamentali nello svolgimento della sua attività.
L’analisi culturale delle organizzazioni negli anni ’80 è letteralmente
esplosa producendo una grande quantità di studi e ricerche, essa, infatti, può
rivelarsi particolarmente importante in alcune situazioni in cui si ipotizza
che il sistema di principi e valori che orienta il comportamento degli attori
sociali rappresenti un ostacolo, oppure una risorsa importante da rafforzare,
per la realizzazione di determinati progetti strategici o organizzativi.
Tuttavia negli anni ’90 questa è stata oggetto di numerosi attacchi e critiche
in quanto si è sostenuto che tale approccio evidenzia soprattutto fenomeni
di integrazione e di omologazione, a scapito di tutto quello che è comunque
rinvenibile all’interno di un’organizzazione come il conflitto, la dissonanza
e l’ambiguità. Come afferma Zan (1988), “fino a che si sostiene che la
dimensione culturale è indispensabile per comprendere le dinamiche
organizzative non vi è alcun problema…...Quando però si sostiene che le
organizzazioni sono primariamente culture che in quanto tali vanno
analizzate con la strumentazione concettuale disponibile, rifiutando quanto
proposto dal “paradigma” tradizionale, ma anche le chiavi di lettura offerta
dagli altri filoni emergenti, si corrono due rischi che indeboliscono nei fatti
la rilevanza dell’approccio”. In primo luogo si rischia di cadere in
un’antropologia culturale delle organizzazioni, che limitandosi ad una
descrizione non va a risolvere le questioni teoriche della teoria delle
organizzazioni, in secondo luogo si rischia di cadere di nuovo nel
riduzionismo che ha caratterizzato la disciplina quando cerca di trovare
quell’unica variabile in grado di spiegare tutti i fenomeni connessi all’agire
nell’organizzazione. A tal fine l’evoluzione degli studi culturali ha
recuperato approcci agli studi organizzativi che in vario modo avevano
messo in luce le fonti di ambiguità all’interno delle organizzazioni, come
quelli di Cohen (1972), March e Olsen (1976), Weick (1979, 1985),
4
Starbuck (1987) e Daft e Weick (1984) e si è arricchita con l’avvento del
discorso postmoderno. Da parte di questi studiosi fonti di ambiguità ed
incertezza erano state rinvenute in vari fenomeni organizzativi come il
momento decisionale, l’alta mobilità delle persone, l’accettazione di
soluzioni soddisfacenti, i repentini cambiamenti di autorità o nella
descrizione dei lavori. Questo recupero ha dato luogo ad una sempre
maggiore rilevanza assegnata a questo tipo di fenomeni che nasce dalla
comune convinzione che questi non possono avere un significato univoco e
che danno luogo a molteplici interpretazioni, sia da parte degli studiosi che
da parte degli attori organizzativi stessi. A tal proposito la Martin (1992), ha
individuato tre tipi di prospettive negli studi culturali, che in parte possono
rappresentare l’evoluzione stessa di questo tipo di studi:
• l’integrazione per cui la cultura è un insieme di valori condivisi che
generano armonia, omogeneità, consenso diffuso e assenza di
conflitto, e dove non c’è posto per incertezze, ambivalenze ed
ambiguità, per cui si assiste ad una coerenza tra contenuti e
manifestazioni della cultura;
• la differenziazione per cui le manifestazioni della cultura non sono un
tutto coerente e le pratiche informali contrastano spesso con i valori
dominanti, portando così alla luce la dimensione del potere, del
conflitto e dell’opposizione di interessi, che spesso trovano
espressione nelle controculture;
• la frammentazione per cui uno stesso simbolo può dare luogo a
interpretazioni diverse e ugualmente valide ed il compito del
ricercatore è quello di rendere conto dell’ambiguità della vita
organizzativa.
Questa evoluzione è inseribile all’interno del più vasto discorso
postmoderno che ha influenzato l’arte, la letteratura, l’architettura ed ogni
forma di espressione culturale e che si esprime in termini di “rifiuto della
grande narrazione” (Lyotard, 1979), “nell’affermazione che la verità è
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essenzialmente una questione di credibilità guadagnata attraverso mosse su
un mercato, cioè producendo affermazioni e proposizioni che saranno gli
altri poi a vagliare”(Berg, 1990). L’essenza del postmodernismo, anche
rispetto agli studi organizzativi, sta quindi nell’opposizione alle grandi
correnti, anche se esso non si pone in alternativa ad essi poiché il
pluralismo è una delle caratteristiche più evidenti di questo pensiero. Il
postmodernismo quindi è essenzialmente un modo di “decostruire” e di
decomporre il mondo (Derrida, 1973), di cercare le “differenze”, i gap ed i
punti di instabilità invece che le somiglianze e l’ordine, liberando così le
parti componenti dal significato che codeste spesso incontestate “grandi
narrazioni” (Lyotard, 1979) hanno attribuito loro (Berg, 1990). A tal
proposito “oggi nelle scienze manageriali e organizzative non ha
importanza il fatto che un’affermazione o un fenomeno siano veri o falsi,
ma il fatto che l’affermazione venga accettata e sia vendibile e valida per un
pubblico più vasto. La distinzione tra vero e falso è senza significato così
come lo è la vecchia distinzione tra giusto e sbagliato basata su un sistema
di credenze entrinseco religioso o morale. Nel mondo postmoderno le teorie
tendono a divenire beni di consumo da comprare o vendere a seconda dei
gusti specifici di un particolare ricercatore. Che una teoria sia falsa o
sbagliata, ciò non è più una questione di verifica ma di accettazione da parte
della comunità di ricerca.” (Berg, 1990).
Consapevole di tali sviluppi del pensiero e delle teorie organizzative, ho
ritenuto che un approccio culturale fosse quello in grado di spiegare meglio
i comportamenti organizzativi rinvenibili in questa azienda e che solo
attraverso di questo si poteva riconsegnare la giusta complessità a questo
campo di indagine, ed entrare nella profondità del caso. Nel fare questo il
mio sforzo costante è stato quello di tenere sotto controllo le dinamiche che
la cultura non riesce a spiegare, che sono tipiche della vita di qualsiasi
organizzazione, adottando quindi quella che la Martin (1992) definisce “la
prospettiva della frammentazione”, che sembra particolarmente aderente ad
6
un discorso postmoderno dove il concetto di scomposizione sia esso delle
strutture organizzative, delle grandi strategie, o dei simboli, assume
notevole rilevanza.
La tesi si struttura su cinque capitoli, che rappresentano anche il percorso
temporale dello studio da me condotto.
Sono partita da un approfondimento teorico, volto alla ricerca dei
concetti sviluppati nella letteratura accademica, che ritenevo potessero
spiegare meglio l’organizzazione che mi apprestavo a studiare. In questo
sono forse stata facilita dall’appartenere a questa organizzazione e quindi
dall’avere già una parziale conoscenza del mio oggetto di studio, d’altra
parte questo mi ha complicato lo studio in altre fasi in cui era necessario un
maggiore distacco. I risultati di questo approfondimento sono esposti nel
primo capitolo, dove espongo il paradigma di riferimento, l’approccio
utilizzato nello studio di questa organizzazione, e le teorie che ho ritenuto
potessero configurare i processi di apprendimento. In ultimo espongo la
metodologia e le ipotesi della ricerca.
Il secondo capitolo ha lo scopo di descrivere l’universo simbolico di
IKEA attraverso la sua storia, il racconto in prima persona dell’inserimento
di un novizio, la descrizione degli artefatti fisici e visivi e di alcune pratiche
particolari della vita di questa organizzazione. La scrittura della storia è
stata possibile attraverso la lettura del libro Leading by Design di Bertil
Torekull (1998), che consiste in una biografia di IKEA e del suo fondatore.
La voce del fondatore è invece frutto di interviste rilasciate da quest’ultimo
a riviste, quotidiani e allo stesso Torekull per la stesura della biografia.
Questa prima parte del capitolo termina con un’interpretazione del ruolo
svolto dal fondatore e con l’individuazione di quelli che sono i valori
portanti di questa cultura. La seconda parte del capitolo, ha invece lo scopo
di analizzare come questi valori siano stati impressi nella vita
dell’organizzazione ed in quale forme siano rinvenibili, a partire
dall’inserimento del novizio per giungere a situazioni particolari di questa
7
organizzazione, attraverso l’analisi degli artefatti fisici e visivi e delle
percezioni degli attori. Ovviamente i nomi assegnati agli attori, in questa
sede e successivamente nel corso della ricerca, sono il frutto di pura
fantasia. Poiché questa parte si configura come un diario personale della
mia esperienza, ho cercato di recuperare il rigore metodologico, procedendo
prima alla scrittura e successivamente all’interpretazione, che comunque è
riportata alla fine di ogni paragrafo.
Il terzo capitolo si occupa invece della gestione delle risorse umane,
cercando di porre in evidenza come questo aspetto possa essere messo in
relazione alla cultura organizzativa di un’azienda. In particolare, attraverso
un passaggio continuo dalla descrizione degli strumenti di gestione
utilizzati alla percezione che ne hanno gli attori, evidenzio il fatto che la
ricerca di efficienza che caratterizza le organizzazioni moderne è
difficilmente conciliabile con una “espoused theory” (Argyris, Schon,1974)
basata su valori come la coerenza, la trasparenza e le opportunità per tutti, e
come piuttosto rientrino necessariamente in gioco fattori che la negano
come il controllo, la gerarchia e l’ambiguità nelle decisioni.
Nel quarto capitolo effettuo l’analisi e l’interpretazione dei dati, partendo
dagli strumenti metodologici utilizzati e le spiegazioni delle modifiche al
disegno di ricerca originario. Segue l’interpretazione delle interviste e
attraverso di queste la verifica delle ipotesi.
Nelle conclusioni ho creato due categorie di dipendenti, ipotizzando i
motivi per cui questi due gruppi si vengono a formare e come, di
conseguenza, contribuiscano diversamente al vantaggio competitivo di
questa azienda. L’altro punto su cui mi soffermo riguarda la capacità di
rigenerarsi di questa cultura organizzativa, ma anche una serie di
problematiche, emerse nel corso della ricerca, che rimangono irrisolte e che
potranno essere in seguito approfondite.
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CAPITOLO I
CULTURA, SIMBOLI E POTERE
IN UNA COMUNITA’ DI PRATICHE
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CULTURA, SIMBOLI E POTERE
IN UNA COMUNITA’ DI PRATICHE
1. Il costruttivismo
La ricerca che intendo svolgere si pone nell’ambito del paradigma
costruttivista con riferimenti alla tradizione fenomelogica, ermeneutica ed
etnometodologica. Tale prospettiva, che trova in Alfred Schutz uno dei suoi
più originali pensatori, inquadra la proposta di Peter Berger e Thomas
Luckmann (1966) circa la “realtà come costruzione sociale” e considera in
modo rilevante le nozioni di contesto e significato. Il fatto di appartenere a
tale organizzazione giustifica ancor più il riferimento a tale approccio, che
considera la realtà imprendibile e inesistente al di fuori di noi, in cui il
rapporto con la conoscenza è soggettivo e conduce a dei risultati della
ricerca creati intersoggettivamente e non oggettivi, fondamentalmente
mediante strumenti di tipo qualitativo.
Secondo i due studiosi di sociologia della conoscenza, i termini chiave di
questo approccio sono “realtà” e “conoscenza”; il primo definisce tutti quei
“fenomeni che noi riconosciamo come indipendenti dalla nostra volontà”, il
secondo “la certezza che i fenomeni sono reali e possiedono caratteristiche
precise”. Tuttavia, mentre l’uomo della strada dà per scontata la propria
realtà e la propria conoscenza, il sociologo, consapevole che gli uomini
della strada danno per scontate realtà molto diverse a seconda della società
cui appartengono, dovrà almeno chiedersi se le diverse realtà possono
essere spiegate attraverso le differenze tra le varie società. Realtà e
conoscenza sono, infatti, concetti impregnati di relatività sociale, particolari
“raggruppamenti di realtà e di conoscenza” appartengono a particolari
contesti sociali, e queste relazioni dovranno necessariamente essere incluse
in un’analisi adeguata di questi contesti, insieme all’analisi dei processi per
10
cui un qualsiasi complesso di conoscenze viene ad essere socialmente
stabilito come realtà. Il sociologo della conoscenza dovrà infatti analizzare
perché una determinata realtà viene data per scontata e si cristallizza, dando
così luogo alla “costruzione sociale della realtà”, mediante l’analisi di ciò
che l’uomo conosce come realtà nella vita quotidiana, mediante la
conoscenza del senso comune.
Rispetto alle organizzazioni, nel loro lavoro essi mettono in risalto
quanto sia personale e soggettiva la costruzione sociale di queste, e come
non sia solo il frutto di processi ispirati a razionalità, ad esplicite
deliberazioni e a complesse dinamiche decisionali, ma che riguardi sia gli
aspetti più impalpabili che quelli più visibili, come il potere, gli artefatti ed i
simboli che compongono il paesaggio dell’organizzazione (Gagliardi,
1990), nonché la costruzione delle stesse teorie organizzative che tentano di
spiegarla. Come cogliere quindi questa realtà e pervenire alla conoscenza?
Cosa è reale? Come si fa a saperlo?
A parere dei due studiosi il metodo più idoneo è costituito dall’analisi
fenomenologica della vita quotidiana, dall’analisi dell’esperienza soggettiva
della vita quotidiana, che si astiene da ogni ipotesi causale. Il senso comune
è frutto di numerose interpretazioni e se si intende descriverne la realtà
occorre fare riferimento a queste interpretazioni, così come si tiene conto
del carattere scontato della realtà data. Nella prospettiva della costruzione
sociale la conoscenza non riguarda solo l’organizzazione formale, i modi di
vedere e di pensare di chi occupa le posizioni chiave in essa, bensì “tutto
ciò che passa per conoscenza nella società”, quindi la struttura del mondo
della vita quotidiana, la distribuzione sociale della conoscenza, la
conoscenza del senso comune, perché “…è proprio questa conoscenza che
costituisce il tessuto di significati senza il quale nessuna società potrebbe
esistere”(Berger, Luckmann, 1966). Il mondo della vita quotidiana si
origina nel pensiero e nell’azione dell’uomo comune e grazie a questi
mantiene la sua realtà, per questo è fondamentale comprendere i fondamenti
11
della vita quotidiana, cioè le oggettivazioni dei processi e dei significati
soggettivi per mezzo dei quali il mondo intersoggettivo del senso comune
viene costruito.
2. Le organizzazioni come culture e il simbolismo organizzativo.
Poiché l’indagine riguarda un’unica realtà organizzativa si presenta come
un “caso di studio” il cui scopo è l’analisi dei processi attraverso il quale
tale realtà si dispiega e l’interpretazione del come e del perché all’interno
del suo specifico contesto. Il caso di studio non è una scelta metodologica
ma la scelta di un oggetto da studiare, pertanto può essere studiato in diversi
modi; come forma di ricerca è definita dall’interesse in casi individuali, e
non dai metodi utilizzati e pone l’attenzione su cosa di specifico può essere
appreso dal singolo caso. Il ricercatore deve studiare cosa è comune e cosa
è particolare, ma alla fine deve comunque risultare qualcosa di unico.
Questa unicità può riguardare:
• la natura del caso
• la sua storia
• l’assetto fisico
• i suoi contesti, economico, politico, legale ed estetico
• altri casi attraverso i quali questo è riconosciuto, quindi si distingue
• gli informatori attraverso i quali il caso può essere conosciuto.
Nella distinzione operata da R. Stake (1994), che individua tre tipi di casi
di studio, senz’altro appare più idoneo quello definito “intrinsic case
study”, che ha lo scopo di avere una migliore comprensione del singolo
caso attraverso ciò che è particolare e ciò che è ordinario e può condurre
alla ricostruzione della sua storia.
Tale tipo di indagine è possibile attraverso un approccio longitudinale
(Gherardi, Strati, 1988; Jones, 1983; Kimberley, Miles, 1980; Zan, 1984)
volto a ricostruire “la memoria collettiva delle idee, associazioni, eventi,
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azioni e pregiudizi che sono peculiari di ogni organizzazione”, attraverso lo
studio “delle tracce che gli eventi significativi lasciano nella memoria dei
membri dell’organizzazione, nella grammatica organizzativa e nelle
premesse decisionali”. In particolare la successione dei capi, le crisi
superate, la mobilitazione delle forze in momenti eccezionali rivivono come
“saghe” idealizzate nella memoria collettiva e rafforzano il senso di
appartenenza all’organizzazione, riproponendo il successo ottenuto nei
momenti critici del passato come modello di azione per il presente
(Pettigrew, Clark, 1986).
Alla domanda del perché di tanto successo intendo quindi rispondere
mediante un approccio che pone al centro la cultura organizzativa, ovvero
come gli individui costruiscono la propria realtà, sia individualmente che
collettivamente, per mezzo dell’azione intenzionale, ed i meccanismi che
portano alla (ri)produzione di una serie distintiva di orientamenti culturali
da parte dei membri dell’organizzazione. Intendo utilizzare una definizione
di cultura che vede l’organizzazione come un processo, ovvero come una
serie di azioni e decisioni orientate da un sistema di senso e di significati,
continuamente ridefinito dagli scambi relazionali tra gli attori, come
espressione creativa, unica ed irripetibile di quel gruppo sociale che
inconsapevolmente l’ha costruita e continua a mantenerla e a farla evolvere
in quanto comunità organizzata. La cultura quindi come fatto globale,
formata da codici solo in parte manifesti, da rituali, da aspettative
persistenti e interiorizzate, da convinzioni profonde e non sempre esplicite
(Bonazzi G., 1995).
Nella definizione di Schein (1985), la cultura organizzativa è “un
insieme strutturato di assunti di base – inventati, scoperti, sviluppati da un
dato gruppo nel momento in cui apprende ad interagire con i suoi problemi
di adattamento esterno e di integrazione interna – e che ha dimostrato di
funzionare sufficientemente bene da essere considerato valido e perciò
stesso da essere insegnato ai nuovi membri come il modo corretto di
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percepire, pensare e sentire in relazione a quei problemi”. Si tratta quindi di
una definizione di cultura come “prodotto appreso di una esperienza del
gruppo” ed è presente dove esista un gruppo stabile che attraverso un
processo di apprendimento organizzativo ha imparato a dare risposte ai
problemi. In questo contesto appare fondamentale il ruolo del fondatore, o
dei fondatori, “perché essendo stati loro ad avere l’idea originale, avranno
senz’altro una loro concezione, basata sulla loro storia culturale e sulla loro
personalità, di come realizzare la propria idea. In fondatori non solo hanno
una grande fiducia in loro stessi e una grande determinazione, ma hanno
anche, solitamente, degli assunti forti sulla natura del mondo, sul ruolo che
le organizzazioni svolgono al suo interno, sulla natura della natura umana e
dei rapporti umani, sul modo in cui si perviene alla realtà e sul modo di
gestire il tempo e lo spazio” (Schein, 1978, 1983).
Tale sistema di significati si esprime mediante forme simboliche ed
artefatti del processo produttivo ed è principalmente attraverso questi che si
può accedere alla sostanza della vita organizzativa (Gagliardi P., 1990) e ai
principi che la regolano: il rapporto che intrattiene con il proprio ambiente
competitivo, il proprio modo di percepirsi, la concezione dell’uomo ed i
relativi modelli d’azione, il modo in cui si perviene alla definizione di ciò
che va fatto e come va fatto, ciò che è giusto, bello e buono, la natura dei
rapporti interpersonali, le norme di comportamento, la concezione
dell’autorità e l’orientamento temporale.
Il simbolismo negli studi organizzativi pone al centro non tanto la
struttura dell’organizzazione, ma il continuo processo dell’organizzare,
ovvero tutto ciò che riguarda la creazione, la gestione e l’uso strategico del
patrimonio culturale e simbolico dell’organizzazione. La tesi dei simbolisti
è che nelle organizzazioni si devono esaminare soprattutto riti, cerimonie,
miti, leggende, saghe, drammaturgie, poiché questi elementi sono
fondamentali per comprendere i meccanismi che generano identità
collettive, senso di appartenenza e significati condivisi. Come scrivono
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Morgan, Pondy, Dandrigde e Frost (1983), in quello che si presenta come
una sorta di manifesto del simbolismo “i membri di un’organizzazione sono
in grado di usare il linguaggio, possono esibire intuizioni, produrre e
interpretare metafore, sono in grado di assegnare un significato ad eventi,
comportamenti ed oggetti, cercare un significato nella loro vita; in breve
possono agire simbolicamente. Questa capacità simbolica può essere
accresciuta dalla loro associazione in organizzazioni formali cosicché le
istituzioni sviluppano una storia, un comune punto di vista, e il bisogno di
elaborare tale complessità attraverso mezzi simbolici”.
Un’analisi organizzativa basata su una prospettiva simbolica induce
inevitabilmente all’utilizzo di una metodologia di tipo qualitativo, capace di
cogliere i caratteri propri di una cultura intesa come sistema contingente e
contestuale, unico ed irripetibile di significati impliciti, invisibili e profondi;
un’interpretazione della cultura che non può avvenire dal punto di vista del
ricercatore bensì da quello dei “nativi” (Geertz, 1973) entrando nella loro
pelle, cogliendo la realtà locale, imparando a vedere con i loro occhi, in
un’ottica locale, processuale e contestuale.
Bonazzi (1995) individua due utilizzi del simbolismo, uno ad uso
manageriale ed uno ad uso analitico. Il primo utilizzo si ha quando i
manager dell’organizzazione sono consapevoli dell’importanza degli aspetti
simbolici nella conduzione della stessa, quando sono coscienti della stretta
connessione esistente tra il successo economico dell’impresa e l’efficacia
dei suoi simboli. Ne discende una ridefinizione della figura del manager
come persona dotata di capacità carismatiche, consapevole di quanto di
emozionale, mitico e rituale vi è nell’organizzazione, un “manager
evangelista” come dice Weick (citato in Bonazzi, 1995), in grado di gestire
il patrimonio culturale e simbolico dell’impresa, scegliere i corsi di azione
più capaci di dare significato anche ai corsi d’azione dei suoi dipendenti.
L’enfasi è di nuovo posta, come già negli anni ’50 da parte di Selznick
(1957), sulla leadership capace di sviluppare consenso intorno ai corsi
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d’azione intrapresi, in altre parole è leader colui che riesce ad esprimere in
parole ciò che gli altri sentono ma non sono capaci di formulare.
L’altro uso che è possibile fare del simbolismo è più critico e analitico,
ovvero a scopi di ricerca ci si interroga sulle condizioni strutturali che
spiegano il ricorso al simbolico. Questi aspetti, studiati soprattutto da
Pfeffer e Salancik (1978), partono dal presupposto che ogni organizzazione
agisca prevalentemente rispetto ad una logica di ricerca di certezza
nell’acquisizione di risorse di origine esterna, questo perché riesce a
sopravvivere nella misura in cui riesce a condizionare l’ambiente che a sua
volta la condiziona. Ciò significa che il compito del management è fornire
significato e legittimazione a delle situazioni sostanziali che in larga misura
sfuggono al suo ambito di controllo, quindi maggiori sono i vincoli esterni
più importante diventa l’azione simbolica. Il manager che si trova di fronte
a forti vincoli potrà infatti elaborare una definizione della realtà che
favorisce mobilitazione, sacrifici, individuazione degli ostacoli e del
nemico; in fondo è nell’accorto utilizzo del simbolico che il potere si
manifesta. Da questo punto di vista assume particolare rilievo il concetto di
“espoused theory” (Argyris e Schon, 1974), con il quale ci si riferisce alla
cultura esposta e propagandata dal management, che non sempre coincide
con il vissuto dei singoli.
3. L’apprendimento nelle comunità di pratiche
Come detto all’inizio ciò che intendo analizzare sono i meccanismi di
riproduzione degli orientamenti culturali e tra questi intendo porre
particolare attenzione alla formazione delle risorse umane intesa come
“apprendimento organizzativo” (Argyris, Schon, 1974, 1978). Questa
strategia intende individuare “il processo con cui un sistema cooperativo
sviluppa le proprie teorie in azione”, le modifica nel tempo e produce così
“nuove teorie-in-uso”.