decenni a venire e,di conseguenza, tutti gli aspetti dell’economia e della società, comprese le
strutture politiche.
Nel 2007, con l’allargamento a 27 membri, la popolazione dell’Unione Europea ha superato i 485
milioni di individui; nel complesso i cittadini dell’Unione rappresentano circa il 7.2% della
popolazione mondiale, rendendo l’UE la terza entità politica del pianeta per numero di abitanti dopo
la Cina e l’India. Tuttavia, nel corso del Ventesimo secolo, la percentuale di popolazione che vive
nei paesi dell’attuale Unione è costantemente diminuita e, secondo le previsioni di tutti gli
organismi internazionali, continuerà a diminuire in futuro.
Le sfide che le società degli Stati membri dell’Unione europea devono prepararsi ad affrontare sono
molteplici: dalla contrazione del popolazione in età lavorativa, alla crescente pressione sui sistemi
pensionistici, fino all’aumento della domanda di care.
In quasi un quarto delle regioni d’Europa, la popolazione avrà già raggiunto il livello di crescita
zero prima della fine del secolo. Ben presto la nostra società sarà formata da una proporzione di
gran lunga maggiore di anziani rispetto ad un gruppo più ristretto di persone in età lavorativa. La
generazione più giovane, il gruppo di età 0-14 che rappresentava il 17,6% del totale nel 1995,
diminuirà al 15,7% nel 2015, con una perdita di quasi 5 milioni di unità. La generazione 15-29,
dalla quale provengono coloro che entrano nel mercato del lavoro, diminuirà in modo ancora più
rapido (-16% con una perdita di 13 milioni di unità).
Fra i gruppi degli anziani, avverrà esattamente l’opposto. La generazione 50-64 aumenterà di oltre
16 milioni di persone (26%), mentre la crescita dei cittadini in età pensionabile (65+) e dei più
vecchi (80+) si avvicinerà rispettivamente al 30% e al 40%. I cambiamenti nel gruppo 80+ saranno
più ampi e rapidi di quelli di qualsiasi altro gruppo di età.
Al tasso corrente di crescita (0.4%), l’Unione Europea avrebbe bisogno di 157 anni per raddoppiare
la sua popolazione relativa. La situazione varia ampiamente da paese a paese: all’interno
dell’Unione, se si mantenesse il tasso di crescita come appare al 2005, l’Irlanda e Cipro avrebbero
bisogno di tre decadi per accrescere la propria popolazione, la Spagna in 42 anni e la Lituania in un
secolo.
Tutti gli scenari proposti dall’Eurostat prevedono un progressivo invecchiamento della popolazione
complessiva dell’Unione Europea e un suo successivo decremento entro la prima metà del secolo;
in particolare a partire dal 2025 anche grazie al generale miglioramento delle condizioni di vita
della popolazione e ai progressi nel campo sanitario, la speranza di vita dell’UE va oggi dai 74 ai 76
anni di età per gli uomini e dai 70 agli 81 per le donne, pur con significative differenze tra i cittadini
della vecchia Unione a 15 (uomini:73-78; donne:79-83) e quelli dei 10 nuovi membri (uomini:65-
72; donne: 76-80).
Nel complesso comunque l’aspettativa di vita generale dovrebbe arrivare ad essere, nel 2050, di 78-
82 anni per gli uomini e 83-85 anni per le donne.
Le proiezioni dell’Eurostat mostrano inoltre che - con il progressivo invecchiamento della
generazione del dopoguerra (baby-boom) – il numero di anziani aumenterà in modo costante in tutta
l’ Unione, sia in valore assoluto che relativo. Gli ultra 65enni, in particolare, passeranno dai 75
milioni del 2004 ad oltre 134 milioni nel 2050, mentre le persone con più di 80 anni da 18 milioni
ad oltre 50 milioni. Tra meno di mezzo secolo gli anziani aumenteranno di 8,6 milioni di unità in
Germania, 8,1 in Francia e Spagna e 7,4 in Italia.
A fronte di questo fenomeno, i livelli di fertilità dell’UE continueranno a restare al di sotto del
livello di 2,1 figli per donna necessario per mantenere la popolazione costante. La Francia (1,88), i
Paesi Bassi (1,73) ed alcuni paesi nordici costituiscono le principali eccezioni ai tassi medi
dell’Unione, che ormai da 10 anni sono inferiori di circa il 30% rispetto al tasso di sostituzione.
L’effetto combinato di elevate aspettative di vita e bassi tassi di fertilità porterà ad un graduale
mutamento della struttura per età della popolazione, che si è già da tempo allontanata dalla forma
piramidale degli anni ’50, quando a un elevato numero di giovani si contrapponeva una popolazione
anziana relativamente minore.
Quasi tutti i paesi europei vedranno un progressivo aumento del tasso di dipendenza, ossia del
numero di anziani(65 anni e più) in rapporto alla popolazione in età da lavoro (15-64 anni). Nel
2004 la media UE era del 25%; con i valori più elevati in Italia (28,9%), Germania (26,7%), Grecia
(26,4%), Svezia (26,5%) e Belgio(26,1%), e quelli più bassi in Irlanda e Slovacchia (16,3% e 16,2%
rispettivamente).
Nel 2050 il valore medio di questo indicatore raddoppierà, fino a superare quota 50%. In altri
termini, mentre nel 2004 per ogni persona anziana ce n’erano 4 in età da lavoro, nel 2050 ce ne
saranno solo 2.
Un rapido e drastico cambiamento dei tassi di fertilità ( o delle aspettative di vita) è visto come
altamente improbabile da gran parte degli studiosi e l’unica vera variabile in gioco nello scenario
demografico europeo sembrano essere le migrazioni internazionali.
Nonostante la migrazione netta di quasi 40 milioni di individui prevista nello scenario base
dell’Eurostat, nel 2050 la popolazione totale dell’UE si sarà comunque ridotta di 7 milioni di
persone e quella in età da lavoro di 52 milioni. In valori assoluti, il saldo totale più negativo si
registrerà in Germania (-8,3 milioni), seguita da Italia (-5,5 milioni) e Polonia (4,7 milioni); saldo
positivo, invece, per Francia (+5,7) e Regno Unito (+4,6).
In termini relativi, il calo maggiore della popolazione dovrebbe aver luogo nella Repubblica Ceca (-
13%), in Slovacchia (-12%), in Polonia (-11,9%) e nelle Repubbliche Baltiche, mentre l’incremento
più elevato si avrà in Lussemburgo (+42,3%), Irlanda (+36%) e Cipro (+33,5%); a fronte di un
decremento complessivo dell’Unione dell’1,5%. Per garantire una popolazione e dei tassi di
dipendenza costanti i flussi migratori dovrebbero essere enormemente maggiori di quelli previsti
dalle stime Eurostat.
Nel caso dell’Italia lo scenario delineato dalla proiezioni Eurostat appare ancora più accentuato che
nella media dei paesi dell’Unione. Nell’arco del prossimo mezzo secolo, la popolazione Italiana
dovrebbe diminuire di circa 5.5 milioni di abitanti: -9.5%, ben 7.6 punti percentuali al di sotto della
media dell’Unione Europea.
Spunti interessanti in questo senso sono offerti dal “Bilancio Demografico 2005” diffuso
dall’ISTAT nell’estate 2006. Il bilancio è determinato a partire dalla popolazione rilevata al
censimento del 2001, cui vengono aggiunti i dati relativi al movimento naturale e saldo migratorio.
In base ai calcoli dell’Istituto Nazionale di Statistica, la popolazione complessiva italiana alla fine
del 2005 ammontava a 58.751.711 unità, con un incremento di 289.336 residenti rispetto al 2004
(+0.5%).
Il tasso di fecondità italiano, secondo i dati ISTAT, nel 2005 è stato in media di 1.32 figli per
donna. Tuttavia nell’ultimo decennio, dopo aver toccato il minimo storico di 1.19 nel 1995, i livelli
di fecondità italiana stanno registrando una certa ripresa, dovuta per circa la metà alle nascite da
madri straniere. Nel 2004 le donne italiane hanno avuto in media 1.26 figli, mentre quelle straniere
ne hanno avuti più del doppio: 2.61. I livelli di fecondità delle straniere residenti – al contrario delle
italiane – è più elevata nelle regioni del Nord Ovest e del Nord Est (rispettivamente 2.74 e 2.84 figli
tra le donne immigrate contro 1.18 e 1.19 figli tra le italiane).
A questo mutamento dei tassi di fecondità fa riscontro un moderato aumento della natalità .
Nel complesso il numero di bambini nel corso del 2005 (554.022) è comunque leggermente
inferiore a quello registrato nel 2004 (562.599) ed è ampliamente superato dal numero dei morti
(567.304), portando al saldo naturale negativo citato in precedenza. Va peraltro osservato come il
tasso di mortalità, dopo due anni caratterizzati da un andamento anomalo (eccessivamente elevato
nel 2003, a causa del forte caldo estivo, e poi particolarmente basso nel 2004, per un effetto di
recupero), sia tornato in linea con l’andamento del periodo precedente.
Il processo d’ invecchiamento della popolazione influisce sui livelli della spesa sociale e sulle
diverse funzioni che la compongono.
Le riforme attuate nei vari paesi europei hanno in parte seguito le raccomandazioni espresse a
livello comunitario, e per alcuni aspetti ciò ha condotto a una maggiore uniformità di alcuni istituti:
l’elevamento dell’età legale di pensionamento e di quella effettiva costituisce un esempio. Tuttavia
rimangono caratteri distintivi e diversità di struttura nei modelli di welfare dei diversi paese
membri.
Le risorse complessivamente devolute a scopi sociali rappresentano, nel 2004 e nella media dei
paesi europei, il 27,3% del PIL. Scorporando i costi amministrativi e le altre spese residuali, pari
all’1% del PIL, si ottengono le prestazioni sociali effettivamente trasferite alla popolazione, la cui
incidenza sul PIL scende al 26,2%.
Nell’ambito dei singoli paesi, emerge un’ampia variabilità nei livelli di spesa. Nell’UE-15, la spesa
sociale, in rapporta al PIL, si colloca nel 2004 al 27,6% se consideriamo la media ponderata e al
26,7% in base alla media semplice; i corrispondenti valori delle prestazioni sociali sono il 26,6% e
il 25,7%.
Quanto ai “nuovi” dieci paesi, l’incidenza media della spesa sul PIL, calcolata dal 2000, si mantiene
pressoché costante su valori fra li 17,4% e il 17,7%. Al loro interno, pur non disponendo di dati
precedenti, la Repubblica Ceca, Malta, Cipro e la Polonia registrano un aumento della spesa sul
PIL.
Inoltre la composizione della spesa sociale per funzioni mostra un’elevata eterogeneità.
Nella media dei paesi europei le voci di spesa più consistenti risultano quelle per vecchiaia e per
sanità: in termini di PIL, la vecchiaia si colloca al 10,8% e la sanità al 7,4%; in termini di risorse
complessivamente destinate a scopi sociali, queste due funzioni rappresentano rispettivamente
41,4% e il 28.3% , senza differenze di rilievo fra il gruppo dei “quindici” e quello dei paesi
dell’allargamento.
Volgendo l’attenzione ai “nuovi” dieci paesi, l’esame della composizione della spesa sociale
consente di evidenziare alcune differenze rispetto ai “quindici”.
Per la funzione vecchiaia, in percentuale della spesa sociale, essi registrano in media livelli
lievemente superiori ai “quindici”, oscillando fra il 36,6% dell’Ungheria e il 55,3% della Polonia
(tabella 3.2.2.4).
Per le funzioni invalidità, sanità e sostegno alla famiglia, i “nuovi” dieci paesi registrano
mediamente valori in linea con gli altri paesi membri. Le voci per le quali i paesi dell’allargamento
registrano valori più bassi, meno alcune eccezioni, sono la funzione superstiti, disoccupazione e
abitazione.
Bisogna segnalare la presenza di prassi non omogenee di contabilizzazione. I piani pensionistici
privati individuali, ad esempio, non vengono considerati sempre e per tutti i paesi nella rilevazione
Eurostat, che invece dovrebbe includerli in base al criterio adottato di monitorare, unitamente alla
componente pubblica di spesa, anche quella privata. Questa circostanza porta a sottostimare i livelli
di spesa dei paesi anglosassoni, dove tali forme di risparmio sono molto diffuse.
Un altro elemento che può inficiare i confronti attiene al fatto che le prestazioni sociali sono
considerate al lordo del prelievo fiscale prelevato a vario titolo su di esse.
Infine, è da sottolineare un altro aspetto di carattere più generale, ma non meno rilevante dei
precedenti, cioè l’esistenza di un’elevata sostituibilità fra i vari tipi di strumenti, come ad esempio
fra gli interventi di vecchiaia e superstiti, da un lato, e le funzioni per invalidità e disoccupazione,
dall’altro.
I modelli di welfare state si differenziano fra loro non solo sotto l’aspetto delle prestazioni e delle
relative modalità di calcolo, ma anche per le diverse caratteristiche delle fonti di finanziamento
della spesa sociale.
I sistemi di tipo assicurativo, caratterizzati da prestazioni legate all’attività lavorativa – calcolate
cioè sulle base della durata del periodo lavorativo e dei redditi percepiti – si finanziano
principalmente mediante il versamento dei contributi sociali prelevati sui redditi da lavoro. Nei
sistemi di tipo universalistico, con prestazioni di importo fisso (flat rate) e non legate all’attività
lavorativa, la fonte di finanziamento prevalente è invece costituita dalla fiscalità generale.
Nell’effettiva configurazione dei sistemi di welfare state, ciascun sistema presenta elementi dell’uno
e dell’altro sistema e, anche per quanto riguarda il finanziamento, si osserva in via generale una
combinazione di versamenti contributivi e di ricorso alla fiscalità generale.
Nella media europea, le risorse raccolte mediante il versamento dei contributi sociali rappresentano
la principale fonte di finanziamento, costituendo nel 2004 una quota pari a circa il 60% del totale
delle risorse; l’apporto della fiscalità si colloca invece al 37%. Gli unici paesi in cui prevale il
finanziamento mediante il canale fiscale, sono la Danimarca ,l’Irlanda e Cipro.
Quanto alla composizione degli oneri sociali, in via generale, la componente principale è quella a
carico del datore di lavoro, che rappresenta nella media dei paesi europei il 65% dei contributi
totali. In Italia, insieme a Belgio, Francia, Spagna, Finlandia e Svezia, il peso dei contributi sociali a
carico dell’azienda è nettamente prevalente.
Ciò detto, l'invecchiamento demografico dovrebbe comportare, a politiche correnti, un incremento
della spesa pubblica nella maggior parte dei paesi membri entro il 2050, benché sussista un'ampia
diversità tra i paesi.
In base alle proiezioni, la spesa pensionistica pubblica dovrebbe aumentare in tutti i paesi membri
dell'UE15 , fatta eccezione per l'Austria che ha avviato delle riforme nel settore a partire dal 2000.
Considerando anche i nuovi paesi membri, tra il 2004 ed il 2030, la spesa pensionistica pubblica
dovrebbe diminuire di 1 punto percentuale del PIL, per poi aumentare di 1,3 punti percentuali,
determinando un incremento medio complessivo dello 0,3% del PIL tra il 2004 ed il 2050.
Per quanto riguarda la spesa sanitaria pubblica risulta difficile effettuare della proiezioni di lungo
periodo. Vi è incertezza in merito alle future tendenze dei principali fattori trainanti della spesa, la
disponibilità di dati confrontabili è limitata e la metodologia utilizzata per le proiezioni che
prendono in considerazione diversi paesi è alquanto meccanica e non riflette il contesto istituzionale
dell'erogazione dei servizi sanitari di ciascuno Stato membro.
In base allo "scenario di riferimento AWG"), la spesa sanitaria pubblica dovrebbe aumentare di 1,5-
2 punti percentuali del PIL nella maggior parte degli Stati membri fino al 2050. ). Sebbene il fattore
causale della spesa sanitaria non sia l'età (ma piuttosto la condizione di salute di una persona), le
proiezioni evidenziano come il semplice effetto dell'invecchiamento demografico potrebbe
alimentare un aumento della spesa pubblica.
Bisogna inoltre considerare che l’invecchiamento della popolazione avrà un forte impatto sulla
spesa pubblica destinata all’assistenza di lunga durata. Questo perché, con l'avanzare dell'età,
aumentano notevolmente le infermità e le disabilità, in particolare tra gli individui molto anziani
(ultraottantenni) che rappresentano la fascia di popolazione destinata a crescere più rapidamente nei
prossimi decenni. si prevede che la spesa pubblica per l'assistenza di lunga durata aumenti dello 0,5-
1% del PIL tra il 2004 e il 2050.
Di fronte a questi scenari i governi si sono dimostrati poco decisi o del tutto inefficaci nel proporre
misure impopolari ma essenziali per riequilibrare il rapporto tra produzione e consumo delle risorse.
Inoltre a partire dal 2010, con il pensionamento della generazione del baby-boom e l'aumento
continuo della speranza di vita, si dimezzerà da quattro a due il rapporto tra le persone in età
lavorativa e ognuna di quelle anziane. Perciò già nel 2030 il tasso di crescita dell'UE potrà ridursi
alla metà e le finanze pubbliche dovranno sostenere l'aumento delle spese per pensioni, salute e cure
di lunga durata. È necessario quindi intensificare le riforme per contenere i costi
dell'invecchiamento, prima che i loro effetti si facciano sentire pesantemente e i
cambiamenti necessari diventino più dolorosi.