6
L'interprete dovrà ricercare la comune intenzione delle parti partendo da
quanto stabilito nel 1° comma dell’art. 1362
2
cc. e, se questa intenzione
non è chiaramente manifestata, dovrà procedere secondo altri criteri legali
non legati alla volontà delle parti stesse, ma comunque diretti ad accertare
il contenuto sostanziale del contratto sulla base di valutazioni normative.
D’altro canto, a seconda delle varie concezioni filosofiche seguite dalla
dottrina, l’interpretazione giuridica del contratto trova varie proposte
ricostruttive.
Così, ad esempio, chi rinviene nella volontà l’essenza del contratto ed
attribuisce ampio o addirittura esclusivo rilievo alla sua natura
psicologica
3
, è frequentemente indotto a riavvicinare i confini della
interpretazione con quelli della psicologia.
In opposizione si propone una determinazione del significato
dell’interpretazione secondo il suo uso sociale, collocando al posto delle
parti due persone “ragionevoli” ed immergendo appieno l’attività
ermeneutica nelle esperienze della vita
4
.
Ancora, può trovare accentuazione il momento più specificamente
economico, vale a dire il concepire l’interpretazione come un’analisi
rivolta a precisare l’economia del contratto attraverso una considerazione
oggettiva delle operazioni in esso implicate
5
.
2
MIRABELLI, Codice civile commentato, Torino, 1980, p.441; BARBERO, Sistema
del diritto privato italiano, I, Torino, 1965, per i quali più che dettare un criterio per
procedere all’ermeneusi contrattuale, l’art. 1362 definisce la stessa interpretazione.
3
Cfr. PIETROBON, L’errore nella dottrina del negozio giuridico, Padova, 1963, p.
50, che riconosce alla scuola psicologica il merito di “aver riportato il dogma del
volere ad un concetto di volontà e quindi ad una ricostruzione della struttura negoziale
liberi da pregiudiziali di carattere filosofico” e che richiama “ la necessità di un
riferimento alla realtà psicologica”.
4
Trattasi di indirizzo particolarmente propugnato dalla dottrina tedesca, la quale
discorre di “metodo realista” dell’interpretazione e che riconosce essere buon giudice
quello che conosce la vita e si serve di questa conoscenza per le sue decisioni.
5
Cfr. ALPA, Unità del negozio e principi di ermeneutica contrattuale, in Giur. it.,
1973, I, 1, 1507 e i numerosi contributi in L’analisi economica del diritto contrattuale,
in AA.VV., Interpretazione giuridica e analisi economica, a cura di Alpa, Pulitini,
Rodotà e Romani, Milano, 1982.
7
Di frequente, poi, il problema ermeneutico è posto in relazione con quello
della definizione e del concetto di negozio e in particolare con la crisi che
da tempo si riallaccia a tale istituto
6
.
Sorge il dubbio, infatti, se, con le profonde modificazioni intervenute
nell’ordinamento e nell’assetto socio – economico, le norme
sull’interpretazione del contratto siano oggi utilizzabili in riferimento a
qualsiasi tipo di “contratto” o facciano riferimento soltanto al tradizionale
modo di atteggiarsi del fenomeno contrattuale
7
.
6
A partire dagli anni ’50, la concezione del diritto, e di riflesso degli istituti in cui esso
si strutturava, dettata ed attuata in seguito alla Rivoluzione francese, di cui i nostri
codici ed ordinamenti costituiscono espressione, viene rimessa in discussione. Dalla
posizione centrale e prioritaria riconosciuta in precedenza all’individuo, si comincia a
sottolineare sempre più la presenza, l’importanza e la funzione dei gruppi intermedi e
dello Stato, con un completo capovolgimento di principi ed una rapida obsolescenza o
trasformazione di istituti ( tra gli altri, CAPOGRASSI, L’ambiguità del diritto
contemporaneo, in La crisi del diritto, Padova, 1953, p.13 e ancora CARNELUTTI,
La morte del diritto, in La crisi del diritto, cit., p. 177 ; CALAMANDREI, La crisi
della giustizia, in La crisi del diritto, cit., p. 157). Successivamente numerosi autori,
consci della storicità del diritto e della variabilità dei suoi schemi, hanno abbandonato
il concetto di “crisi” preferendo parlare di “evoluzione” e di “adeguamento” dei vari
istituti al tempo presente. Cfr. ASCARELLI, Il problema dell’adeguamento della
norma giuridica al fatto economico, in Dir. econ., 1955, p.1188; RODOTA’, Le fonti
di integrazione del contratto, Milano, 1969; GIORGIANNI, La crisi del contratto
nella società contemporanea, in Riv. dir. agr., 1972, I, p.381.
Più recentemente si è constatato, abbandonando sia il concetto di crisi che quello di
adeguamento, che il contratto non rappresenta più oggi un adeguato strumento di
mediazione dei rapporti sociali. Si è manifestato pertanto scetticismo verso la
possibilità di un recupero di tradizionali strutture e forme giuridiche, essendo queste
ultime inevitabilmente datate e rispecchianti una certa fase dell’economia ormai
superata. Il nuovo angolo visuale è, invece, volto alla ricerca di nuove strutture per
poter collocare i nuovi termini di conflitto della moderna economia. Si è proposta,
allora, un’utilizzazione solo marginale dello strumento contrattuale, chiamato a
svolgere la sua funzione prevalentemente nel campo della microeconomia. Altrove si è
ravvisata, invece, la necessità di ricorrere a diversi e ben più adeguati strumenti
giuridici. Così il senso dei numerosi contributi contenuti nella raccolta Categorie
giuridiche e rapporti sociali. Il problema del negozio giuridico, a cura di Salvi,
Milano, 1978, in particolare, GALGANO, Teorie ed ideologie del negozio giuridico,
p. 59; DI MAJO, Contratto e negozio. Linee di una vicenda, p. 89; BARCELLONA,
Contributo alla discussione sul negozio giuridico, p.229.
7
Il dubbio è maggiormente avvertito in riferimento a quei fenomeni ( di macro –
economia ) che sembrano essere più lontani dalla disciplina generale. E’ del resto
chiaro come la figura del contratto non presenta più quei caratteri di linearità e
semplicità che aveva quando la fonte della sua disciplina era quasi esclusivamente il
codice civile. Ora con l’entrata in vigore della Costituzione e ancor più di numerose
leggi speciali, si è sostanzialmente modificato il quadro di riferimento normativo per i
contratti, rinvenendosi ormai frequentemente fuori dal codice la principale
regolamentazione di taluni rapporti. A ciò si aggiungano i mutamenti economico –
8
La domanda che ci si pone è se è possibile oggi offrire una chiave di
lettura dell’intera disciplina contrattuale, e quindi anche della parte che si
riferisce all’interpretazione, per risolvere in maniera adeguata quei
problemi che sorgono a livello ermeneutico in riferimento a qualsiasi
fenomeno che comunemente viene qualificato come “contrattuale”.
Si tratta cioè di verificare se l’ordinamento preso nel suo complesso, come
si è venuto a strutturare con le scelte compiute di volta in volta dal
legislatore, è capace di dare risposte adeguate a fenomeni anche nuovi e
che talvolta sembrano rompere gli schemi esistenti. Oppure è da chiedersi
se sia il caso di abbandonare definitivamente gli schemi usuali e ricorrere
a nuovi che richiamino, anche a livello ermeneutico, discipline e regole
diverse
8
.
Le regole legali di interpretazione sono tradizionalmente riconosciute
come norme giuridiche e non già semplici criteri facoltativi rivolti al
prudente arbitrio del magistrato
9
e la violazione delle stesse da parte del
istituzionali dovuti all’espansione di forme di diritto sovrastatuale e infrastatuale che
danno una caratterizzazione diversa alle relazioni tra interessi “pubblici” e “privati”,
tra diritto “pubblico” e “privato”, tra libertà dell’individuo ed esigenze sociali. Tali
nuove figure devono essere assoggettate alla disciplina generale o devono trovare la
fonte della loro regolamentazione giuridica in altre sedi? Oppure è necessario per esse
forgiare nuove categorie e nuovi schemi, una volta constatata l’inadeguatezza di quelli
tradizionali o addirittura riconosciuta l’assoluta mancanza di affinità con l’area
contrattuale? Cfr. RIZZO, Interpretazione dei contratti e relatività delle sue regole,
Napoli, 1985, p.34.
8
Siamo in un periodo di transizione, in cui il vecchio ancora esiste ed il nuovo non
manifesta un volto preciso e ben individuato. E’ allora ancora il caso di far sì che in
riferimento a certi argomenti continui a perdurare e a dominare la dottrina di un tempo
che tiene conto in limitata misura delle innovazioni sopravvenute. Vd. FALZEA,
Introduzione generale a Cinquanta anni di esperienza giuridica in Italia, Milano,
1982, p.15; ORESTANO, Della “esperienza giuridica” vista da un giurista, in Riv.
trim. dir. e proc. civ., 1980, p. 1237. Se si può, poi, essere d’accordo con quanti
affermano che le norme sull’interpretazione del contratto rappresentano un aspetto
della sua disciplina che sembrerebbe convalidare il modello tradizionale, si deve però
anche verificare se è possibile utilizzare una diversa chiave di lettura di tali norme. In
particolar modo, si tratterà di verificare la portata e il campo di applicazione che
queste norme potranno avere; a quali fenomeni contrattuali esse potranno dare
disciplina adeguata e trovare consona applicazione e quali altri fenomeni, invece,
qualificati ancora comunemente come contrattuali, sfuggiranno dal loro ambito per le
peculiari caratteristiche che presentano. Vd. RIZZO, Interpretazione dei contratti e
relatività delle sue regole, cit., p. 62.
9
Vd. GRASSETTI, L’interpretazione del negozio giuridico con particolare riguardo
ai contratti, Padova, 1938, p.29; MESSINEO, Dottrina generale del contratto,
9
giudice di merito comporta la censurabilità della sentenza da parte della
Cassazione.
Destinatari di tali norme sono tutti coloro che hanno l’obbligo o l’onere di
interpretare il contratto: prima di tutto i giudici, ma anche le parti, in
particolar modo quando devono adempiere un’obbligazione contrattuale,
in quanto la corretta interpretazione rientra nello sforzo diligente richiesto
al debitore per l’esatto adempimento
10
.
Si ritiene comunemente
11
che le norme ermeneutiche siano derogabili
dalle parti ad eccezione di quella sull’interpretazione secondo buona fede,
essendo quest’ultima un principio di ordine pubblico.
La derogabilità è giustificata dal fatto che principio fondamentale
dell’interpretazione è il rispetto della comune intenzione delle parti;
pertanto il giudice deve attenersi ad essa anche se si manifesta attraverso
deroghe alle regole legali di interpretazione.
1.1 INTERPRETAZIONE E QUALIFICAZIONE
Dall’interpretazione va tenuta distinta la qualificazione vale a dire
l’operazione mirante ad identificare l’astratto tipo legale cui sussumere il
concreto contratto: l’interpretazione è volta ad accertare che cosa le parti
hanno stabilito, mentre la valutazione giuridica è volta ad accertare il
Milano, 1952, p. 345; BETTI, Teorie generali del negozio giuridico, Torino, 1950, p.
329; SCOGNAMIGLIO, Contratti in generale, Milano, 1973, p.79; STOLFI, Teoria
generale del negozio giuridico, Padova, 1960, p. 274. La tesi secondo la quale le
regole interpretative non sarebbero regole giuridiche ma regole di conoscenza fu
formulata invece nei lavori preparatori al primo progetto del codice tedesco. Nella
nostra dottrina PACCHIONI, Dei contratti in generale, Padova, 1939, p.156: qualsiasi
criterio di interpretazione che venga imposto al giudice come obbligatorio costringe
eventualmente il giudice stesso a sostituire, anziché interpretare, la volontà dei
contraenti.
10
Contro però BETTI, Interpretazione della legge e degli atti giuridici, Milano, 1949
il quale ritiene che nei confronti della parte debba parlarsi di onere e non di obbligo.
11
BIANCA C. M., Diritto Civile, 3, Milano 1998, p.386; SACCO, Il contratto, in
Trattato di Dir. civ. a cura di F.Vassalli, Torino, 1975, p.758.
10
valore giuridico dell’atto
12
attraverso il confronto tra fattispecie concreta
ed astratta.
La Cassazione
13
suole scomporre l’operazione di qualificazione in due
fasi, “l’una consistente nell’individuazione della comune intenzione delle
parti, l’altra concernente l’inquadramento della fattispecie nello schema
legale corrispondente”. Questa seconda fase è ulteriormente scomposta in
una “descrizione del modello della fattispecie giuridica” e in un giudizio
sulla “rilevanza giuridica qualificante degli elementi di fatto in concreto
accertati”.
La distinzione tra interpretazione e qualificazione, la prima come giudizio
di fatto, la seconda come valutazione giuridica vera e propria, rileva anche
sotto il profilo del giudizio che la Cassazione opera sulle sentenze
14
.
L’interpretazione è, infatti, riservata al giudice di merito ed è
incensurabile da parte della Suprema Corte stante l’impronunciabilità
della Corte stessa sulle valutazioni di fatto.
12
Cfr. però la dottrina contraria: GRASSETTI, L’interpretazione del negozio
giuridico, con particolare riguardo ai contratti, Padova, 1938, p.99: per il quale
l’interpretazione dei contratti, quale determinazione della fattispecie contrattuale,
comprenderebbe la sua qualifica giuridica; SCALFI, La qualificazione dei contratti
nell’interpretazione, Varese, 1962, p.120: per le operazioni tipiche non è possibile
dissociare l’intendimento del contratto sul piano sociale dalla qualificazione: il
contratto è concepito in modo unitario solo nel momento in cui lo si qualifica;
CASELLA, Negozio giuridico (interpretazione), in Enc.dir., XXVIII, 16, p. 26 :
determinante è l’intento delle parti, ma nella rilevanza che gli riconosce l’ipotesi
astratta normativa che lo contempla.
13
Cfr. Cass., 24/6/83 n.4333, in Giur.it., 1984, I, 1, c.1148 con nota di GALLI; Cass.,
26/7/84, n. 4346, in Mass. Foro it., 1984; ma vd. in DE NOVA, Il tipo contrattuale,
Padova, 1974, la segnalazione di riserve che la dottrina ha mosso alla distinzione in
due fasi del procedimento di qualificazione (distinzione respinta da Calamandrei come
“ contraria alla realtà delle cose “)
14
Principio, questo, comunemente affermato dalla giurisprudenza di legittimità: vd.,
fra le tante, Cass., 25/2/1987, in Giust. civ. Mass., 1987, fasc. 2, “l’interpretazione dei
negozi giuridici richiede due distinte attività logiche, quella di ricerca del fine pratico
perseguito dalle parti e quella di inquadramento delle volontà dirette a tale fine
nell’adeguato schema giuridico astratto. Mentre quest’ultima attività, comportando
sempre la corretta applicazione di norme di diritto, è liberamente censurabile in sede
di legittimità, la prima, risolvendosi nella determinazione di una realtà storica, quale è
l’effettiva volontà negoziale delle parti, si concreta in un accertamento di fatto affidato
al giudice del merito e, come tale, sottratto al sindacato di legittimità, purché sorretto
da motivazione congrua ed immune da vizi logici e giuridici”.
11
Di fronte alla Corte di legittimità si potranno invece impugnare, a termini
dell’art. 360 n. 3 c.p.c. (violazione di legge), le decisioni in cui il giudice
del merito abbia violato i canoni ermeneutici codificati
15
o quando le
motivazioni alla base di una decisione - anche concludente un
procedimento ermeneutico - siano affette da vizi logici ( ex. art. 360 n. 5).
In tali casi, in ogni modo, la Cassazione non può imporre la propria
interpretazione, ma deve rinviare ad altro giudice di merito perché questi
proceda all’interpretazione del contratto.
L’errata qualificazione del contratto rileva invece come errore di diritto e
la Cassazione può indicare la corretta soluzione giuridica.
Seguendo tale impostazione si afferma che la qualificazione presuppone
già compiuta la fase dell’interpretazione. Ma a ben guardare una
distinzione fra le due operazioni non è sempre possibile.
La stessa normativa positiva sembra, infatti, sovrapporre i due momenti.
L’art. 1369 cc. (vd. oltre § 2.1.5), ad esempio, “allorché fa carico
all’interprete di assegnare alle espressioni plurivoche il senso più
conveniente alla natura e all’oggetto del contratto, sembra presupporre già
compiuta e positivamente esaurita la qualificazione dell’operazione posta
in essere dalle due parti”
16
.
Ma la sovrapposizione delle due operazioni in parola si rileva con
chiarezza là dove la qualificazione di un certo atto venga stabilita in
ragione della volontà dei contraenti
17
.
15
Cass., 8/4/1981, n. 2024, Giust. civ. Mass., fasc. 4: l’accertamento della volontà
delle parti [...] comporta un’indagine di fatto, istituzionalmente demandata alla
discrezionalità del giudice del merito, la cui incensurabilità in sede di giurisdizione di
legittimità trova limite soltanto nella violazione delle norme di ermeneutica e in una
inadeguatezza della motivazione; Cass., 20/6/1980, n. 4018, in Giur. it., 1981, I, 1,
1500.
Più precisamente la vincolatività delle regole interpretative si concreta non soltanto
nell’obbligo per l’interprete di attenersi esclusivamente alle regole dettate dal
legislatore, ma anche di applicarle secondo il loro ordine graduale, COSTANZA,
L’interpretazione del contratto, in Giurisprudenza sistematica a cura di Alpa –
Bessone, Torino, 1991, XII, p. 74.
16
Cfr. COSTANZA, L’interpretazione del contratto, in Giurisp. sistematica di dir.
civ. e comm., a cura di Alpa – Bessone, cit., p.78.
17
In particolare per stabilire se un contratto si sia o meno concluso si utilizza come
dato determinante la volontà delle parti e più esattamente la volontà di subordinare, o
12
Il richiamo alla volontà delle parti per risolvere questioni qualificatorie
ripropone sotto altro profilo l’annoso interrogativo sui rapporti fra
dichiarato e voluto, testuale ed extratestuale, nonché fra funzione in senso
oggettivo e ragione economico – individuale del negozio.
Ora, a tale interrogativo viene data una soluzione favorevole alla
preminenza del profilo soggettivo volitivo, tendente a svalutare la causa
per assecondare le istanze singolari degli stipulanti e dare più completa
attuazione ai loro peculiari interessi
18
.
Il riferimento alla volontà dei contraenti rappresenta, dunque, un
passaggio obbligato per stabilire gli scopi concreti dell’operazione
economica, scopi che vengono conseguentemente stabiliti in termini meno
riduttivi di quelli causali.
Problemi di qualificazione possono sorgere, per esempio, quando nessun
nomen iuris è fornito dalle parti (per es. in un contratto tacito). In questo
caso il giudice risolverà dando rilevanza giuridica agli elementi di fatto
dedotti dalle parti stesse oppure potrà utilizzare i criteri che identificano
l’elemento di fatto qualificante eventualmente forniti dalla legge
19
.
Maggiori difficoltà sussistono quando il concreto contratto non si può
ricondurre ad un dato schema legale per la presenza in esso di elementi
estranei al tipo legale stesso o per la contemporanea presenza di elementi
caratterizzanti più tipi legali.
In tali casi l’operazione di qualificazione può avere come soluzione la
scelta di uno tra i diversi tipi contrattuali
20
, ma anche, a norma dell’art.
1322 2co., la qualificazione del contratto come contratto atipico, del quale
meno, all’accordo totale, la stipulazione. Così Cass., 15/3/1982, n. 691, in Riv. comm.,
1985, II, 199.
18
Vd. oltre 4.1 per le discussioni in dottrina sul ruolo della causa ai fini della
qualificazione dei contratti.
19
Così l’art. 2223 c.c. sulla qualificazione di un contratto come vendita o contratto
d’opera con materia fornita dal prestatore secondo la prevalenza data dalle parti alla
materia oppure all’opus. v. Cass., 22/6/1962, n. 1604, in Foro it., 1962, I, c. 2173.
20
Così Cass., 22/2/1984, n. 1296, in Nuova giur. civ. comm., 1985, I con nota di
ZANARONE opp. Cass., 14/10/1958, n. 3251, in Foro it., 1958, I, c. 1617 entrambe
in tema di società.
21
Cass., 25/7/1984, n. 4436, in Mass. Foro.it., 1984.
13
peraltro il c.c. stabilisce le condizioni di validità, ma non offre criteri per
la disciplina. Certamente ad essi si possono applicare le norme sui
contratti in generale, ma queste, da sole, non sono soddisfacenti per tutte
le esigenze di disciplina normativa del contratto atipico.
Per questo la giurisprudenza è approdata ad un duplice principio:
a) “ la qualificazione di un contratto nominato non è alterata dalla
presenza di elementi estranei a quelli che caratterizzano lo schema
tipico, ove gli stessi rimangono preminenti, con la conseguenza che
per la sua regolazione occorre far capo alla disciplina dello schema
negoziale prevalente”
21
;
b) “un contratto nel quale siano commisti e combinati elementi di due tipi
contrattuali potrà essere qualificato come contratto misto, ma andrà
sottoposto alla disciplina di uno dei due tipi di contratto, in base alla
prevalenza degli elementi distintivi dell’una o dell’altra figura
negoziale”
22
Ed il fattore decisivo per stabilire tale prevalenza è dato dall’interesse che
ha mosso le parti
23
.
Balza però subito all’occhio la contraddizione fra la qualificazione del
contratto come contratto a causa mista e la sua sottoposizione alla
disciplina relativa allo schema contrattuale prevalente.
In tal modo, infatti, “contratto complesso e contratto misto si riducono
sempre a contratto tipico, secondo la regola della prevalenza”
24
adottando
in tal modo un criterio lesivo dell’autonomia contrattuale ex art. 1322 2co.
22
Cass., 26/4/1984, n. 2626, in Mass. Foro it., 1984; Cass., 29/3/1982, n. 1951, ivi,
1982.
23
In questo modo il contratto traslativo della proprietà di un immobile contro un
corrispettivo costituito in parte da una somma di denaro e in parte dall’esecuzione di
un’opera viene qualificato come “contratto misto” di vendita e appalto, ma sottoposto
alle norme sulla vendita, in base alla valutazione di preminenza del “carattere
traslativo del contratto”. Cfr. Cass., 26/4/1984, n. 2626, cit. alla nota prec.
24
SACCO, La qualificazione, in Trattato di dir. priv., a cura di P. Rescigno, Torino,
1989,10, p. 442.
14
Un criterio rispettoso dell’autonomia contrattuale può essere, allora,
quello dell’integrazione, anziché della prevalenza, delle varie discipline
relative allo stesso contratto misto
25
.
Del resto bisogna sempre stare attenti a non abusare del concetto di
“contratto misto”: volendo essere rigorosi tutti i contratti potrebbero
esserlo
26
.
Decisiva allora potrà essere la causa
27
.
1.2 INTERPRETAZIONE E INTEGRAZIONE
Dalle disposizioni convenzionali che si riconducono all’accordo delle
parti, occorre distinguere le determinazioni del rapporto che hanno titolo
nella legge o in altre fonti esterne al contratto (fonti eteronome)
28
. In base
all’art. 1374 cc., infatti, il contratto obbliga le parti non solo a quanto è nel
medesimo espresso, ma anche a tutte le conseguenze che ne derivano
secondo la legge o, in mancanza, secondo gli usi e l’equità.
Tale operazione, definita integrazione del contratto, si considera
nettamente distinta dall’interpretazione.
Quest’ultima, infatti, è pur sempre in funzione di un accertamento del
significato delle regole del contratto, mentre l’integrazione presuppone la
mancanza di tali regole.
25
Per il criterio dell’integrazione è DE NOVA, Il tipo contrattuale, Padova, 1974, p.
151ss; GALGANO, Diritto civile e commerciale, Padova, 1993, I, 2, p.406. Vd anche
art. 1677 c.c. sull’appalto- somministrazione: si applicano, in quanto compatibili, le
norme sull’appalto e quelle sulla somministrazione.
26
La mediazione allora sarebbe un contratto misto di mediazione e opera intellettuale;
la vendita un contratto misto di vendita e deposito (obbligazione implicita di custodia
fino alla consegna).
27
Si rinvia oltre al § 4.2 per le diverse opinioni della dottrina sul ruolo da attribuire
alla causa nei processi di qualificazione.
28
Come es. di dottrina contraria, BARCELLONA, Intervento statale e autonomia
privata nella disciplina dei rapporti economici, Milano, 1969, p. 260, per il quale “
non ha senso parlare di concorrenza della legge alla costruzione del contenuto
precettivo della fattispecie”.
D’altro canto l’integrazione non opera sul piano della fattispecie bensì su quello del
rapporto, cioè degli effetti.
15
L’integrazione interviene, allora, in presenza di una lacuna contrattuale,
vale a dire una mancanza di previsione dalle parti di un aspetto del
rapporto non suscettibile di essere colmata mediante l’applicazione dei
criteri ermeneutici.
E’, però, in sede di interpretazione che bisogna accertare la presenza di
eventuali lacune.
L’applicazione di alcuni criteri di interpretazione ha fatto però sorgere
dubbi sulla loro natura, in considerazione della loro propensione a fungere
anche da elementi di integrazione del contratto
29
.
Non è casuale che, con riguardo ad alcuni criteri ermeneutici, si sia
coniata la formula "interpretazione integrativa"
30
: trattasi di un’operazione
a metà tra quella puramente interpretativa, condotta sulla base dei criteri
soggettivi, e quella decisamente integrativa che si ricollega all’operare
delle fonti eteronome.
I canoni ermeneutici degli artt. 1367 – 1371 cc. (vd. oltre §3), in
particolare, risolvono i problemi dell’interpretazione contrattuale
assegnando alla dichiarazione un senso che prescinde dalla comune
intenzione delle parti e che , invece, viene ricavato da valutazioni
normative.
Fra i criteri che hanno suscitato più discussioni in dottrina vi sono a) la
regola di interpretazione secondo gli usi negoziali
31
, (1368 cc.) – più
dettagliatamente esaminata oltre (§ 3.2) - , b) il criterio di interpretazione
equitativa in rapporto al principio di equità (1371 cc.), c) il principio di
buona fede contrattuale (1366 cc., per quanto riguarda gli aspetti
ermeneutici).
29
In argomento: RIZZO, Interpretazione del contratto e relatività delle sue regole,
Napoli, 1985, p.316 ss. per il quale, in tali casi, le definizioni di interpretazione e
integrazione si rivelano poco soddisfacenti.
30
ALPA, L’interpretazione del contratto, Milano, 1983, I, p.355; FERRERO, Le
regole di buona fede nell’interpretazione del contratto, Torino, 1985, p.110; ma già
OPPO, Profili dell’interpretazione oggettiva del negozio giuridico, Bologna, 1943,
p.41.
16
Più in particolare, l’equità è un fondamentale principio di integrazione del
contratto, per tutti quegli aspetti che non sono determinati dalle parti, dalle
leggi o dagli usi (1374 cc.). Non rileva come principio di giustizia morale,
bensì come canone del giusto contemperamento dei diversi interessi delle
parti in relazione allo scopo e alla natura dell’affare.
Come vedremo oltre (§ 3.3) sia nell’integrazione che nell’interpretazione
del contratto rileva la stessa nozione di equità. Come principio di
interpretazione trova tuttavia applicazione in funzione di chiarimento del
significato dell’accordo, mentre quale criterio di integrazione l’equità
opera per colmare le lacune del contratto.
Anche per il concetto di buona fede si pone analogo problema, con
l’aggravante che la buona fede in senso oggettivo costituisce un principio
di giustizia superiore, di solidarietà contrattuale che trascende il
regolamento negoziale imponendo a ciascuna parte di salvaguardare
l’utilità dell’altra a prescindere dalla semplice delimitazione di diritti e
doveri
32
.
Il principio di buona fede prevale dunque su quanto le parti hanno
stabilito, in quanto richiede un impegno di solidarietà che si concreta
nell’obbligo per ciascuna parte di tener conto dell’interesse dell’altra pur
se tale interesse non trova specifica tutela nella pretesa contrattuale o in
altri diritti. In tal senso la buona fede esprime un fondamentale principio
etico dell’ordinamento
33
(oltre § 3.4).
31
Il problema non si pone per gli usi normativi, tipici elementi di integrazione del
contratto. La consuetudine trova applicazione, infatti, nelle materie non regolate da
leggi o regolamenti ovvero quando essa sia richiamata da tali norme (8 disp. prel.).
32
COSTANZA, L’interpretazione del contratto, in Giurisprudenza sistematica, a cura
di Alpa – Bessone, cit. p.80: a tutto ciò deve aggiungersi che il canone ermeneutico
della buona fede viene utilizzato spesso come strumento di integrazione vera e propria
del regolamento contrattuale nel senso che alla clausola oscura o ambigua non solo
viene attribuito il significato più adeguato e rispondente alle ragioni dell’equilibrio
contrattuale oltre che della correttezza e della lealtà, ma vengono collegate
determinazioni ulteriori rispetto a quelle enunciate dai contraenti.
33
Cfr. ad es. Cass., 5/1/1966, n.89, in Foro pad. 1966, I, 524: la buona fede, intesa in
senso etico, come requisito della condotta, costituisce uno dei cardini della disciplina
legale delle obbligazioni e forma oggetto di un vero e proprio dovere giuridico.
Sull’importanza primaria della buona fede in sede di integrazione del rapporto
17
Per chiarezza, però, l’interpretazione secondo buona fede implica sì il
riferimento al ragionevole affidamento della parte, ma pur sempre
nell’indagine sul contenuto dell’accordo.
L’integrazione del contratto secondo buona fede presuppone, invece, che
sia già accertato il contenuto dell’accordo e che a tale contenuto si
aggiunga una determinazione di fonte legale che può completare o anche
superare l’autoregolamentazione contrattuale
34
. Il riportare questa
integrazione ad una presunta volontà delle parti vorrebbe dire
semplicemente falsare la realtà del contratto.
§2 REGOLE LEGALI DI INTERPRETAZIONE: PRIORITA’ E
SUSSIDIARIETA’.
Il codice detta una serie di norme sull’interpretazione del contratto (artt.
1362 – 1371).
Il principio basilare è stabilito nel 1362 1co., secondo il quale si deve
indagare quale sia stata la comune intenzione delle parti e non limitarsi
all’interpretazione letterale.
Seguono le norme (artt. 1363 – 1365 c.c.) che impongono di valutare il
comportamento complessivo delle parti (interpretazione globale); di
procedere all’interpretazione complessiva delle clausole (interpretazione
obbligatorio, tra gli altri, ALPA, in Riv. dir.comm. 1971, II, p. 277, e VISINTINI, La
responsabilità contrattuale, Napoli, 1979, p. 81.
34
Contro BIGLIAZZI GERI, Note in tema di interpretazione secondo buona fede,
Pisa, 1970, p. 51, il quale nega che la normativa sulla buona fede possa essere
ammessa quale fonte di integrazione. In tal caso, infatti, alla regola di correttezza
verrebbe attribuito un “ valore non già di criterio di valutazione a posteriori, di un
fatto, bensì di criterio capace di contribuire ad una aprioristica ricostruzione del
contenuto del negozio”.
Per quanto riguarda la funzione modificativa dell’integrazione, la regola di buona
fede “può portare ad eventuali correzioni del significato attribuito al regolamento
negoziale sulla base di una interpretazione stricti iuris, adeguando [...] quel significato
al gioco di interessi delle parti sulla base di una valutazione a posteriori che risalga ai
principi generali dell’ordinamento giuridico”.
18
sistematica); di presumere che le espressioni generali siano limitate
all’oggetto del contratto, e di presumere che i casi indicati a spiegazione
di un patto abbiano semplice valore esemplificativo (interpretazione
presuntiva).
Un secondo gruppo di norme (1367 – 1371 c.c.) stabilisce che nel dubbio
il contratto deve interpretarsi nel senso in cui possa avere qualche effetto
(interpretazione utile); le clausole ambigue devono interpretarsi secondo
le pratiche generali del luogo di conclusione del contratto o del luogo
dell’impresa, se una delle parti è un imprenditore; le clausole inserite nelle
condizioni generali di contratto devono interpretarsi nel senso più
favorevole all’aderente; nel dubbio persistente il contratto deve infine
essere interpretato nel senso meno gravoso per l’obbligato se si tratta di
contratto a titolo gratuito, e nel senso che realizzi l’equo
contemperamento degli interessi delle parti se è a titolo oneroso.
Il primo gruppo di norme atterrebbe all’interpretazione c.d. soggettiva; il
secondo all’interpretazione c.d. oggettiva, diretta a fissare il contenuto del
contratto quando è dubbia la comune intenzione delle parti, utilizzando
canoni legali improntati alla conservazione dell'atto, alla tipicità,
all'equità.
A parte la discordanza di opinioni dottrinali in ordine alla qualificazione
specifica delle singole norme
35
una considerazione a parte va fatta per il
criterio dell’art. 1366 che impone di interpretare il contratto secondo
buona fede (vd. oltre § 3.5).
La Cassazione si mostra sensibile ad un’esigenza di massimo rispetto
della volontà delle parti: essa attribuisce a tutti i criteri interpretativi di cui
agli artt. 1366-70 carattere sussidiario, timorosa che il giudice di merito
“venga a sovrapporre la propria soggettiva opinione all’effettiva volontà
dei contraenti”
36
.
35
Tra i tanti vd. BETTI, Teorie generali del negozio giuridico, Torino, 1950, p. 335,
pone fra le regole ermeneutiche oggettive l’art. 1365.
36
Cass., 13/12/1986, n. 7496, in Mass. Foro it., 1986.
19
Tale risultato non sembra controvertibile per i canoni di cui agli artt.
1367-70
37
, ma è discutibile per il canone di interpretazione secondo buona
fede.
Il dovere di buona fede, infatti, come vincola le parti nella formazione
(art.1337) e nell’esecuzione (art.1375) del contratto, così non può non
vincolarle in sede di interpretazione
38
, impegnando ogni contraente a
tenere sempre presente l’utilità che, anche se non specificamente stabilita,
la controparte vuole ottenere dal contratto.
Rifiutare il carattere di sussidiarietà del principio ex art. 1366 è il primo
passo per riconoscerne la natura di criterio di interpretazione soggettiva.
2.1 INTERPRETAZIONE SOGGETTIVA
L’articolo intorno al quale ruota l’intero sistema ermeneutico del codice
civile italiano è il 1362, il quale, al 1co., afferma che: “nell’interpretare il
contratto, si deve indagare quale sia stata la comune intenzione delle parti,
e non limitarsi al senso letterale delle parole”
39
.
E’ opportuno chiarire esattamente il rapporto che esiste fra “comune
intenzione delle parti” e “senso letterale delle parole”. Del resto anche le
norme sull’interpretazione devono essere, a loro volta, oggetto di
interpretazione; e l’interpretazione che la Cassazione dà dell’art. 1362
1co. non è univoca:
Cfr. anche la dottrina: GRASSETTI, L’interpretazione del negozio giuridico ecc.,
Padova, 1938, p 93ss.
37
Del resto legislativamente formulati per l’ipotesi di “ dubbio”, “ambiguità”, “
oscurità” del contenuto contrattuale.
38
Questa è l’opinione dominante in dottrina: cfr. NANNI, La buona fede contrattuale,
ne I grandi orientamenti della giurisprudenza civile e commerciale, Padova, 1988,
p.397; COSTANZA, Profili dell’interpretazione del contratto secondo buona fede,
Milano, 1989.
Contro però vd. SCOGNAMIGLIO, Interpretazione del contratto e interesse dei
contraenti, Padova 1992, p.364.
39
La norma del nostro codice si ispira ad un passo del Digesto attribuito a Papiniano
(D. 50, 16.219); in conventionibus contrahentium voluntatem potius quam verba
spectari placuit.