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INTRODUZIONE
Sono una persona sorda.
È solo una frase semplice, talmente banale, forse scontata per qualcuno, ma
disarmante nella sua semplicità. Essendo persona sorda sono “diverso”, anche se cerco di
non farlo pesare agli altri: rappresento quella minoranza linguistica e culturale propria del
mondo dei Sordi. Ritengo importante considerare questo aspetto: sono diverso perché in
tutte le situazioni di confronto con gli altri mi viene ricordato o sottolineato, certe volte
con violenza, ma nonostante ciò non mi sento tale.
Ho una mia lingua, la Lingua dei Segni Italiana (LIS) e anche un’identità molto
forte, risultato di un puzzle colorato formato dalle varie esperienze personali, dai
comportamenti adottati per “sopravvivere” con il mio handicap, dalle mie facoltà
intellettuali, dalle cognizioni acquisite e dagli aspetti caratteriali plasmati dal tempo e dal
contatto con altre culture. La descrizione appena presentata è la fotografia di una persona
qualunque che si differenzia dagli altri solo per una serie di fattori come le appartenenze
sociali, la crescita, l’istruzione scolastica, la “cultura” tramandata.
Perché questa precisazione di partenza?
Oltre a essere persona sorda, ricopro da oltre 10 anni cariche elettive (attualmente
sono presidente) all’interno della Sezione Provinciale dell’Ente Nazionale Sordi della mia
provincia, La Spezia. In varie attività istituzionali, ho avuto modo di confrontarmi con
una società apertamente multietnica (quindi multiculturale? Forse solo sulla parola) ma
spesso fortemente monoculturale.
All’interno del curricolo universitario ho avuto modo di frequentare, tra gli altri,
il corso di Pedagogia Interculturale del Prof. Milan che mi ha particolarmente affascinato
e coinvolto: si è parlato di società interculturale o meglio di interculturalità
nell’educazione, nella pedagogia e nella didattica, ma sempre riferito allo “straniero”.
Sono convinto che anche il disabile sia un attore fondamentale nell’interculturalità, in
quanto portatore di una cultura diversa.
Proprio per questo motivo, nel corso di questo testo, vorrei riproporre il punto di
vista diverso: quello della sordità, analizzando l’integrazione lavorativa e la formazione
professionale in un’altra ottica, proponendo una visione interculturale d’insieme.
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Voglio quindi presentare quello che un sordo uscito dalle scuole superiori si
aspetta prima di poter accedere al mondo del lavoro, in un viaggio virtuale tra quello che
lo Stato concede attraverso le varie leggi, quello che spesso accade in realtà e quelle che
invece dovrebbero essere le buone prassi.
CAPITOLO 1
LA SORDITÀ
(a cura di Emanuele Arzà e Marianna Perale)
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1.1 Il mondo dei Sordi: questo sconosciuto.
Per capire meglio il mondo della sordità non si può fare a meno di approfondire
ed analizzare gli approcci ed i punti di vista diversi che influenzano in maniera
significativa l’integrazione scolastica, lavorativa e sociale dei sordi.
L’errore più frequente, infatti, è quello di considerare la sordità solo dal punto di
vista medico. Il messaggio subliminale passato è: “l’orecchio non funziona, quindi va
riparato”.
Albert Einstein diceva: “è più facile spezzare un atomo che un pregiudizio”. I pregiudizi
da sempre associati alla comunità dei sordi sono sostanzialmente due: “i sordi che non
sentono non possono parlare” (da qui il termine sordomuto rimasto in voga ancora oggi,
nonostante ci sia una legge – la L. 95/2006 che ha “sostituito” d’ufficio quel termine con
la parola “sordo”) e “chi usa la lingua dei segni non può parlare e non è in grado di
sviluppare un vocabolario ampio per la povertà del lessico della lingua dei segni”. A
quest’ultimo pregiudizio se ne accosta un altro, tanto più estremista quanto più errato: “i
segni uccidono la parola”. Questa ultima affermazione verrà approfondita in seguito.
Oltre al punto di vista medico e quello antropologico, sociologico e culturale,
analizzeremo anche l’approccio assistenzialistico ed il “politically correct”.
1.2 Punto di vista antropologico, sociologico e culturale
La società è definita come «insieme di persone legate da vincoli più o meno
complessi soggette da leggi e ordinamenti comuni»
1
. Può essere multiculturale quando
gli appartenenti provengono da culture diverse ma per sua stessa definizione segue
un’idea di monocultura in quanto il pensiero dominante decide leggi, ordinamenti e usi
comuni. Il professor Giuseppe Milan in una sua lezione afferma che «gli stessi individui
sono portatori di una diversità per cui è difficile parlare di un appiattimento culturale
totale» e si può aggiungere che il pensiero dominante tende ad eliminare le diversità
creando una Cultura, quella pura, quella definitiva.
1
http://www.grandidizionari.it/Dizionario_Italiano/parola/S/societa.aspx?query=societ%C3%A0, (ultima
consultazione 29/06/2013).
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La cultura nel dizionario online di Hoepli viene definita come «arricchimento
delle facoltà intellettuali individuali, perseguito attraverso l'acquisizione critica di
cognizioni ricavate dallo studio e dall'esperienza».
La cultura dei Sordi è l’espressione delle modalità relazionali che hanno le persone
sorde nello stare insieme, l’insieme dei comportamenti sociali e comunicativi che deriva
dal costruire la propria identità individuale in modo positivo, senza necessariamente
considerarsi – ed essere considerate - persone deficitarie ed inferiori. La visione culturale
della sordità è il modo positivo di affermare il diritto alla comunicazione, all’espressione
delle persone sorde: è la percezione della diversità non come menomazione fisica ma
come ricchezza.
La cultura sorda vive una situazione di assimilazione e di apartheid culturale.
L’integrazione scolastica di un bambino sordo si basa sul principio che un bambino deve
imparare a parlare bene e concentra gli sforzi unicamente sulla logopedia: in questo caso
ci troviamo di fronte ad un chiaro processo di assimilazione. Al bambino sordo viene
insegnato che “le persone devono parlare, nessuno conosce la lingua dei segni perché è
simbolo di cultura primitiva. Tu devi parlare bene perché puoi comunicare e gli altri ti
capiscono”. Poco importa se si distrugge una cultura o se il bambino diventa un robot che
parla splendidamente ma senza sapere il significato di quello che dice o, peggio ancora,
senza essere in grado di costruire autonomamente semplici frasi o di esternare sentimenti
o concetti astratti.
Se chi segue il bambino sordo assume un comportamento di stampo
assistenzialistico (“è sordo, non ce la può fare, aiutiamolo perché è una causa persa”), si
ottengono risultati disastrosi: a scuola viene proposto un Piano Educativo
Individualizzato differenziato che di fatto non gli permette di conseguire un titolo di
studio, lo si promuove comunque, a prescindere dai risultati. Il bambino sordo si convince
che non sia necessario applicarsi tanto: ci pensano altri a farlo per lui. Nella sua psiche
rimane un pesante fardello di negatività: egli stesso si vede senza futuro e senza
potenzialità.
La cultura sorda ha vissuto anni di ghettizzazione quando l’istruzione obbligatoria
imponeva la frequentazione degli istituti speciali: i sordi si incontravano nel cortile o nelle
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aule e si scambiavano nozioni ed informazioni nella loro lingua naturale che rimaneva
così chiusa nelle mura degli Istituti.
Chi nasce sordo o perde l’udito nei primi anni di vita non riesce ad imparare il
linguaggio allo stesso modo e negli stessi tempi di una persona udente: viene definito
“sordomuto” ma è un termine che non descrive la situazione reale. Tale termine, ancora
usato dagli “esperti del settore”, è stato sostituito con “sordo”
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e ha dato origine a molti
equivoci perché suggerisce un mancato o un difettoso funzionamento dell’apparato
vocale dei sordi. In realtà esso è perfettamente integro, a meno non siano presenti altre
specifiche patologie. Il sordo, attraverso un processo di addestramento al linguaggio, può
imparare a parlare.
Per l’approccio clinico la persona sorda non educata al linguaggio vocale è muta
mentre in una prospettiva socioculturale ogni persona comunica quando si impadronisce
degli strumenti per esternare un messaggio, a prescindere dal linguaggio adottato. Non è
il modo bensì la facoltà di linguaggio che non dipende dall’apparato fono articolatorio
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e
consente ai sordi di costruire la comunicazione e di uscire dal mutismo
4
.
Ogni bambino grazie alla facoltà di linguaggio impara una lingua a condizione
che venga esposto a quella stessa lingua. Però per esserlo bisogna sentire e comunicare
con l’ambiente circostante in quella lingua e l’udito è fondamentale per poter imparare a
parlare. La sordità impedisce il processo di comprensione e produzione. Non sentendo la
lingua parlata, è impossibile imitare i suoni dell’ambiente, non c’è un feedback acustico
sulle produzioni e non si può comunicare con gli altri. Per questi motivi la facoltà di
linguaggio subisce un arresto o un ritardo forzato.
Grazie ad un ambiente linguistico adeguato la facoltà di linguaggio si può
realizzare entro il periodo di età critico (4-5 anni): questo è sostenuto da studi su
particolari casi in cui la facoltà di linguaggio non si è sviluppata nei modi e nei tempi
corretti. Nel 1797 Jean Marc Itard, un medico dell’Istituto dei Sordomuti di Parigi, ha
studiato ed ha tentato di rieducare Victor, conosciuto come il ragazzo selvaggio
dell’Aveyron, un bambino cresciuto nella foresta, lontano da stimoli linguistici umani e
2
Articolo 1 Legge 20 febbraio 2006, n. 95.
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Saussure F. de, Corso di linguistica generale, Bari, Laterza, 1990, pp. 19 – 20.
4
Caselli M. C., Maragna S., Volterra V., Linguaggio e sordità. Gesti, segni e parole nello sviluppo e nell’educazione,
Bologna, Il Mulino 2006, p. 19.