INTRODUZIONE
* * * * *
Lo sforzo conoscitivo della ricerca compiuta è stato rivolto
all’approfondimento del processo di internazionalizzazione delle
imprese quale causa principale del maggior fenomeno economico oggi
in atto: la progressiva integrazione dei mercati dei beni, dei servizi, dei
fattori produttivi.
Da sempre l’uomo “baratta” mezzi di soddisfazione dei suoi bisogni ma
solo di recente il contesto dello scambio di merci, servizi, capitali,
persone, conoscenze ha assunto dimensioni planetarie
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.
Il maggior artefice di questo “straordinario episodio nel progresso
dell’uomo” è l’impresa, intesa come organizzazione socio-tecnica che
svolge attività economica per produrre beni o erogare servizi.
Il postulato fondamentale è che gli atti di scambio internazionali nel
loro complesso hanno una rilevanza che trascende l’immediatezza del
rapporto, assumendo una fortissima valenza sociale in quanto
determinanti la sostenibilità di modelli di vita e di organizzazione delle
attività collettive di una società.
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“What an extraordinary episode in the economic progress of man that age was which came to an end
in August 1914! ... The inhabitant of London could order by telephone, sipping his morning tea in
bed, the various products of the whole earth, in such quantity as he might see fit, and reasonably
expect their early delivery upon his doorstep; he could at the same moment and by the same means
adventure his wealth in the natural resources and new enterprises of any quarter of the world, and
share, without exertion or even trouble, in their prospective fruits and advantages; or he could decide to
couple the security of his fortunes with the good faith of the townspeople of any substantial
municipality in any continent that fancy or information might recommend. He could secure forthwith,
if he wished it, cheap and comfortable means of transit to any country or climate without passport or
other formality…” (Keynes, 1919)
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Nel 1776, all’alba della rivoluzione industriale inglese, Adam Smith
scrisse la bibbia dell’economia, il famoso “Saggio sulla natura e le cause
della ricchezza delle nazioni”. Duecento trenta anni dopo, alcuni suoi
discendenti intellettuali si accorgono che manca un “Saggio sulla natura
e le cause della competitività delle nazioni”.
La competitività nazionale è divenuta una delle maggiori
preoccupazioni fondamentali dello Stato e delle industrie di ogni Paese.
Eppure, per quanto si dibatta e si scriva sull’argomento non vi è ancora
alcuna teoria in grado di spiegare in modo convincente la competitività
tra nazioni. Per di più non vi è nemmeno una definizione accettata del
termine competitività nel senso in cui viene riferito ad una nazione.
Mentre il concetto di impresa competitiva è chiaro
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, non lo è quello di
nazione competitiva. Alcuni la concepiscono come un fenomeno
macroeconomico, determinato da variabili quali il tasso di cambio, i
tassi di interesse e i disavanzi pubblici
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. Altri argomentano che la
competitività dipende dalla disponibilità di manodopera abbondante e a
basso costo
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. Un alto punto di vista mette in rapporto la competitività
con l’abbondanza di risorse naturali
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. Più recentemente ha guadagnato
terreno l’idea che la competitività sia determinata dalle politiche
2
Un impresa è competitiva se possiede elementi di superiorità rispetto ai concorrenti
tale da assicurare una sostenibile redditività nel tempo (Depperu, 2006).
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Ma il Giappone e l’Italia hanno beneficiato di rapidi aumenti del tenore di vita
nonostante i disavanzi di bilancio; la stessa tendenza si è manifestata in Germania e
Svizzera nonostante l’apprezzamento delle monete; e in Italia, ancora, nonostante gli
alti tassi di interesse.
4
Ma la Svezia prospera nonostante gli alti salari e la scarsità di manodopera.
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Ma il Giappone, la Svizzera, l’Italia ne dispongono in maniera molto limitata.
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pubbliche
6
.Un’ultima spiegazione popolare della competitività nazionale
si fa risalire alle differenze fra i metodi di direzione aziendale, ivi incluse
le relazioni tra direzioni e dipendenti
7
.
Ovviamente nessuna di queste interpretazioni della realtà, pur
contenendo porzioni di verità, non sono sufficienti a spiegare la
posizione concorrenziale delle industrie di un Paese.
Nella moderna concorrenza internazionale le imprese competono con
strategie globali che coinvolgono non soltanto l’interscambio, ma anche
l’investimento estero. Ciò che una nuova teoria dovrebbe spiegare è
come un dato Paese può costituire una base favorevole per imprese che
partecipano alla concorrenza internazionale. Come legare
concettualmente l’organizzazione politica, giuridica, economica di uno
Stato con la necessità di migliorare il benessere dei cittadini, assumendo
che quest’ultimo sia dipendente dalla scelta delle imprese di “basarsi”
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laddove gli essenziali vantaggi competitivi possono formarsi?
“Una nuova teoria deve andare al di là del vantaggio comparato, passare
al vantaggio competitivo di una nazione; deve riflettere una concezione
ricca della concorrenza, che includa anche mercati segmentati, prodotti
differenziati, differenze tecnologiche ed economie di scala. Una nuova
teoria deve andare al di là del costo e spiegare perché in certi Paesi le
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Il sostegno mirato, la protezione, la promozione delle esportazioni e i sussidi hanno
portato la produzione di semiconduttori, di automobili, di navi e di acciaio di
Giappone, Cina e Corea del Sud a primeggiare a livello mondiale.
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Ma come spiegare il successo di molte piccole imprese italiane a conduzione
familiare? E come bisogna giustificare il fatto che in Germania e Svezia ci sono alti
livelli sindacali e nondimeno aziende ai primi posti nella classifica mondiale per le
esportazioni?
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Per “base” si intende l’ambito nazionale dove si elabora la strategia, dove si crea e si
mantiene la tecnologia del prodotto e del processo, dove sono localizzati i posti di
lavoro più produttivi e le specializzazioni più avanzate.
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imprese riescono meglio che in altri a creare vantaggi basati sulla
qualità, sulle caratteristiche e su innovazioni che danno luogo a nuovi
prodotti” (Porter, 2001).
Si è detto che il contesto competitivo in cui operano le imprese è ormai
da anni contrassegnato dalla prorompente tendenza dell’economia ad
assumere una dimensione mondiale. Questo fenomeno - al quale si
connettono implicazioni politiche (perdita di potere), culturali
(tradizioni, valori, lingue), giuridiche (crisi della legge e produzione di
norme da parte degli uomini d’affari) e ambientali (inquinamento) di
enorme portata - ha comportato, da un lato, il progressivo incremento
della tensione concorrenziale anche in settori e in nicchie di tradizionale
specializzazione per le imprese italiane; dall’altro, tuttavia, ha
prospettato la possibilità di inserimento in nuovi mercati,
contraddistinti da grandi potenzialità di sviluppo della domanda, oltre
che l’accessibilità a nuove e più convenienti fonti di input produttivi.
In un simile contesto, la sfida alla quale sono inevitabilmente chiamate
le imprese - e, più in generale, il Paese nel suo insieme - è quella di
saper governare la competitività, ossia di saper mantenere la capacità
di competere ben calibrata al mutare delle condizioni ambientali.
In tal senso si è affermata l’idea che l’internazionalizzazione non si può
esaurire con l’esportazione dei manufatti realizzati in patria (internazio-
nalizzazione commerciale), ma deve estendersi sempre più ad altre
modalità, maggiormente idonee rispetto al fine di consentire all’impresa
di radicarsi all’estero da insider,. La presenza diretta permette di
aumentare la capacità di negoziazione dei prezzi, di stabilizzare le quote
di mercato senza subirne la volatilità congiunturale, di superare le
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barriere all’entrata, di migliorare la capacità di innovazione e di
adeguamento dei beni e dei servizi alle esigenze dei singoli mercati.
Sotto questo profilo la posizione delle imprese italiane appare ancora
debole: gli investimenti diretti all’estero (quale proxi
dell’internazionalizzazione produttiva) costituiscono circa il 3,5% del
totale mondiale, una quota di gran lunga inferiore rispetto a quella
detenuta da Paesi europei assimilabili.
A livello mondiale si osserva una duplice tendenza: 1. le esportazioni
crescono più del PIL; 2. gli IDE crescono considerevolmente di
più delle esportazioni. La prima evidenza è riconducibile al fenomeno
dell’apertura delle economie nazionali agli scambi internazionali; la
seconda suggerisce che la strategia dell’internazionalizzazione delle
attività produttive è ritenuta più idonea per acquisire vantaggi
competitivi.
Sempre a livello mondiale si osservano ulteriori tendenze di grande
importanza che corroborano la tesi secondo la quale la
globalizzazione non mette nell’ombra le caratteristiche locali.
Nei fatti:
1. determinate aree geografiche sono più dinamiche e attraggono più
attività economiche di altre, specie nei settori ad alta intensità di
ricerca e sviluppo (Cantwell e Janne, 1999);
2. le aziende industriali ad alta tecnologia tendono stabilirsi in stretta
prossimità le une con le altre dando vita a cluster (Satiety and Griffin
1996; Sabourin and Pinsonneault 1997; Walcott 1999)
3. varie aree regionali spendono ingenti risorse al fine di competere
per attrarre FDI e in particolare quelli che si sostanziano in
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trasferimenti di tecnologia e di attività di ricerca e sviluppo
(Guisinger 1986; Young et al. 1994; Mudambi 1998).
Lo scenario mondiale infine è contrassegnato da ulteriori mutamenti,
nessuno dei quali è ancora giunto a termine. Da circa trent’anni si sta
avendo un progressivo smantellamento dei sistemi statalistici e
l’affermazione di un sistema globale di mercato. Le imprese di Stato
hanno ceduto il passo all’iniziativa economica privata e al tempo stesso
l’avido capitalismo ha eroso il potere e l’importanza della
burocrazia pubblica.
L’emblema massimo dei cambiamenti segnalati è la Repubblica
Popolare Cinese. Si affermerà convintamente la tesi che la Cina è il
mondo che cambia.
Per molto tempo si è parlato della Cina come primario polo produttivo,
come mercato potenziale, come futura potenza economica e
tecnologica. «Quando la Cina si desterà, la Terra tremerà», sosteneva
Napoleone, che pure sembrava non temere nessuno.
Queste previsioni hanno spinto le imprese di tutto il mondo a riflettere
sulla rilevanza di questo grande Paese per le loro strategie di espansione
e di crescita, se non di sopravvivenza. Alcune grandi imprese
multinazionali hanno avviato negli anni ’80 e ‘90 processi di
investimento all’interno del contesto economico cinese, in alcuni casi
basandosi su stime eccessivamente ottimistiche e pertanto incorrendo
in costi e perdite elevati; altre imprese hanno invece atteso che la Cina
realizzasse riforme economiche più profonde, auspicandone l’ingresso
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nella World Trade Organization in tempi rapidi e secondo modalità in
grado di assicurare effettiva apertura e integrazione con l’esterno.
Il mondo delle imprese in Italia ha tenuto fino a tutti gli anni Novanta
un atteggiamento particolarmente cauto e prudente se confrontato con
le imprese provenienti da altri Paesi occidentali. Finora sono state
seguite due prospettive, entrambe caratterizzate da parziale miopia e da
una lettura troppo legata alle dinamiche passate, più che ai cambiamenti
che si stanno prospettando: la prima è che la Cina potesse diventare un
valido mercato di destinazione per i beni di consumo nazionali; la
seconda riguarda la capacità di fare innovazione e la difendibilità della
tecnologia, quali fattori in grado di assicurare un vantaggio stabile
rispetto agli inseguitori cinesi.
Queste linee di azione si scontrano con una Cina che negli ultimi anni
ha cominciato a concretizzare in modo inequivocabile le previsioni che
la qualificavano come il nuovo protagonista del sistema economico
internazionale. Sta emergendo in modo ormai evidente come le imprese
cinesi siano in grado di affermare una leadership non solo sul mercato
interno ma anche nei mercati internazionali, anche rispetto a produzioni
qualificate e con capacità di affermazione di marca. I più recenti
sviluppi stanno peraltro mettendo in evidenza un chiaro orientamento
verso la ricerca di una leadership anche di innovazione, grazie al supporto
di precise scelte di politica economica. Pertanto, di fronte a tale
evoluzione, le imprese internazionali hanno proceduto senza indugio a
coinvolgere l’economia cinese nelle strategie e nei piani operativi in
ambito produttivo, commerciale e in modo crescente tecnologico.
Questo ha contribuito a rendere il Paese un’area di primaria importanza
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non solo sul piano manifatturiero e industriale, ma anche nel processo
di specializzazione e divisione del lavoro internazionale riguardante la
produzione di conoscenza.
Quello che sembra occorrere all’Italia, allora, è una strada svincolata
dagli schemi del passato e più legata a dinamiche di cambiamento che
stanno modificando equilibri e ruoli nell’intero scenario dell’economia
globalizzata.
In tale direzione anche lo Stato si interroga sul suo ruolo, facendo
propria l’idea che la competitività internazionale si nutre di numerosi
elementi che connotano le singole organizzazioni politico-sociali. Gli
interrogativi principali che impegnano il decisore pubblico nelle scelte
relative ai processi di internazionalizzazione d’impresa:
1. come può una determinata area territoriale far leva sul suo
patrimonio di risorse e competenze in modo da ottenere una
crescita delle attività significativa e sostenibile?
2. qual è il ruolo delle politiche pubbliche nel perseguire tale scopo, e -
più in particolare - come creare un ambiente favorevole per lo
sviluppo dell’imprenditorialità privata?
La competitività internazionale delle imprese rappresenta uno degli
obiettivi fondamentali della politica economica con finalità strutturali.
Ciò che sembra emergere, tuttavia, è che la struttura di governo degli
interventi per l’internazionalizzazione, malgrado la proliferazione di
“cabine di regia”, “tavoli di concertazione” e altri strumenti di
coordinamento (si pensi agli sportelli unici all’estero previsti dalla legge
56/2005 o agli sportelli che dovrebbero unificare i servizi nelle regioni),
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non venga definita sulla base di una visione strategica del sistema e
neppure su una base progettuale che scelga la via più efficiente. Non
sembrano sufficienti, in tal senso, le linee guida ministeriali o gli accordi
di programma definiti. Le scelte delle Regioni sembrano seguire proprie
logiche, che raramente si pongono il problema della scala dimensionale
minima perché gli interventi siano efficaci per le imprese.
Esistono almeno tre direzioni strategiche: una rivolta ai mercati
internazionali dei beni e dei servizi per favorire le esportazioni, una
seconda, rivolta all’internazionalizzazione produttiva, tramite
investimenti o accordi di collaborazione industriale, e una terza, infine,
dedicata all’attrazione di risorse e investimenti esteri.
Rispetto alle enunciazioni programmatiche, le politiche per
l’internazionalizzazione vedono fortemente ridimensionato il loro ruolo
effettivo sia sul piano degli obiettivi perseguiti, sia per il peso finanziario
degli interventi in oggetto.
Un solo obiettivo – favorire la penetrazione commerciale – viene
perseguito in modo pressoché sistematico in quasi tutte le Regioni
italiane. Persistono forti dubbi circa l’efficienza degli interventi, il
coordinamento tra la strumentazione nazionale e regionale, ma
soprattutto non è sempre evidente una strategia di medio-lungo periodo
che si associ con gli interventi. Tale carenza di strategia si accentua
notevolmente nel caso dell’internazionalizzazione produttiva. In questo
campo sembra del tutto assente una riflessione, condivisa con gli
operatori, che ragioni sulle caratteristiche della delocalizzazione o di
altre modalità nella articolazione internazionale della produzione, sul
modo in cui le imprese si pongono – anche in prospettiva – di fronte a