INTRODUZIONE
“ E’ come essere un uovo di gallina e voler essere sempre il
guscio. È un bel guscio, ha un bell’aspetto, perché non essere un
guscio d’uovo per sempre? Supponiamo che nel corso dello
sviluppo l’uovo cominci a schiudersi; più la persona si identifica
col guscio e più sente che sta accadendo qualcosa di terribile
perché il guscio si sta rompendo ed essa non conosce il pulcino”
(Bion, a proposito di come si può sentire un adolescente)
La mia esperienza clinica in questi anni si è concentrata sull‟età evolutiva,
avendo svolto il tirocinio di Specializzazione presso l‟Ospedale Pediatrico Bambino
Gesù di Roma. L‟esperienza più significativa, nello specifico, è stata quella nel Reparto
di Degenza dell‟Unità Operativa di Neuropsichiatria Infantile dove ho avuto modo di
incontrare soprattutto adolescenti in momenti di “crisi acuta”. Nella maggior parte dei
casi, si tratta di un momento drammatico che segna un passaggio decisivo verso il
cambiamento. Le difficoltà legate alla fase del ciclo di vita attraversata da questi giovani
pazienti si uniscono quasi sempre a importanti problematiche familiari oltre che a
fragilità personali.
Ritrovare un nuovo equilibrio diventa fondamentale ed è sorprendente vedere
come in alcuni casi basti poco per attivare un cambiamento o riavviare un processo
momentaneamente interrotto. Altre situazioni sono più complesse, richiedono tempi più
lunghi e impegnano maggiormente i clinici nel trovare nuove strategie e nuovi modi di
entrare in relazione con questi ragazzi per poterli aiutare a ritrovare il senso di identità
perduto o almeno per intravedere la possibilità di un‟evoluzione positiva della
situazione.
Il cambiamento, quindi, è il tema su cui ho deciso di riflettere anche perché in
fondo questo risulta essere l‟obiettivo ultimo trasversale a tutti gli interventi
psicologico-clinici, al di là degli approcci e degli orientamenti teorici. Inoltre mi
interessava approfondire il tema anche alla luce della riflessione continua che come
psicologi clinici siamo chiamati a fare sulle modalità attraverso le quali possiamo
attivare o meno il cambiamento, per monitorare e verificare il nostro operato.
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Per chiarire cosa intendo col termine “intervento psicologico-clinico”, mi
rifaccio ad alcune riflessioni sul termine "clinica" (Guerra, 1997). Tale termine si
riferisce al malato steso sul letto da un lato, all'atto del chinarsi su qualcuno, per
rispondere alla sua domanda, dall'altro. E' al chinarsi, quale atto di intervento, che per
lunghi anni si è rivolta l‟attenzione e la ricerca in Psicologia Clinica. Un atto, quello del
chinarsi e dell'intervenire, che le scienze umane (sociologia, economia, antropologia)
hanno spesso messo da parte, per privilegiare la funzione di conoscenza, riservando
l'eventuale intervento, entro la realtà conosciuta e descritta con proprie categorie e
propri modelli, alla Medicina, di cui si sono fatte consulenti.
La Psicologia Clinica, però, promuove l'idea che tale disciplina possa assumere
non solo una funzione di studio e di descrizione della realtà, ma anche un ruolo di
“intervento per il cambiamento” della stessa realtà, dunque non corrisponde
necessariamente alla cura della psicopatologia, ma raccoglie tutti gli interventi che
mirano ad un miglior adattamento della persona al suo contesto di appartenenza, dove
diventa essenziale come linea guida l‟individuazione delle risorse e dei limiti presenti
per lo sviluppo nel suo ambiente di vita (Carli, Paniccia 2003).
Il modello teorico di riferimento per questo lavoro è stato soprattutto quello
psicodinamico, con qualche “contaminazione” sistemica (per es. Watzlawick) e
cognitivista (per es. Bara). Spesso utilizzerò il termine “terapeuta” o “clinico” per
indicare quello che potrei definire “il professionista della psiche all‟opera”, pensando in
particolare allo psicologo clinico, ma a partire dalle riflessioni elaborate soprattutto in
ambito psicoanalitico, e quindi pensate per gli psicoanalisti e per gli psichiatri-
psicoanalisti (specie quando si parla dell‟intervento in regime di ricovero), considerando
come trasversali le funzioni descritte.
Nella prima parte del lavoro le domande a cui ho cercato di rispondere sono state
“che cosa si intende per cambiamento psichico” e “come si realizza il cambiamento”. In
particolare, nel primo capitolo mi occupo di cosa si intenda per cambiamento, provando
a esplorare l‟evoluzione del concetto all‟interno di diversi approcci teorici, soprattutto in
ambito psicoterapeutico, mentre nel secondo capitolo affronto la questione dei fattori
terapeutici, all‟interno di un dibattito sempre aperto sul peso di tali fattori nel
determinare il cambiamento.
Nella seconda parte dell‟elaborato, entro più nello specifico della mia
esperienza, affrontando la questione del cambiamento e della crisi adolescenziale,
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passando poi all‟intervento clinico rispetto alle “rotture” in adolescenza, in particolare al
ricovero psichiatrico in questa fascia d‟età e alla mia esperienza clinica.
Ho scelto di presentare due casi clinici che ho ritenuto potessero essere
esemplificativi di due diversi esiti possibili, ma entrambi significati e apportatori di
riflessioni sul cambiamento e sulle resistenze al cambiamento.
Il primo paziente, Ivan, mi ha permesso di essere testimone di un cambiamento
in senso positivo, o meglio dell‟elaborazione dolorosa sottesa al processo, ma
condividendo anche, oltre alla paura, l‟entusiasmo per le nuove possibilità ora pensabili
per la propria vita.
La seconda paziente, Antonietta, mi ha fatto vivere l‟impotenza di fronte
all‟attaccamento al proprio precario equilibrio, anche a costo della rinuncia, in un certo
senso, alla propria esistenza e la difficoltà di aprire anche solo uno spiraglio a nuove
immagini di sé e del mondo in grado di motivarla alla vita e alla ripresa del suo
processo di sviluppo.
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CAPITOLO 1
Il cambiamento psichico
1.1 Alcune considerazioni sul cambiamento
L‟intera impresa della psicoterapia, e della psicologia clinica in generale, è
centrata sull'idea di cambiamento, che a sua volta si delinea rispetto alla distinzione fra
elementi invarianti e varianti della persona e alle modalità con cui gli elementi varianti
possono modificarsi.
I clinici si sono occupati professionalmente del cambiamento nei loro pazienti,
osservando migliaia di casi e avanzando ipotesi interessanti. E‟ però una questione
chiave anche per i ricercatori. Questi solitamente, nell‟analizzare qual è il cambiamento
che si persegue, distinguono fra “obiettivi di esito” e “obiettivi di processo”, dove la
prima espressione si riferisce all‟obiettivo strategico complessivo della terapia (che cosa
cambia) e la seconda agli obiettivi seduta per seduta (come avviene il cambiamento).
Gli obiettivi di esito possono essere molto diversi, a seconda delle teorie di riferimento,
includendo, per esempio, la capacità di costituire relazioni intime meno problematiche,
la riduzione sintomatica, la maturazione della personalità, l‟aumento dell‟autonomia, la
riduzione della dipendenza dei servizi medici, un rafforzato senso di libertà interna e di
identità, etc. Gli obiettivi di processo, d‟altra parte, si riferiscono ai mezzi tecnici
ritenuti necessari per raggiungere tali fini. Nella psicoterapia psicoanalitica, questi
possono includere la formazione di un‟alleanza di lavoro, il mantenimento dei confini, il
setting, le interpretazioni di transfert, la capacità di elaborare e affrontare la conclusione
della terapia.
Secondo Betty Joseph (1989) il modo in cui usiamo il termine “cambiamento
psichico” presenta alcune ambiguità. A volte viene usato per indicare qualsiasi tipo di
mutamento dello stato mentale o nel funzionamento dei pazienti; altre volte viene
impiegato per indicare un tipo di cambiamento più a lungo termine, durevole e
auspicabile. Una delle questioni principali è che il cambiamento psichico non è soltanto
un fine, uno stato finale, ma si verifica continuamente nell'analisi e l‟autrice suggerisce
che gli analisti dovrebbero essere in grado di trovare e seguire nei pazienti i
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cambiamenti momento per momento, senza preoccuparsi se siano positivi o se siano
segni di progresso o di ritiro, ma considerandoli come il particolare metodo individuale
del paziente per affrontare le sue angosce e le sue relazioni nel modo che gli è peculiare.
I pazienti richiedono un intervento psicologico perché sono insoddisfatti del
modo in cui vanno le cose e vogliono cambiare o vogliono che le cose cambino. È
presente un desiderio di cambiamento e una spinta verso una maggiore integrazione, ma
è anche presente una paura del cambiamento. Betty Joseph sostiene che inconsciamente
i pazienti sanno che il cambiamento di cui vanno in cerca implica uno spostamento
interno di forze, un turbamento di un equilibrio mentale stabilito di sentimenti, impulsi,
difese e figure interne, che è riflesso nel loro comportamento nel mondo esterno. Questo
equilibrio è mantenuto tramite elementi interconnessi in modo molto stretto e sottile e
un disturbo in una parte si riflette necessariamente su tutta la personalità. I pazienti
inconsciamente lo avvertono e tendono perciò a sentire tutto il processo analitico come
potenzialmente minaccioso. L'interconnessione delle difese è così sottile che
modificazioni in un'area provocano sempre necessariamente disturbi in un'altra e una
parte fondamentale del raggiungimento del cambiamento psichico sta nel tentativo di
districare all'interno dell'analisi i diversi strati e le diverse interconnessioni, in modo che
possano essere rivissuti e portati allo scoperto nel transfert. Non si tratta di uno stato
raggiunto in senso assoluto, ma piuttosto un equilibrio di forze migliore e più sano
all'interno della personalità, sempre, in qualche misura, in uno stato di flusso, di
movimento e di conflitto.
Le esperienze originali, tanto gli eventi traumatici che le condizioni traumatiche,
non si modificano, restano le stesse, ma in quanto diventate più pienamente note,
vengono processate diversamente e i loro effetti si modificano. I significati degli eventi
non restano gli stessi. La visione che il paziente ha del proprio Sé, delle proprie attività
e capacità intrapsichiche e degli effetti e dei potenziali delle proprie interazioni con gli
altri, va incontro ad una trasformazione. Quanto meno si costituisce una
rappresentazione modificata e rafforzata del Sè all‟interno di un Io più sicuro e
competente.
L‟intervento clinico è rivolto alla cura, ma in quanto cura psicologica non segue
la logica medica della remissione sintomatica. Pone al centro del procedimento
terapeutico l‟attivazione di processi psicologici di tipo cognitivo e affettivo come
strumenti di cura o meglio come “obiettivi processuali”. In un‟ottica psicodinamica
moderna, il cambiamento viene considerato come una graduale evoluzione del
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complesso delle “soluzioni” adattive per portare il paziente ad abbandonare le
precedenti soluzioni e a elaborare modi alternativi di affrontare i conflitti (Dazzi, De
Coro, 2001).
Quello di cui si parla è evidentemente il cambiamento migliorativo, quello cioè
che aumenta il benessere della persona o meglio, la percezione soggettiva di benessere.
Bara rileva che la nostra cultura è così attenta alla patologia da aver privilegiato la
medicina, sia del corpo che della mente, essenzialmente curativa, impegnata a
riconquistare la normalità perduta. L'idea di spingersi verso il benessere ribalta l'enfasi
patologica, per sottolineare l'importanza di andare dalla normalità all'eccellenza, verso
un funzionamento ottimale (Bara, 2007).
A giudicare se un cambiamento possa considerarsi migliorativo, è l'individuo
nella sua soggettività, purché privo di deficit metacognitivi e in un fluido interscambio
con il proprio ambiente sociale. La persona non cambia da sola, ma all'interno di un
significativo legame con le figure di riferimento con cui è in relazione: può quindi
avvalersi di una sorta di mente allargata a cui riferirsi per valutare il proprio sforzo e la
direzione in cui sta procedendo.
Dazzi e De Coro (2001) indicano, inoltre, che la definizione teorica del
benessere psicologico si sposta dal piano dei contenuti, per esempio l‟accessibilità alla
coscienza di specifici ricordi o percezioni, al piano delle funzioni, come la flessibilità
delle modalità di pensiero e delle reazioni affettive in circostanze diverse. Ciò implica
che l‟obiettivo terapeutico non sia più definibile come un punto di arrivo, ma venga
descritto in termini “processuali” considerando, per esempio: la capacità di monitorare i
propri pensieri tenendo presente almeno due punti di vista; una riorganizzazione delle
modalità di regolazione affettiva che consenta di attenuare le conseguenze soggettive di
situazioni stressanti; l‟attivazione di nuove risorse e di una maggiore flessibilità nelle
strategie di relazione interpersonale; la mobilitazione di creatività e di progettualità
vitali.
Secondo Bara (2007) il compito essenziale del terapeuta è far percepire al
paziente la possibilità di abbandonare tutte le incrostazioni successive per affrontare in
modo “pulito” il dolore di base. Quel che non è possibile cancellare è la ferita
originaria, ma il compito del terapeuta è, secondo l‟autore, separarla dalle successive
complicazioni, liberare il paziente da queste ultime e permettergli di accettare la ferita
iniziale o talvolta addirittura di farla rimarginare e quindi di renderla non più dolente,
anche se mantenuta nel ricordo. La rinuncia consapevole del terapeuta al desiderio di
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agire il cambiamento sull‟altro permette di acquistare l‟efficacia sufficiente ad
accompagnare il paziente nel suo percorso soggettivo di comprensione, accettazione e
modifica. Il cammino verso la conoscenza di sé che il paziente percorre assieme al
terapeuta dovrebbe metterlo in grado di comprendere in modo più approfondito la
propria storia e i propri bisogni: è lui stesso poi che deve decidere quali obiettivi darsi
ed è tale libertà decisionale il massimo risultato cui un terapeuta può attendere. Il
terapeuta deve assicurarsi che il paziente sia in grado di monitorare sé nel mondo e che
disponga di un adeguato livello di metacognizione. L'obiettivo del professionista del
cambiamento, secondo Bara, consiste nell'ampliare i gradi di libertà che la vita ha
concesso al paziente, senza interferire con le conseguenze interne ed esterne che
derivano da tale ampliamento. Il terapeuta lavora per togliere la rigidità
comportamentale caratteristica della patologia, cercando di restituire l'elasticità di
interazione caratteristica di un buon equilibrio interno.
Watslawick (1980) mette in evidenza che non esistono soluzioni perfette
raggiunte una volta per sempre, i problemi possono ripresentarsi e la vita è un continuo
processo di adattamento che, avvicinandosi il più possibile alla perfezione non è mai
completo, dura tutta una vita, già solo per il fatto che lo scenario cambia
ininterrottamente. Il raggiungimento della capacità di vivere con la sofferenza e di
venire bene o male a capo dei problemi che di volta in volta si presentano, il successo
nel trattare problemi, può essere l'obiettivo di una terapia consapevole delle proprie
responsabilità.
Definire il cambiamento, in definitiva, non è una questione scontata e chiama in
causa anche i modelli culturali del terapeuta e del contesto di appartenenza, col rischio
di condizionare il paziente. Va quindi prestata grande attenzione a questi fattori e
soprattutto alla soggettività del protagonista del cambiamento e a quali siano per lui le
direttrici più utili ad aumentare il benessere.
1.2 Il cambiamento nella psicoanalisi classica
Al primo apparire dei concetti psicoanalitici, l‟obiettivo dell‟analisi era quello
dell‟eliminazione dei sintomi. Il modello era quello dell‟intervento medico rispetto alla
sofferenze del paziente. Si iniziava allora a considerare i disturbi mentali come una
patologia che aveva un‟origine psicogena. Da Charcot a Freud, nasceva la possibilità
che le malattie venissero prodotte dalle idee. Lo scopo del trattamento era
l‟eliminazione dei sintomi della malattia mentale, con la nuova comprensione che ne
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riconosceva le origini nell‟inconscio. Il cambiamento veniva ricercato nello stato
mentale inconscio che era considerato il terreno potenziale per la psicopatologia anche
prima della comparsa dei sintomi. Man mano che la comprensione psicodinamica si
estendeva alla costituzione del carattere, la terapia psicoanalitica divenne uno strumento
per modificarne la struttura (Horowitz, 1998).
Centrali tanto per la genesi della nevrosi che per la formazione del carattere
erano le soluzioni nevrotiche di conflitti intrapsichici altrimenti insolubili, determinate
dall‟Io. Queste si delineavano sia come formazioni di compromesso egodistoniche, sia
come tratti di carattere, anch‟essi formazioni di compromesso, ma egosintonici piuttosto
che percepiti soggettivamente dall‟Io come alieni. Il procedimento psicoanalitico si
rivolgeva, al di là dei derivati sintomatici, all‟incapacità dell‟Io di risolvere tali conflitti
senza ricorrere come soluzioni a formazioni patologiche. Il cambiamento psicoanalitico
venne a essere associato ed infine equiparato al cambiamento strutturale. Questo, di
fatto, finì col rappresentare il segno distintivo della terapia psicoanalitica e venne di
regola considerato come ciò che differenziava il cambiamento prodotto dalla
psicoanalisi da quello derivato da altre forme di psicoterapia (Rangell, 1998).
Widlöcher (1970) propone di suddividere l'evoluzione del problema concernente
il cambiamento nell'opera di Freud in tre fasi: il modello iniziale affida la
trasformazione del sintomo alla rappresentazione; un secondo modello pone l'accento
sullo spostamento dell'investimento libidico, introducendo la nozione di fantasma
inconscio e sottolinea l'importanza del vertice economico; un terzo modello considera
l'organizzazione tripartita dell'apparato psichico e correla il cambiamento con una
modificazione strutturale della personalità.
Le citazioni classiche sul cambiamento risalgono a momenti distinti nello
sviluppo della teoria psicoanalitica, passando dall‟iniziale considerazione che l‟analisi
produce i cambiamenti desiderati ” rendendo conscio l‟inconscio” (1917), risalente allo
stadio topografico dello sviluppo della teoria, arrivando a quella corrisponde alla
formula strutturale “dove era l‟Es deve subentrare l‟Io” (1932). Prima di queste teorie
esplicative, c‟era il tema della terapia catartica realizzata attraverso la scarica della
tensione istintuale (Freud e Breuer, 1893-1895).
La prima teoria del cambiamento delineata da Freud considerava l‟emergenza
nella coscienza di desideri e ricordi prima repressi come il principale fattore terapeutico.
Il fenomeno fondamentale consisteva nel riportare alla memoria eventi traumatici e ciò
avrebbe prodotto l‟attenuazione dei sintomi (Freud e Breuer, 1895). Questa teoria
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faceva riferimento al modello topografico, in base al quale l‟attività della mente doveva
considerarsi ripartita nei livelli di attività inconscio, preconscio e conscio. L'equazione
fondamentale costituiva l'unità del cambiamento e si fondava su una sostituzione di
rappresentazioni: a quella che è mantenuta rimossa corrisponde nel sistema preconscio-
cosciente una rappresentazione che può dare origine ad un comportamento o ad un
affetto il cui senso non si può comprendere se non in riferimento alla rappresentazione
rimossa. Secondo Freud (1937), l'intento del lavoro analitico è quello di far sì che il
paziente rinunci alle rimozioni che risalgono al suo antico sviluppo e le sostituisca con
reazioni tali da poter corrispondere a uno stato di maturità psichica. L'interpretazione
dell'analista rimane l'elemento fondamentale perché ciò avvenga. Quindi il fine ultimo
del lavoro psicoanalitico classico può essere considerato una ristrutturazione della
mente che consenta un più libero investimento pulsionale sugli oggetti nuovi del campo
percettivo, sia interni che esterni, evitando la ripetitività mortificante della condizione
nevrotica. L'obiettivo del processo psicoanalitico risultava più chiaro nelle prime
formulazioni di Freud: nell‟equazione fondamentale si poteva individuare una
reversibilità coerente tra equazione eziologica, cioè il sintomo che si sostituisce al
ricordo, ed equazione terapeutica, il ricordo che prende il posto del sintomo. La
rimemorizzazione non ha soltanto un valore conoscitivo, ma soprattutto di
trasformazione dell'apparato psichico. Nell'evoluzione ulteriore della teoria le cose si
complicano. Se in una prima ipotesi Freud definisce l'apparato psichico come un
sistema omeostatico le cui strutture possono essere modificate per effetto di interventi
esterni (setting analitico ed interpretazioni dell'analista), in una seconda ipotesi si
postula l'esistenza di un'attività autonoma che sfugga al principio di omeostasi e che ha
un potere di destrutturazione nei confronti dell'apparato psichico. Quest'ultima attività
richiede l'intervento di una energia necessaria per realizzare investimenti mobili nei
confronti degli oggetti, tali da ripristinare un processo di adattamento. L'energia libera
opera sia nel sistema inconscio che a livello della coscienza. La funzione
dell'interpretazione è definibile come fattore di trasformazione che, destrutturando gli
investimenti fissati sulle rappresentazioni inconsce degli oggetti primitivi di
gratificazione ed i controinvestimenti difensivi, rende disponibile una quota più o meno
elevata di energia libera per l'attività della coscienza (Carli, 1987). Quindi, con
l‟espressione "dove era l'Es, la dovrà esservi l‟Io", Freud sembra intendere non solo il
rendere consci gli impulsi, ma anche porli sotto il controllo dell‟Io, rendendoli così
disponibili all'uso da parte dell‟Io stesso (Joseph, 1991).
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Se tutti i pazienti arrivano all‟analisi con qualche tipo di angoscia o dei suoi
derivati, siano essi evidenti o impliciti, non sempre risulta facile all‟analista ricondurre
il desiderio di cambiamento all‟interno del compito analitico. La situazione psicologica
che si presenta, e che deriva da un conflitto inconscio, in virtù di questa origine è
ambivalente: la volontà di recuperare è contrastata dal desiderio inconscio di
nascondere. Mitchell (1993) parla di “modello del conflitto pulsionale”, conflitto tra
pulsioni e difese. Lo scopo ultimo della psicoanalisi è superare la resistenza,
“rintracciare la libido ritirata nel suo nascondiglio” (Freud, 1912), addomesticare i
desideri infantili portandoli alla luce attraverso il ricordo. L‟obiettivo analitico, centrale
per il metodo dell‟analisi, è quello di svelare. L‟obiettivo del cambiamento non è quindi
un fine diretto e privo di ambiguità. Il paziente diviene sempre più interessato e capace
di conoscere ed interiormente empatico verso ciò che si agita dentro di lui e che ha
costruito il terreno delle inibizioni, dei sintomi e delle angosce e che lo hanno spinto a
ricercare l‟analista.
Rangell (1998) sostiene che secondo una descrizione completa dei fatti empirici,
l‟Io non sostituisce l‟Es nell‟analisi, né l‟inconscio del paziente diventa interamente
conscio. Questi risultati non sono né possibili né desiderabili: le linee di progresso verso
il cambiamento psichico sono più complesse.
L‟Es diviene meno perentorio, il Super Io meno severo, mentre l‟Io diviene più
efficace ed acquista un più forte senso di padronanza. Centrale a questi risultati è una
diminuzione della comparsa dell‟ansia segnale inconscia automatica e la sostituzione di
questa da parte di una maggior quota di segnali di sicurezza. L‟analisi porta a far sì che
il paziente diventi l‟analista di sé stesso. In seguito all‟analisi, e rimodellato dal
funzionamento analitico dell‟analista, l‟Io del paziente diventa un analista interno,
l‟analista del Sé. Questo risulta essere un valido indicatore per riconoscere il momento
adatto alla fine della terapia, cioè la comparsa di nuove capacità di indagine
introspettiva che evidenzierebbe l‟acquisizione di una “funzione auto-analitica”,
necessaria per garantire l‟avvenuto cambiamento terapeutico (Wallerstein, 1965).
1.3 Sviluppi successivi
Secondo Holmes (2004) si potrebbe dire che la prima metapsicologia
psicoanalitica si interessava della scissione “orizzontale” fra la mente conscia e la mente
inconscia e si poneva l‟obiettivo di rendere conscio l‟inconscio. Successivamente,
grazie al lavoro di Melanie Klein, l‟enfasi si è spostata soprattutto sulle scissioni
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“verticali” in cui parti del Sè vengono proiettate nel mondo, facendo sì che il paziente si
senta deprivato, minacciato, maniacalmente trionfante, etc. L‟obiettivo della terapia
diventa quindi riconoscere e accettare quelle parti del Sé che sono state disconosciute.
L‟indirizzo kleiniano sottolineava l‟importanza del superamento della scissione
e dell‟identificazione proiettiva primitive, dell‟integrazione delle relazioni d‟oggetto
parziali nella relazione con un oggetto totale, della corrispondente oscillazione dalla
predominanza della posizione schizoparanoide a quella depressiva e dell‟integrazione,
l‟arricchimento e l‟approfondimento dell‟esperienza psichica e delle relazioni oggettuali
che ne derivano. Successivamente, in contrasto con questa tendenza, a proposito del
cambiamento psichico Bion e Meltzer hanno posto l‟accento sulla crescita psichica,
indicata in modo particolare dalla tolleranza alla frustrazione, da un maggior contatto
con la verità relativa all‟esperienza psichica, dalla curiosità verso il Sé e dalla riduzione
dei fattori che si oppongono alla crescita mentale.
In uno sviluppo parallelo, in quello che si potrebbe considerare il filone
principale del pensiero kleiniano inglese contemporaneo, come per esempio
nell‟approccio di Hanna Segal e Betty Joseph, l‟enfasi clinica sembra porsi sull‟analisi
degli sviluppi del transfert e del controtransfert momento per momento e
sull‟integrazione interpretativa delle comunicazioni non verbali del paziente con il
contenuto delle libere associazioni. Il cambiamento è un processo, non uno stato, ed è
una continuazione e uno sviluppo delle "oscillazioni impercettibili e costanti" che si
verificano nella seduta. Una delle principali finalità della terapia consiste nel lavorare
con i cambiamenti che si sperimentano momento per momento nella seduta e fare in
modo che avvengano meno ciecamente e automaticamente, renderli, insieme con i loro
elementi, più coscienti e più affrontabili per l‟Io in un modo più sano, realistico e
flessibile e conseguire, così, un mutamento nell'equilibrio (Joseph, 1989).
L‟attenzione è rivolta alle modificazioni che avvengono nel tipo di transfert
dominante come indicatori clinici fondamentali di cambiamento psichico, approccio
convergente con le tendenze presenti all‟interno della psicologia dell‟Io statunitense.
La psicologia dell‟Io parte dall‟assunto per cui il cambiamento strutturale
intrapsichico comporta cambiamenti nell‟equilibrio fra Io, Super Io ed Es, con un
aumento del dominio dell‟Io ed una diminuzione del dominio dell‟Es e del Super Io
rimossi, ed uno spostamento corrispondente delle configurazioni impulso-difese verso
una riduzione della formazione di difese patologiche che dovrebbe consentire a un
individuo di compiere le sue scelte con la minore distorsione della realtà possibile e di
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affrontare in modo costruttivo le circostanze sfavorevoli (Wallerstein, 1965, 1986;
Kernberg, 1998).
Anche la psicologia dell‟Io, tuttavia, è andata spostando gradualmente la sua
attenzione all‟esplorazione dei modelli dominanti di transfert e dei cambiamenti
significativi e stabili che vi hanno luogo. Luborsky e Crits-Cristoph (1990) sottolineano
in particolare come cambiamenti nella terapia psicanalitica del repertorio dominante di
relazioni d‟oggetto del transfert siano un indicatore significativo di cambiamento. La
ricerca di Horowitz (1979) sugli stati della mente si muove nella stessa direzione. Questi
autori e ricercatori rivolgono l‟attenzione alla natura specifica delle relazioni d‟oggetto
internalizzate nel valutare il cambiamento psichico e in particolare al modo in cui
questo influenza lo sviluppo del transfert e le configurazioni del carattere.
Insieme a molti autori relazionali e psicologi del Sé contemporanei, Lichtenberg
(2008) propone una prospettiva che espande la visione tradizionale e include il fatto che
i pazienti siano più consapevoli degli schemi del sé-con-l'altro e dell'intimità con sè
stessi attraverso le interazione durante lo scambio clinico, mentre l'interazione stessa
diventa argomento di una maggiore consapevolezza.
Un criterio significativo di cambiamento diventa la riorganizzazione degli
schemi consolidati del modo di essere in relazione con sé stessi e con gli altri. Un nuovo
ordine delle rappresentazioni, delle mappe, degli schemi, del modo di essere nel mondo
implica il cambiamento di sentimenti, priorità, iniziative, valori e strategie
d'attaccamento. Il nuovo ordine degli schemi dell'essere-con-l'altro permette un'alta
probabilità della persistenza dei cambiamenti positivi emersi nella terapia, nonostante le
tensioni che sorgono nel corso del tempo. L'aumento della capacità di recupero, o
ristabilimento autonomo dell'equilibrio, conferisce una maggiore capacità di reagire alle
tensioni momentanee.
La psicoanalisi può favorire lo sviluppo di schematizzazioni sovraordinate di
diversi schemi del Sé prima mantenuti segregati. Tali “schemi di schemi” possono
incrementare notevolmente il sentimento di continuità del Sè e migliorare la capacità di
autocontrollo. Inoltre, schematizzazioni di raccordo di questo genere attenuano le
reazioni emozionali consentendo un contenimento dell‟ambivalenza. La presenza di
schemi più maturi ed adattivi tende comunque ad esercitare un effetto di controllo:
verranno attivati più facilmente questi schemi utili e meno facilmente quelli del passato
(Horowitz, 1991b).
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Un altro notevole cambiamento nel pensiero psicoanalitico è lo spostamento
dalla concettualizzazione delle relazioni in termini di sessualità infantile a una
concettualizzazione in termini di differenti pattern di dipendenza e attaccamento.
Holmes (2004) mette in evidenza come, nel lavoro guidato dalla prospettiva
dell‟attaccamento, quelle parti del Sè escluse dalle risposte di rispecchiamento del
caregiver sono viste come scisse, spesso come una presenza aliena nel corpo o
localizzata in un caregiver da cui sembra impossibile la separazione, e possono
gradualmente essere recuperate quando l‟attaccamento diventa più sicuro. Gli obiettivi
complessivi della terapia possono essere riassunti come “ricerca di intimità e di
autonomia”: la capacità di intimità deriva dalla sintonizzazione, mentre il senso di
autonomia deriva dalla riuscita espressione di una sana protesta e, quando la perdita è
irreparabile, dall‟elaborazione del lutto.
Fonagy e collaboratori (1995; Fonagy, Target, 2000) indicano la funzione
riflessiva come una determinante cruciale del fatto che il trauma porti o meno a un
disturbo permanente della personalità. Normalmente una simile capacità è interiorizzata
sulla base della capacità materna di funzione riflessiva, ma può anche nascere da una
relazione non genitoriale breve, ma positiva, come ad esempio, con uno psicoterapeuta.
Lo scopo della terapia in questo caso non è primariamente quello di conseguire specifici
insight di sé o del proprio passato, bensì quello di sviluppare la capacità o funzione
dell‟autoconsapevolezza: identificare sentimenti, pensieri e impulsi e tradurli in parole.
La distinzione di Sandler e Sandler (1984) fra “inconscio presente” e “inconscio
passato“ segna un altro importante cambiamento nel modo in cui vengono visti gli
obiettivi della terapia. La terapia parte non tanto con l‟intento di ricostruire qualche
presunta costellazione della prima infanzia da cui scaturiscono tutte le difficoltà
presenti, ma da sentimenti, fantasie, pensieri, assunti e impulsi che il paziente
sperimenta in rapporto al qui e ora della relazione analitica. Diventandone cosciente, il
paziente vede in una nuova luce la totalità delle sue risposte e questo amplia la scelta e
apre la strada a strategie interpersonali alternative. Questo spostamento dell‟attenzione
dal passato al presente porta la terapia psicoanalitica in linea con altre terapie, quali la
terapia cognitiva, in cui il diventare consapevole di “regole” e assunti precedentemente
ignorati porta ad una maggiore padronanza di sé e a una maggiore possibilità di scelta.
Mitchell (1993) descrive, come principali modelli successivi a quello del
conflitto pulsionale, il “modello dell‟arresto evolutivo”e il “modello del conflitto
relazionale”.
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Nel “modello dell‟arresto evolutivo”, il processo psicoanalitico viene descritto come
qualcosa che procura le funzioni genitoriali mancanti, sia attraverso la situazione
psicoanalitica che nella persona dell‟analista, il che rende possibile che la maturazione
del Sé bloccata riprenda di nuovo.
Il “modello del conflitto relazionale” non sottovaluta l‟importanza dell‟espansione della
coscienza e del fornire esperienze precoci mancanti, ma colloca il meccanismo centrale
del cambiamento psicoanalitico in una modificazione della struttura fondamentale del
mondo relazionale dell‟analizzando. Dal punto di vista dell‟organizzazione del Sé, la
situazione psicoanalitica permette all‟analizzando di recuperare, rimettere in
collegamento e vivere completamente aspetti di sè stesso prima rinnegati, nascosti,
ripudiati
Rangell (1998) sottolinea che, per quanto riguarda i contenuti del cambiamento,
la teoria delle relazioni oggettuali tende a ridimensionare o trascurare la centralità dei
fattori intrapsichici, il filone più classicamente kleiniano minimizza l‟importanza dei
conflitti edipici, la teoria del Sé pone l‟accento sui deficit alle spese dei conflitti
strutturali. Gli scambi di transfert-controtransfert attivi, mutui, reciproci, interattivi
caratterizzano molte analisi condotte sul Sé e sull‟oggetto, mentre le ricostruzioni, se
pure sono presenti, restano secondarie.
Altre teorie, come quelle di Matte Blanco e di Fornari, non descrivono una
concezione evolutiva, ma considerano le interazioni problematiche tra inconscio e
coscienza, tra i due modi di essere della mente o fra i due codici, affettivo ed operativo,
le cui risultanti si rivelano nelle realtà comportamentali dei singoli e dei gruppi sociali.
Se le teorie freudiana e kleiniana proponevano una dimensione longitudinale di sviluppo
normale entro la quale interferisce il processo psicopatologico come alterazione, queste
ultime prospettano uno spaccato trasversale che definisce la complessità dei processi
mentali alla luce dell'efficacia del sistema inconscio quale componente fondamentale
del funzionamento psichico (Carli, 1987).
La natura diadica dell'influenza reciproca ha assunto grande rilevanza. I fattori
che potevano essere considerati un progresso, per esempio una migliore "conoscenza
relazionale" o il cambiamento da un attaccamento insicuro a uno sicuro, rimanevano più
impliciti. L'accento sulle esperienze negative (conflittuali) come fonte primaria del
focus terapeutico si è spostato verso una visione più equilibrata che include i tentativi di
comprendere e di promuovere anche l'esperienza positiva. La regolazione, soprattutto
quella affettiva, e la maggiore importanza attribuita alla capacità riflessiva di percepire
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gli stati mentali propri e altrui, hanno introdotto influenze più implicite. Si parla di
metacognizione, mentalizzazione, funzionamento riflessivo, apertura al "terzo" e
possedere una teoria della mente. Via via che l'intreccio dei fattori che può influenzare il
progresso immediato e quello a lungo termine diventa più complesso, la prevedibilità e
la certezza hanno ceduto il passo a un approccio non lineare. Le influenze non lineari,
non esplicite, hanno sollecitato i terapeuti a considerare il contesto, la prospettiva e la
multidimensionalità come cornici concettuali che conferiscono a ciascuna diade
terapeuta-paziente la sua unicità. Valutare il progresso significa tenere conto di ciò che
sta accadendo a livello sia esplicito sia implicito attraverso processi lineari e non lineari
(Lichtenberg, 2008).
1.4 Altre prospettive
Bara e Cutica (2005) sono dell‟idea che ogni scuola di psicoterapia sia
interessata al cambiamento comportamentale, se non altro perché ai pazienti importa
molto del proprio comportamento che spesso rappresenta nel modo più evidente ciò che
li fa stare male. Agire in modo inadeguato nel mondo è la più usuale ragione di
sofferenza personale, quasi sempre acuita dal fatto che non si riesce a farsene una
ragione, dato che all'autocoscienza sfugge il perché delle proprie azioni inappropriate.
Secondo Watzlawick (1980) chi viene a cercare aiuto da uno psicologo soffre in
una qualche maniera del suo rapporto con il mondo. Egli soffre per la sua “immagine”
del mondo, per la contraddizione irrisolta fra il modo in cui le cose “sono” e come,
secondo la sua immagine del mondo, “dovrebbero essere”. Davanti a lui si aprono due
possibilità: un intervento attivo che assimili più o meno il mondo all'immagine che egli
ha di esso; oppure viceversa, quando ciò sia impossibile, l'adattamento della sua
immagine del mondo ai dati immutabili. Il primo tipo di soluzione può essere oggetto di
consulto, raramente però di una terapia; mentre invece il secondo è appunto, secondo
l‟autore, lo scopo e l'obiettivo della trasformazione terapeutica.
Molti altri autori hanno parlato della realtà come costruzione a causa della quale
si soffre, ma di cui si dimentica di essere artefici: il concetto del piano di vita di Adler,
Piaget dal punto di vista della psicologia dello sviluppo, Kelly nella sua psicologia delle
costruzioni personali, Bateson nel suo lavoro sulle immagini del mondo, Berger e
Luckmann prendendo come punto di partenza la sociologia, von Foerster sulla base
della sua epistemologia cibernetica.
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