V
“Le lamentazioni, ormai esplicite nel corso degli anni Sessanta, poi stereotipate, da parte dei critici
e artisti più attenti all’aggiornamento del dibattito e della ricerca, sull’ibernazione e l’isolamento
culturale di Firenze sorvolano su un poliedrico proliferare di iniziative, su un’esuberanza di
intelligenze e risorse, su una propositività sperimentale di artisti e galleristi, la cui unica pecca non
risiede, come altrove, in velleitarismi da rincorsa, ma nell’aver preferito alla visibilità piena e ai
costi e ai compromessi promozionali che questo comporta, una mobilità da sommerso,
un’incidenza provocatoria propria del voler operare sui margini”
3
.
Gli anni Sessanta e Settanta in Toscana si riscoprono, quindi, come un periodo fervido
aperto alla sperimentazione, allo scambio, alla provocazione grazie alla presenza di
gallerie private, centri autogestiti, editoria locale, gruppi di artisti, poeti, musicisti che,
portatori di germi di innovazione, anche internazionali, hanno permesso il formarsi delle
personalità più forti. Al riguardo Daniel Soutif, curatore francese di parte della mostra
4
,
occhio imparziale perché non legato al territorio toscano, si dimostra sorpreso dalla vitalità
presente in territorio toscano, affermando in una intervista posteriore all’esposizione:
“Mi accorsi allora che la vivacità artistica del panorama toscano era assai più ricca di quanto
conoscessi. Ma è anche assai più ricca di quanto sappiano gli stessi Toscani. Tutti sanno
dell’esistenza in questa terra di un patrimonio artistico straordinario, ma troppo pochi, anche qui,
conoscono il valore di Maurizio Nannucci, Remo Salvadori, Marco Bagnoli che sono certamente
più conosciuti all’estero”
5
.
La proverbiale chiusura fiorentina all’innovazione va, quindi, ridimensionata e riferita al
livello delle istituzioni, veramente incapace di cogliere la genialità di alcune situazioni
3
Maria Grazia Messina, Arti Visive, in Continuità. Arte in Toscana 1945-2000, cit., p. 21
4
Cfr. .Continuità: Arte in Toscana 1968-1989, a cura di Daniel Soutif, Maschietto & Musolino, Pistoia, 2000.
5
Daniel Soutif in Il mio Pecci? come Beaubourg, intervista a Daniel Soutif, di Gianni Caverni. “L’Unità”, 22
febbraio 2003, pp. 17-18.
VI
locali. Ne fa fede la Biennale del Fiorino, istituita dall’Unione fiorentina che si pone fin
dall’inizio come baluardo di una supposta fiorentinità
6
e che, anche quando sembra aprirsi
a nuove proposte, ridimensiona immediatamente lo spazio concesso a tali iniziative: lo
attesta Lara Vinca Masini in un articolo a commento dell’edizione del 1969 in cui, fin dal
titolo, I fiori non colti
7
, si coglie l’amarezza insita nella polemica. La studiosa iscrive la
rassegna espositiva fra le operazioni “inutili e anticulturali”
8
che rappresenta, di fatto, un
“alibi di aggiornamento, del quale gli organizzatori si servono come di uno specchietto per
le allodole”
9
. D’altra parte, le stesse accuse degli artisti che tuonano dalle pagine di
“NAC”, nel gennaio 1973, dimostrano la presenza di forze vivide di cambiamento, non
disposte ad affievolirsi per la latitanza istituzionale
10
. Questa fervente vivacità culturale si
coglie anche nella recente testimonianza di Sandro Lombardi:
“Guru indiscusso della neoavanguardia di Firenze e dintorni era Eugenio Miccini, che incarnava la
più radicale ortodossia della poesia visiva. Poi c’era Ketty La Rocca, lunare come un Rosso
Fiorentino e androgina come un Pontormo. Il suo lavoro sconfinava nella body-art e nella
fotografia, con radiografie craniche e calligrafismi, studi sul linguaggio delle mani e inaspettate
citazioni dei classici. C’era Lanfranco Baldi (…) che era considerato in ritardo solo perchè
dipingeva stupendi quadri informali. C’era Verita Monselles, una bellezza esotica (…) che si
dedicava alla fotografia femminista. C’era Sandro Coticchia che ancora non era diventato Sandro
Chia, c’era Lorenzo Bartolini (…). C’era Maurizio Nannucci (…). C’erano i musicisti (Sylvano
6
L’equivoco storico di un concetto di Fiorentinità , inteso come difesa dei valori tradizionali e di un arcaismo di
matrice toscana e come diffidenza nei confronti di ogni forma di sperimentazione e innovazione, si genera e si
radica ,in terra toscana nei primi del Novecento, per un pregiudizio della critca del tempo. Cfr. Anna Franchi
l’Arte toscana, I, “Natura e arte”, IX, 20, 1900, pp. 646-655
7
Lara Vinca Masini, I fiori non colti. XIX Biennale Internazionale Premio del Fiorino, “NAC”, 16 giugno 1969.
8
Ibidem.
9
Ibidem.
10
Arti visive in Toscana , a cura di Carlo Cioni, “NAC”, 1, 1973, pp. 7-27.
VII
Bussotti, Giuseppe Chiari, Pietro Grossi) e le pittrici performeuses (…). C’era Antonio Bueno (…).
C’era Juan Romàn (…)”
11
.
A Firenze, infatti, si formano gruppi e centri capaci di trainare lo svecchiamento culturale
locale, quali il Gruppo 70, i Radicals, Art/tapes/22, Zona no-profit, l’associazione Vita
musicale contemporanea, capaci di convogliare in città numerose presenze straniere. Si
ridipinge, dunque, uno scenario tutt’altro che immobile, che ridimensiona, se non ribalta, il
supposto ristagno creativo locale: ed è su questo sfondo che si staglia la figura di Ketty La
Rocca.
Ci si va accorgendo, negli ultimi anni, della levatura del profilo dell’artista: lo attestano le
recenti acquisizione da parte del MOCA di Los Angeles e della Galleria d’Arte
Contemporanea di Roma, insieme alle retrospettive organizzate dalla Galerie im
Taxipalais di Innsbruck e dall’Accademia Americana di Roma. Paradossalmente, è proprio
in territorio estero che la sua fortuna non è mai declinata: Ketty La Rocca è considerata
“una delle maggiori esponenti del concettualismo italiano”
12
; al punto che la sua presenza
è ricorrente in diversi centri internazionali, a partire dalla personale al Centre d’art
Contemporain di Ginevra nel 1992, passando per Modèles Corrigées al College Marcel
Duchamp di Chateauroux nel 1996 e la mostra dedicatale all’Istituto Italiano di cultura di
Los Angeles, nel 2002, per arrivare allo spazio riservatole all’interno di Auf den leib
geschreiben, alla Kunsthalle di Vienna nel 2004. Questo sembra confermare quanto Lea
Vergine afferma a proposito del mancato adeguato riconoscimento dell’artista nel contesto
nazionale: “Se fosse vissuta in una situazione europea, francese o tedesca, avrebbe avuto
un peso diverso nel mercato e nei musei”
13
.
11
Sandro Lombardi, Gli anni felici, realtà e memoria dell’attore, Garzanti, Milano, 2004, p. 90.
12
Silvia Eiblmayr Ketty La Rocca – La poetica del visuale, in Ketty La Rocca a cura di Silvia Eiblmayr, Galerie
im Taxispalais, Innsbruck, 2003.
13
Lea Vergine, in Intervista a Lea Vergine in Ketty La Rocca Cd - Rom a cura di Michelangelo Vasta, Galleria
Emi Fontana, Lukas & Stemberg, Berlin, New York, 1988.
VIII
In Italia, dopo l’oblio che ha colpito la sua opera negli anni successivi alla sua morte, si è,
a mano a mano, ripreso il filo del dibattito interrotto sulla sua personalità, grazie
soprattutto alla ostinata attività di alcune studiose come Lara Vinca Masini — che ne cura
la fondamentale retrospettiva alla Galleria Carini di Firenze nel dicembre del 1989 — e
Lucilla Saccà — a cui si deve la ricapitolazione antologica Omaggio a Ketty La Rocca a
Roma e a Monsummano Terme nel 2001 e la recentissima pubblicazione di scritti scelti
dell’artista
14
― che ha avviato un processo di ripensamento e di rivalutazione critica del
suo lavoro. Inoltre, grazie ai premonitori studi di Lorenzo Taiuti, Gillo Dorfles e Renato
Barilli si è provveduto ad annoverare l’opera di La Rocca in video tra le più precoci
manifestazioni italiane di questa nuovo strumento comunicativo.
Se, di conseguenza, la sua opera viene oggi considerata rappresentativa di molteplici
modalità espressive e di plurime tendenze, come la scrittura visuale, il concettualismo, “il
post concettualismo iconico ed oggettuale”
15
, la body art – in generale – e le pratiche sul
gesto – in particolare–, nonché dell’arte al femminile tout court, manca ancora un
adeguato inquadramento della sua opera proteiforme che porti ad un definitivo
riconoscimento della sua figura nel panorama nazionale.
Esistono aspetti, nel suo lavoro e nel suo pensiero, non ancora convenientemente sviscerati
― quali l’interesse per l’installazione e la performance oltre che la sua collaborazione con
la rete televisiva nazionale― per cui suppliscono alla carenza di fonti scritte, spesso
ripetitive e frammentarie, le testimonianze delle figure che vi hanno collaborato in vita.
Dal mosaico di impressioni, ricordi, aneddoti, spesso carichi di ammirazione e affetto per
La Rocca, emerge il profilo di una personalità forte e determinata, malgrado le avversità,
capace di interpretare a fondo il proprio tempo e di incidere in questo modo sul suo
14
Ketty La Rocca, i suoi scritti, a cura di Lucilla Saccà, Martano, Torino, 2006
15
Lara Vinca Masini, Per Ketty 25 anni dopo, in Omaggio a Ketty La Rocca, a cura di Lucilla Saccà, Pacini,
Pisa, 2001, p. 14.
IX
contemporaneo. Per l’artista, il contesto fiorentino è fondamentale: esordisce, infatti,
all’interno del Gruppo 70, in cui si riscontrano caratteri che diventeranno basilari per tutta
la successiva sua attività. È qui, infatti, che apprende l’uso di pratiche di contaminazione
intermediali, tra cui il collage e le attività performative, con cui il gruppo persegue, con
accanimento, l’obbiettivo di un coinvolgimento totale, sinestetico del pubblico,
anticipando, di fatto, attuali opere multimediali. Tuttavia, se l’interdisciplinarietà è
programmatica di tutte le esperienze del gruppo che si pone in questo modo in linea con le
ricerche delle avanguardie primo-novocentesche, fin dall’inizio, l’opera di La Rocca
assume sfumature particolari, ponendosi in una posizione eccentrica rispetto gli altri
membri. Fin da questo momento, l’attenzione alla sua condizione femminile assume un
peso preponderante; come molte altre artiste, infatti, la de-costruzione dei linguaggi
canonici diviene pratica esistenziale per poter comporre, finalmente, un’ espressività a
propria misura: “Le donne artiste, pur non avendo alcun monopolio sullo specchio
dell’arte, riflettono tuttavia sovente una diversa visione”
16
.
Non possedendo tradizioni creative, le donne in questo momento esplorano Gli strumenti
del comunicare”
17
al fine di trovare un grado zero delle forme espressive, da cui ripartire
per costruirne una rispettosa del proprio specifico modo di essere poiché: “La donna è
nelle mani nude, con il corpo lucido che cerca le parole (…)”
18
. Tuttavia, mentre le artiste
della generazione successiva troveranno forza nel movimento propulsivo del femminismo,
Ketty la Rocca, al pari di altre sue coetanee, compie il suo cammino da sola, a partire dal
suo vissuto per muoversi in una condizione di nomade, aliena a costrutti ideologici,
attraverso i media espressivi. L’intermedialità di Ketty la Rocca assume, dunque, un
valore particolare perché diventa paradigmatica di un’ operatività al femminile che cerca la
16
Petersen Karen, Donne artiste, Savelli, Roma, 1998, p. 5.
17
Marshall Mcluhan Gli strumenti del comunicare, Mondadori, Milano, 1968
18
Ketty La Rocca, Inedito p. 12, in Ketty La Rocca, i suoi scritti, a cura di Lucilla Saccà, Martano, Torino, 2006,
p. 39
X
via della propria legittimazione individualmente, per cui il percorso artistico si pone come
percorso per la ri-appropriazione di sé. Le pratiche intermediali diventano il laboratorio
alchemico in cui l’artista smonta pezzo per pezzo i codici espressivi ― passando dal
collage, alla fotografia, al libro d’artista, alla performance e al videotape ― per rifonderli
in opere ibride che inverino la possibilità di un’ interazione profonda con il proprio simile.
È, infatti, nella reciprocità del dialogo tra l’ io e il tu che La Rocca prende consapevolezza
di sé: ed è in tale contesto che assume un valore preponderante la comunicazione non
verbale. Se il linguaggio verbale rappresenta, nelle prime composizioni logoiconiche,
l’ossessione dell’autrice, si scorge, fin da questi lavori, il sorgere di un’attenzione alla
corporeità dell’essere umano e al recupero di un sentire olistico ed emozionale, che la
condurrà ad un precoce interesse per la gestualità, soggiacente a tutto il suo lavoro, in
anticipo anche sull’affermazione della body art in campo internazionale. Il gesto, sovente
relegato in funzione ausiliaria, per l’autrice rappresenta un principio primigenio, limpido
ed incorruttibile per la relazionalità umana che essa sublima in immagini poetiche senza
tempo, in cui vi si ravvisa un’originalissima interpretazione di forme appartenenti alla
tradizione figurativa del passato.
La gestualità è il tramite di un dialogo continuo con lo spettatore che, se da una parte si
pone in linea con la ricerca atta a oltrepassare l’approccio contemplativo all’opera d’arte,
dall’altra nasce dal bisogno esistenziale di trovare la conferma del proprio essere nel
mondo nell’altro da sé. Esigenza profondissima mossa sì dal suo essere donna; ma che
viene amplificata dalla fragilità che la condanna ad una vita breve. Per raggiungere questo
obiettivo essa non esita, coraggiosamente, a servirsi dei mezzi più disparati: così La Rocca
va oltre gli stessi assunti multimediali e sinestetici di realizzazioni a lei contemporanei
XI
poiché, se “i media sono prolungamenti umani”
19
, per lei, in particolare, vi è una
contiguità fisiologica, organica ad essi; tanto che arriva a cogliere la valenza estetica e
significante delle radiografie del suo cranio che si fanno, in tale maniera, vere
estroflessioni, protesi del suo io.
Aspetto suggestivo questo che, oltre a fornire un diverso e più intenso approccio al corpo,
anche rispetto alla stessa body art, attualizza la dialettica arte / scienza / tecnologia
secondo una linea operativa che si estende fino all’ attuale arte elettronica. Persino nello
stesso uso del video, tecnica giovane, “vergine” suscettibile di essere manipolata e piegata
ad esigenze individuali, l’artista nuovamente precorre i tempi, andando oltre l’uso
documentario ausiliario a performance a cui spesso è relegato il mezzo e servendosene,
piuttosto, per la costruzione di un opera autonoma a cui affida uno dei suoi messaggi più
toccanti.
Pur attraversando tutte le tendenze a lei contemporanee, La Rocca non si lascia ingabbiare
da nessuna di queste, portando avanti scelte autonome e marcatamente individuali. Così
facendo, persegue con caparbietà un proprio discorso sustanziale alla sua vita, sfruttando a
sfondo le singole peculiarità dei media, plasmati e combinati a suo volere, per conformarli
al suo primigenio pensiero di donna, prima, e di artista, poi. Come ogni grande figura di
ogni tempo rende così possibile la trasfigurazione di tematiche afferenti al sociale, al
politico e alla sua intima, poetica dimensione privata.
19
Marshall McLuhan – Quentin Fiore, Il medium è il messaggio; Milano, Feltrinelli, 1968, p. 112.