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PREMESSE
Nel corso degli anni che ci separano dalla nascita della CEE, in seguito ai Trattati
di Roma del 25 Marzo 1957 (entrati in vigore il primo Gennaio 1958), si è
sviluppato un processo graduale culminato nell‟introduzione dell‟Euro quale
moneta comune nel 1999.
La realizzazione dell‟Unione economica e monetaria venne decisa, com‟è noto,
con il trattato di Maastricht siglato dai 12 Paesi membri dell‟allora CE nel 1992.
Tra le altre cose esso prevedeva la fondazione, entro il 1999, della BCE a partire
dall‟IME (Istituto monetario europeo), e del SEBC (Sistema europeo delle Banche
Centrali) quale coordinatore della politica monetaria unica.
Il processo di transizione dalle monete nazionali all‟Euro venne suddiviso, come
vedremo
1
, in due fasi: durante la prima le valute nazionali avrebbero continuato a
circolare a tassi di cambio fissi con l‟Euro mentre nella seconda le singole
economie avrebbero dovuto dimostrare di rientrare nei parametri stabiliti dal
Trattato per completare il passaggio alla moneta unica.
L‟unione monetaria si è compiuta il 1° Gennaio 1999 quando l‟Euro è entrato in
vigore in 11 degli allora 15 Paesi UE cui si è aggiunta la Grecia nel 2001.
Oggi l‟Eurozona comprende 16 Paesi sul totale dei 27 membri UE; l‟ultima ad
adottare la moneta unica è stata la Slovacchia nel 2009.
Durante questo mezzo secolo svariati studi si sono occupati di analizzare le
conseguenze della creazione del Mercato Comune sull‟economia italiana.
La teoria cui si ispira il presente lavoro è però più risalente essendo stata
formulata già nel 1950 da Jacob Viner
2
il quale per primo si occupò di studiare gli
effetti delle Unioni Doganali.
L‟attenzione di Viner si concentrò soprattutto sugli effetti statici delle unioni,
ovvero sulle variazioni di volume e direzione degli scambi che discendono
direttamente dalla creazione di una tariffa esterna comune e dal contemporaneo
abbattimento delle divisioni doganali interne.
Naturalmente tra gli effetti statici si possono distinguere quelli interni (creazione
o deviazione di commercio interno all‟unione) da quelli esterni (creazione o
deviazione di commercio esterno ed eliminazione di commercio).
1
Vedi infra, Cap. I, par. 4.2.
2
Viner J. (1950).
2
Analizzando in particolare i vari effetti si ha creazione di commercio interno
qualora uno o più paesi membri sostituiscano beni di produzione propria con beni
importati da un altro membro che riesca a produrli a costi più bassi; la deviazione
di commercio interno si verifica invece quando alle importazioni provenienti da
un paese terzo si sostituiscano quelle da un altro membro favorito
dall‟abbattimento dei dazi. Questi due effetti sono strettamente collegati
all‟eliminazione degli oneri doganali interni; gli effetti esterni derivano invece
dalla creazione di una tariffa esterna comune.
Nel processo di adattamento alla tariffa comune, infatti, i singoli stati membri
dovranno alzare o abbassare le loro tariffe doganali originarie, modificando così le
scelte dei consumatori i quali potrebbero, per convenienza, sostituire beni di
produzione interna con importazioni provenienti da paesi terzi all‟unione,
verificando così un caso di creazione di commercio esterno.
All‟estremo opposto si situa l‟effetto eliminazione di commercio il quale si
verifica qualora a beni importati dal resto del mondo si sostituiscano beni di
produzione interna.
Si ha invece una deviazione di commercio esterno quando le importazioni da un
paese terzo vengono sostituite da importazioni derivanti da un altro paese membro
(deviazione di commercio dal lato della domanda
3
).
Accanto agli effetti statici esistono poi anche quelli dinamici, di difficile riscontro
in quanto riguardano direttamente le dimensioni aziendali, le economie di scala ed
il livello della ricerca tecnologica; ovvero indicatori complessi non enumerabili.
Per valutare nel complesso gli effetti di una unione doganale occorre quindi
calcolare, prodotto per prodotto, l‟entità degli effetti statici elencati e verificare se
l‟effetto creazione di commercio (esterno o interno) superi oppure no gli effetti di
deviazione ed eliminazione di commercio, giudicati entrambi come negativi.
Naturalmente gli effetti più clamorosi, che siano di creazione o di deviazione di
commercio, si verificano indicativamente entro il primo decennio dalla creazione
di una Unione.
Nel presente lavoro si è dunque tentato di individuare un evento, una fase di
realizzazione dell‟UEM, particolarmente significativo ed in grado di fare da
spartiacque temporale per le verifiche eseguite.
3
Falcone F. (1975).
3
Si è dunque scelto come “anno zero” il 1999, anno di introduzione della moneta
unica e di pieno compimento della UEM per verificare se ed in quale misura tale
“rivoluzione monetaria” abbia influito sul commercio estero italiano. L‟arco
temporale considerato va quindi dal 1991, dall‟inizio cioè del decennio di
Maastricht, al 2008; a cavallo dunque dell‟introduzione de lla moneta unica.
Negli studi analizzati, come vedremo, la divisione dei prodotti in settori
merceologici al fine di effettuare tale calcolo avviene seguendo la teoria del ciclo
del prodotto, formulata da Vernon
4
negli anni Sessanta, in base alla quale ogni
prodotto dal momento in cui viene introdotto sul mercato passa attraverso tre fasi
distinte.
In un primo momento infatti il prodotto nuovo, perché non presente prima sul
mercato o perché ottenuto mediante un procedimento sconosciuto in precedenza,
viene realizzato su piccola scala da imprese dotate di manodopera altamente
qualificata e questo avverrebbe solitamente in Paesi industrializzati e
notevolmente avanzati. In questa prima fase il prodotto sarebbe caratterizzato da
una bassa elasticità-prezzo della domanda dovuta anche alla posizione di
temporaneo monopolio tecnologico in cui si viene a trovare l‟azienda produttrice.
Successivamente il processo di lavorazione si tipizza, ha inizio la produzione di
massa e nuove imprese fanno il loro ingresso sul mercato; in seguito a questa
nuova concorrenza aumenta l‟elasticità-prezzo della domanda e le imprese
tenderanno a differenziare il prodotto per mantenere la loro posizione sul mercato.
E‟ in questa fase che anche Paesi meno avanzati comincerebbero ad adot tare le
innovazioni ed investire nella produzione.
Infine le caratteristiche del prodotto ed il relativo processo produttivo si
standardizzano, dando inizio alla fase finale o del prodotto maturo, per il quale
assume una sempre maggiore importanza la concorrenza in termini di prezzo e la
cui produzione sarebbe ormai avviata a realizzarsi soprattutto in Paesi di nuova
industrializzazione e PVS, i quali godrebbero di un vantaggio comparato in
termini di minor costo della manodopera e di un minore svantaggio comparato in
ordine alle loro scarse efficienza tecnologica e capacità di marketing
5
.
Nel corso degli anni Ottanta e Novanta la teoria del ciclo del prodotto ha
però perso gran parte del suo potere esplicativo a causa dello sviluppo di tipi
4
Vernon R. (1966).
5
Falcone F. (1980), p. 837.
4
sempre nuovi di innovazioni tecnologiche, riguardanti anche e soprattutto i
processi produttivi, le quali hanno inciso su settori tradizionalmente considerati
“maturi”. A causa di questi nuovi tipi di innovazione non sarebbe più possibile
situare una produzione in una fase del ciclo piuttosto che in un‟altra per il
semplice trascorrere del tempo.
Si è dunque tentato di elaborare una classificazione dei settori industriali basata su
fattori diversi da quelli utilizzati da Vernon, alla luce anche del fatto che non
sempre l‟azienda che produce un‟innovazione ne è poi la maggiore beneficiaria.
Proprio da questa considerazione parte, ad esempio, lo studio di Pavitt
6
il quale
prende in considerazione la natura e la fonte dell‟innovazione prodotta, la
provenienza della tecnologia usata e le caratteristiche dell‟azienda innovatrice per
creare un modello del progresso tecnico inglese dal secondo dopoguerra agli anni
Ottanta. Attraverso il suo studio Pavitt giunse ad una nuova classificazione delle
imprese, dividendole in:
- Supplier dominated: situate in settori tradizionali, sfruttano soprattutto
innovazioni provenienti da altre aziende;
- Production intensive: quelle di grandi dimensioni, che sfruttano le
economie di scala e innovazioni per gran parte prodotte al loro interno;
- Science based: imprese chimiche, elettriche o elettroniche, sviluppatrici di
innovazioni di prodotto o di processo sfruttabili anche in altri settori.
In base a questa classificazione i settori di tipo tradizionale non sono dominati
dall‟assenza di novità tecnologiche ma hanno scarsa capacità innovativa e
dipendono per questo da settori maggiormente produttivi in termini di
innovazione.
Nessuna delle suindicate classificazioni verrà però utilizzata nel presente
lavoro il quale rifacendosi ai dati presentati annualmente dall‟ICE nei suoi
rapporti sul commercio estero adotterà la divisione in settori produttivi proposta
dall‟Istituto, ovvero quella ATECO.
La classificazione alfanumerica ATECO è infatti quella adottata dall‟ISTAT,
Istituto Nazionale di Statistica italiano, per le rilevazioni di carattere economico,
nella quale le unità di produzione vengono divise in base all‟attività svolta.
6
Pavitt K. (1984).
5
L‟acronimo ATECO sta ad indicare “attività economica” ed è la traduzione
italiana della NACE, Nomenclatura delle Attività Economiche creata dall‟Eurostat
ed adattata dall‟ISTAT al nostro sistema economico; attualmente è in uso la
versione ATECO 2007, che dal Gennaio 2008 ha sostituito l‟ATECO 2002.
7
Lo studio qui condotto si propone di verificare l‟andamento delle
esportazioni italiane dell‟ultimo ventennio alla luce della sempre più completa
integrazione europea per verificare in che modo questa abbia influito sulla
specializzazione industriale del nostro Paese e se abbia dato origine ad una
diversione dei traffici.
In primo luogo si è tentato di fornire un rapido quadro riassuntivo dell‟evoluzione
economica italiana dal secondo dopoguerra ad oggi congiunto alla disamina delle
tappe fondamentali per la creazione dell‟Unione Europea.
In secondo luogo si è ritenuto opportuno riportare i risultati dei più analitici studi
sul tema compiuti dagli anni Settanta al 1990 dalla Dott. Falcone, i quali hanno
fornito la base metodologica indispensabile alla realizzazione dello studio.
Infine e naturalmente sono riportati i risultati ottenuti tramite l‟analisi effettuata
sui dati relativi agli anni dal 1991 al 2008.
7
Per l’elenco delle categorie merceologiche ATECO2002 vedi infra Appendice.
6
CAPITOLO PRIMO
L’Italia e l’integrazione economica europea
Gli stati europei sono divenuti
un anacronismo storico.
Luigi Einaudi, 1918
La storia economica del nostro Paese si può dividere a grandi linee in quattro
principali periodi: la ricostruzione post-bellica, i due decenni del miracolo
economico, la crisi internazionale degli anni Settanta e Ottanta ed infine la svolta
intrapresa nel corso degli anni Novanta
8
.
Nel corso di questo capitolo ci si propone di analizzare sinteticamente per ognuna
di queste epoche l‟andamento del commercio estero italiano alla luce anche degli
avanzamenti nel processo integrativo europeo.
1. La fine dell’autarchia: il periodo della ricostruzione
All‟indomani del secondo Conflitto Mondiale il nostro Paese si trovava di fronte a
scelte obbligatorie e fondamentali riguardo la direzione che il sistema economico
avrebbe dovuto intraprendere oltre che a dover fronteggiare le eredità del
ventennio fascista.
Nonostante i risultati delle elezioni del 18 aprile 1948 consentissero alla DC di
governare da sola, De Gasperi preferì formare un governo quadripartito
comprendente PLI, PRI e PSLI, dando inizio alla formula centrista destinata a
durare, pur con vita spesso travagliata, una quindicina di anni.
Se da un lato, infatti, questa formula consentiva al Governo di rappresentare un
arco di posizioni più ampio, presente nel Paese al di là dei risultati elettorali,
nonché di mettere al riparo il partito di maggioranza da tentazioni interne di natura
confessionale, dall'altro lato portava in sé i germi di una intrinseca debolezza
dovuta all'inconciliabilità delle posizioni rappresentate dai partiti minori ed
all'interno dello stesso partito cattolico.
Spesso, infatti, come venne alla luce in occasione di provvedimenti significativi
quali la riforma agraria, la coesistenza tra istanze di rinnovamento (rappresentate
8
Battilani P., Fauri F. (2008).
7
dalla componente socialista e dalle correnti cattoliche di sinistra) e posizioni
moderate e conservatrici (delle quali erano espressione i liberali e le correnti di
destra della Dc) si rivelava assai difficile e finiva di risolversi in compromessi
scarsamente efficaci quando non paralizzava l'attività di governo.
L'elemento di coesione della coalizione era piuttosto quello di ordine
internazionale, e precisamente l'adesione al blocco occidentale in funzione
anticomunista. Non si deve infatti dimenticare che in questi anni la guerra fredda
raggiunse i toni più alti con gli Stati Uniti che configuravano sempre più gli aiuti
economici quali strumenti di sostegno "ai popoli amanti della libertà .. contro i
movimenti aggressivi che cercano di imporre i propri regimi totalitari" (come
asserito dal presidente Truman all'inizio del 1947). Dopo accesi dibattiti e non
senza forti riluttanze e perplessità, l'Italia aderì al Patto Atlantico (firmato il 4
aprile 1949) e da quel momento l'atlantismo rappresentò un elemento di coesione
capace di mettere in ombra i dissensi interni alla coalizione su molti problemi.
Ricordiamo tra i lasciti del regime gli altissimi dazi e contingentamenti
che erano stati adottati nel tentativo di far raggiungere allo Stato un livello di
autarchia pressoché totale e l‟esistenza di strumenti di intervento economico quali
l‟IMI e l‟IRI che vennero mantenuti anche nel periodo in esame. A questi ne
vennero affiancati altri, come il CIR, Comitato interministeriale per la
ricostruzione, con il compito di elaborare piani soprattutto concernenti i fini e i
criteri per l'utilizzazione e la distribuzione degli aiuti esteri. Il Comitato avrebbe
potuto assumere un ruolo programmatorio efficace ma nell‟ottica liberista che
come vedremo verrà adottata in questi anni, gli interventi furono gestiti a livello
meramente amministrativo, in base a criteri automatici o di natura tecnica circa la
solvibilità del beneficiario, senza direttive o controlli di natura politica sulla
localizzazione delle attività (soprattutto degli investimenti), sugli effetti
occupazionali e sulle implicazioni di mercato. Quindi la finalità degli aiuti si
riduceva alla modernizzazione tecnica ed organizzativa dell'apparato industriale
ed alla creazione di condizioni di competitività internazionale. Analoghe
considerazioni valgono per i rilevanti finanziamenti gestiti dall'IMI, con garanzia
dello Stato, a favore delle imprese industriali per potenziarne la capacità di
produzione e di esportazione; così come per i compiti inizialmente svolti dal FIM,
fondo per l'industria meccanica, costituito nel settembre 1947 con una dotazione
di 55 miliardi di lire, allo scopo di finanziare programmi di esportazione e di
8
aumento di capitale delle industrie meccaniche in difficoltà a causa delle misure di
stabilizzazione della lira, nonché per agevolare le imprese meccaniche stesse
nella cessione di partecipazioni in altre società
9
.
Alla stessa logica di supporto, senza limitare la libertà di scelta e di indirizzo
dell'impresa, si conformavano, infine, anche gli interventi di natura strettamente
finanziaria a favore delle medie e piccole imprese, realizzati creando l'apposita se-
zione di credito speciale presso la Banca Nazionale del Lavoro ed i Mediocrediti
regionali.
Era però indispensabile che il nostro Paese, per ottenere un livello di
crescita accettabile, raggiungesse un grado adeguato di apertura essendo
tradizionalmente povero di materie prime; questa penuria ha sempre fatto sì che
gli sviluppi industriali nella nostra economia fossero basati sulla trasformazione di
materie prime derivanti dalle importazioni. Allo stesso tempo queste ultime
necessitano di paralleli flussi di esportazioni per il loro finanziamento.
L‟alternativa fondamentale che si poneva al Governo nell‟immediato
dopoguerra era quella tra l‟adozione di un modello di mercato caratterizzato da
uno Stato “dirigista”, nel quale la distribuzione delle risorse venisse subordinata
ad un programma sociale stabilito a livello politico ed uno “liberista”, quale mero
garante dell‟osservanza delle regole, lasciando dunque all‟iniziativa privata il
compito di prendere in mano le redini della ricostruzione economica.
La via intrapresa in quegli anni dallo Stato italiano rappresentò una sorta di
compromesso, tanto da venire definita “protezionismo liberale” in quanto si
discostava dal modello dirigista evitando di assumere un ruolo di guida forte per
l‟economia e al contempo manteneva ampi spazi di intervento sotto forma di
supporto e sostegno per l‟industria privata e partecipazione e diretta gestione di
imprese fondamentali per la ripresa quali quelle del gruppo IRI.
IRI e Agip svolgevano una funzione complementare in questo senso. Come noto,
secondo la teoria economica, l'impresa pubblica trova la sua giustificazione
quando si tratti di erogare servizi sociali o produrre "beni meritevoli",
sostituendosi all'impresa privata non già per operare al di fuori di norme di e-
conomicità produttiva, ma per consentire, non attenendosi al criterio del massimo
profitto, un consumo maggiore di quanto accadrebbe con l'impresa privata. Inoltre
9
A tale scopo, il FIM acquistava dalla imprese metalmeccaniche le loro partecipazioni (azioni) in
società di altri settori (come aveva fatto l'IRI all'inizio degli anni trenta).
9
la presenza pubblica trova giustificazione in caso di pericolo di controllo
monopolistico del mercato e quindi quale strumento per stimolare la concorrenza.
Ora, nel caso delle imprese facenti capo all'IRI (la cui sopravvivenza
nell'immediato dopoguerra era stata seriamente messa in discussione in quanto
strumento dirigistico fascista), in luogo di quelle funzioni veniva svolto un duplice
compito coerente con il ruolo attribuito all'intervento pubblico: da un lato
concorrere allo sviluppo economico in funzione di supporto all'iniziativa privata,
con investimenti strumentali rispetto a quelli privati, in settori strategici come la
siderurgia (parallelamente al compito svolto dall'Agip nel campo energetico);
dall'altro lato assorbire manodopera disoccupata in imprese di fatto non
assoggettate alle regole di mercato, per contribuire così alla mediazione con
interessi generali diversi dallo sviluppo industriale, necessaria per acquisire un
adeguato consenso.
La cosiddetta “scelta” del modello economico adottato non avvenne però,
è bene ricordarlo, a seguito di un dibattito bensì fu realizzata tramite successive
azioni di governo rese via via necessarie da problemi urgenti, il che impedì la
realizzazione di un piano programmatico; in questo senso si può affermare che la
scelta liberista avvenne “sotto il ricatto della congiuntura”.
Proprio negli anni della ricostruzione si collocano poi quelle scelte che si
riveleranno fondamentali per il successivo inserimento dell‟Italia nel mercato
internazionale: da un lato l‟abbattimento dei dazi doganali in seguito agli accordi
di Bretton Woods con il successivo ingresso nel FMI; dall‟altro l‟avvio del
processo di integrazione europea con la creazione dell‟OECE
10
per l‟attuazione
del Piano Marshall e della CECA per la fusione dei mercati di carbone e acciaio.
Si ricorda che nel 1951 l‟Italia abolì le restrizioni quantitative sul 99,7% del totale
degli scambi, diventando il Paese con il maggior grado di liberalizzazione
all‟interno dell‟OECE.
La progressiva liberalizzazione degli scambi che si è così attuata ha portato
rapidamente ad un significativo aumento delle esportazioni che cominciarono a
ricoprire un peso sempre maggiore sulla domanda aggregata contribuendo alla
crescita senza precedenti di quegli anni, non a caso ricordati come gli anni del
“Boom”. Inoltre in quegli stessi anni (in particolare, a partire dal 1947) furono
10
Organizzazione Europea per la Cooperazione Economica.
10
create alcune premesse fondamentali per la crescita accelerata dell'economia negli
anni cinquanta: con la manovra di stabilizzazione realizzata da Einaudi nel 1947
fu assicurata la stabilità della Lira e del suo rapporto di cambio con le monete
occidentali. La riduzione del peso politico del movimento sindacale e
l'emarginazione dei partiti di sinistra crearono invece quel clima di "pace sociale"
e di stabilità politica, pur nella brevità della durata dei governi, che fu un
prerequisito importante per la sostenuta crescita dell'economia, interamente
affidata all'iniziativa privata, pur con supporto massiccio dell'intervento pubblico.
La frequenza con la quale in questi anni (e durante gli anni '50) si verificarono
scioperi accompagnati da scontri con la polizia (e relativo bilancio di feriti e non
di rado di morti) non deve infatti far pensare ad un movimento sindacale forte ed
aggressivo; al contrario il ricorso allo sciopero era espressione del tentativo di
opporsi ad una tendenza la quale nel complesso finiva per porre a carico del
lavoro dipendente una quota crescente dell'onere per la formazione di capitale che
avrebbe reso possibile la rapida crescita degli anni del "miracolo economico".
Dal punto di vista quantitativo, secondo molti indicatori, la
ricostruzione poteva dirsi completata già nel 1947 ma restavano ancora da
eliminare alcune delle restrizioni alla libertà di iniziativa degli operatori privati,
soprattutto con riferimento al commercio con l'estero.
L'inflazione era riportata sotto controllo, la produzione dava segni di ripresa già
nella primavera 1948, tendenza che si mantenne nei due anni successivi cosicché
anche le condizioni di vita della popolazione migliorarono lentamente, come
dimostra il tasso di crescita del prodotto reale pro capite
11
.
Non vennero peraltro compiuti significativi passi avanti per riassorbire la
disoccupazione che, aumentata rapidamente nel primo semestre 1948 (da meno di
due milioni a circa 2.400.000 unità), non mostrò segni di consistente riduzione
prima del 1951.
D'altro canto, la linea di politica economica del governo era quella di Einaudi,
realizzata – dopo la sua elezione a Presidente della Repubblica - dal democristiano
Pella il quale, come Ministro del Tesoro, continuò nella politica di austerità volta
ad assicurare stabilità monetaria e pareggio del bilancio dello Stato anche se,
11
Il quale registrava i seguenti tassi: 4,5% nel 1948, 3,4% nel 1949 e 5,8% nel 1950.