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INTRODUZIONE
Il presente lavoro nasce da una vera passione per ciò che è più umanamente
connesso all’uomo, la sua consapevolezza. Ancora di salvezza tra gli
accadimenti della vita, ma anche riflesso di una immagine interiore
ineludibile, l’insight è l’approdo di una personale curiosità nei confronti di ciò
che, giornalmente, osiamo pensare di sapere. È facile intuire come l’insight sia
una dimensione che, a partire dalle esperienze più comuni, attraversa le
riflessioni cliniche sino ad abbracciare dilemmi psicopatologici ed esistenziali.
Come è noto, ogni essere umano è dotato di una conoscenza di sé, degli altri e
del mondo ma a tale concetto può essere attribuita una parvenza di ovvietà.
In effetti, il grado di consapevolezza che ci permea è un forte condizionatore
delle nostre attività interne ed esterne. Tale consapevolezza è ancora più
rilevante quando ci si approccia alla sofferenza mentale. A tal proposito,
parlare di insight significa articolare una riflessione su quanto, come, perché e
se, sia importante che una persona sia consapevole di essere portatrice di un
disturbo mentale. Quali si rivelano essere le ricadute principali ai fini del
trattamento? E ancora, in che modo l’insight si concilia con la psicosi? Come è
possibile, in questi casi, agire in favore di una consapevolezza che, spesso,
sembra essere totalmente evaporata via dal paziente? Ma soprattutto come è
possibile concepire, qualitativamente, l’insight? Italo Svevo (1923) scriveva che
“la salute non analizza se stessa e neppure si guarda allo specchio. Solo noi
malati sappiamo qualche cosa di noi stessi”. Prendendo a prestito questa
intuizione, si intende sottolineare la prospettiva soggettiva del paziente come
irrinunciabile punto di svolta entro un tema tanto vasto, quanto difficilmente
riducibile. Attraverso una revisione completa della letteratura presente,
innanzitutto, nel primo capitolo ci si propone di porre le basi utili per
delimitare una concezione di insight che renda giustizia alle sue radici
terminologiche, nonché alle sue evoluzioni di significato. Successivamente si
incontrano le visioni specifiche maturate dal mondo psicoanalitico e dalla
psichiatria passata e moderna. Preciso intento di questo confronto è quello di
valorizzare sfumature di significato diverse, ma non antitetiche, che
confluiscono in una ricognizione dell’insight dotata di largo respiro. Non
meno rilevante è il poter prendere visione di quanto questo concetto sia intriso
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di variazioni culturali che non possono essere trascurate, soprattutto in fase di
valutazione al trattamento e durante lo stesso. Il secondo capitolo si sofferma
maggiormente su coloro che, più di altri, sono esposti alla possibilità di uno
scarso, se non assente insight. In accordo con Pinel (1801), sin da ora si vuole
affermare che nessun malato è totalmente tale, quindi la psicosi si presenta
come una interessante porta di entrata: la schizofrenia, emblema da sempre
della follia classica, non può ridursi ai concetti di compliance al trattamento.
L’insight, in questi pazienti, ha numerosi risvolti ed alcuni di essi sfidano il
senso comune: maturare la consapevolezza di essere malati non è sempre una
necessità, bensì in certi casi può avere degli effetti deleteri, perciò è utile
esplorare le funzioni che l’insight assolve, in tutti i suoi aspetti. Inoltre, l’insight
non riguarda certamente solo questi pazienti, al contrario, sempre più
evidenze ricollegano il suo ruolo ad altri disturbi, tra i quali figurano le
condizioni maniacali, il disturbo depressivo e i disturbi d’ansia. Le differenze
sostanziali tra il tipo di disturbo e il tipo di insight sono sempre mediate dalla
posizione che assume la cura. In virtù di ciò, il terzo e ultimo capitolo si
sofferma sulle modalità con le quali è possibile migliorare l’insight. Esistono
strategie generali e specifiche, nonché declinazioni speciali per arrivare al
cuore del problema. Ne sono esempio le terapie familiari e gruppali, fonti
irrinunciabili in cui può essere possibile pensare insieme ciò che non è
possibile pensare da soli. Infine, un tassello di non poco conto in questa
riflessione è quello che riguarda il curante: un posto centrale è occupato dal
valore del lavoro congiunto tra chi sembra aver smarrito una propria
consapevolezza e chi, invece, ha il compito di risvegliarla. L’insight, come
declinazione duale paziente-terapeuta, si configura non solo come obiettivo di
un miglioramento personale delle condizioni del paziente, ma soprattutto
come predisposizione. Il concetto di insight, anche quando non fa parte di un
progetto di cura formulato, trova una sua collocazione sovra-generale. Il
riferimento è al concetto di insight nella sua potenza pratica, intesa come
massima fiducia nella possibilità che il paziente, qualsiasi paziente, possa
sviluppare l’attitudine al fare spazio a verità collocabili dentro di sé,
intensamente partecipate a livello interiore. Prerequisito di questa fiducia
operativa è un aggancio forte, in primis al terapeuta, colui che rappresenta
l’Altro per il paziente. Probabilmente è questo l’approdo più attuale
dell’insight: scindere il concetto da una sua rappresentazione individuale, da
una sua attribuzione totale al paziente per esaltare la relazione terapeutica
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come specchio in cui potersi finalmente conoscere, senza timore del riflesso
che potrebbe provenirne. Lo specchio non è mai la riproduzione fedele della
realtà interiore ma è metafora della riproduzione simultanea di due contributi,
di due menti che si conoscono per avvicinarsi all’essenza del conoscere se
stessi.
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Capitolo 1
UNA CORNICE PER L’INSIGHT TRA SIGNIFICATI E
TRASFORMAZIONI
“La grandezza dell'uomo non consiste nell'essere felice, ma nell'essere consapevole.”
GEORGES MINOIS (Storia del mal di vivere, 2003)
1.1 Le origini dell’insight
Parlare di insight significa retrodatare il concetto alla famosa formulazione greca
“Conosci te stesso”, massima religiosa incisa sul frontone del tempio di Apollo a
Delfi, che ha ispirato numerose dissertazioni filosofiche fino a diventare eredità
del pensiero umano. Del resto, secondo Blackburn (1999), i grandi temi della
filosofia sono da sempre: la conoscenza, la ragione, la verità, la mente, la libertà,
il destino, l’identità, la divinità e la giustizia. L’ insight incarna un enigma antico
e al contempo attuale, probabilmente insito in qualsiasi riflessione che riguardi
l’esistenza; la sua complessità traspare, in prima battuta, dalle mutevoli
definizioni che lo accompagnano. Nel linguaggio comune, l’insight indica la
capacità di discernere la vera natura di una situazione, invece in riferimento al
lessico psicologico, il termine è più facilmente impiegato che definito (Tranulis,
Corin & Kirmayer, 2008). Emblematico è il contributo di Fulford (1989), il quale
ha avvicinato il concetto di insight a quello di tempo, per cui entrambi sarebbero
concetti di livello superiore cioè macrocontenitori di significato. Anche Zilboorg
(1952, p.149) ha precisato come il termine insight sia:
“una parola che ci arriva, per così dire, dal nulla;
nessuno sa chi la abbia impiegata per primo e con quale significato”.
In assenza di una definizione unica, l’Oxford Dictionary (1989) fa risalire il termine
inglese insight a internal insight, cioè sguardo interiore, guardare con gli occhi
della mente, avere uno sguardo che va oltre la superficie. L’etimologia del
termine significa proprio entrare (in-) e vedere (-sight) cioè «vedere in
profondità», «scorgere dentro». Lakoff e Johnson (1999) hanno notato che gli
eventi di insight possono essere descritti con una mole di metafore; in particolare
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tre sono le radici metaforiche più ricorrenti: percepire/sentire, penetrare/entrare
ed entrare in possesso. Esse definiscono l’insight come un movimento psichico,
un oggetto mentale (American Heritage Dictionary, 1981). In base ad un lavoro di
decodifica di linguaggio, Elliott (1984) ha analizzato i termini usati come indici
di insight che compongo le relative metafore:
insight come risposta ad un interrogativo;
insight come una scoperta, una ricerca;
insight come penetrazione cioè comprensione;
insight come stabilire connessioni cioè accostare le ragioni;
insight come cosa/oggetto;
insight come vigilanza (aware).
Berrios & Markovà (2004) hanno sottolineato che il termine esiste in forma
unitaria solo nelle lingue di ceppo germanico, mentre in quelle latine (francese,
spagnolo, italiano, portoghese, romeno) può assumere diverse traduzioni. La
parola tedesca Verstehen si riferisce alla comprensione e all’introspezione e può
essere considerata come la totalità dello stato mentale ed esistenziale, inclusi gli
aspetti non consci (Danziger, 1980; Ghaemi, 2003). Ritter nel 1972 ha constatato
che il termine tedesco insehen risale agli scritti mistici medioevali col significato
di “guardare dentro”. Tale denotazione religiosa fu sostituita dalla più diretta
espressione tedesca Einsicht (testimonianza personale) che i fratelli Grimm (1862)
hanno tradotto in latino con i termini intelligentia e judicium. Adelung (1811) ha
definito l’insight come “comprendere il senso di qualcosa”. Nel linguaggio
psicologico italiano il termine insight si avvicina a quello di “presa di coscienza”
o “intuizione”, concetti che, a loro volta, meritano una chiarezza terminologica
per evitarne un utilizzo intercambiabile. Dispine (1875) ha proposto di utilizzare
il termine “consciense” per indicare la conoscenza di ciò che è giusto o sbagliato;
quanto all’intuizione, essa è diventato un vero e proprio argomento scientifico a
partire dagli inizi del XX secolo, in virtù delle scoperte che furono effettuate nel
campo della fisica e della matematica. Welling (2005) ha individuato undici
significati di intuizione:
il senso di una soluzione o la conoscenza che esiste una soluzione migliore
di quella attuale;
la conoscenza che qualcosa rispetto a una soluzione è sbagliata o
mancante;
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la comparsa di eloquenti immagini visive, parole, ricordi o sensazioni
cinestesiche;
un fenomeno di incubazione;
avvertimento, una sensazione strane e misteriosa;
conoscenza di se stessi, conoscenza interiore;
la prima impressione dell’affidabilità di una persona;
l’istinto, la sensazione di pancia nelle decisioni;
un sospetto, una scelta;
ispirazione artistica e creatività.
L’intuizione non è stata indagata nelle ricerche psicologiche in quanto è stata
considerata dapprima come un fenomeno soprannaturale e poi come una facoltà
intellettuale troppo impregnata a livello emotivo. Già la filosofia classica con
Platone e Aristotele aveva distinto la conoscenza dimostrativa delle “cause” dalla
conoscenza intuitiva come comprensione della natura essenziale di un fenomeno,
facoltà intesa in termini moderni come intuitive awareness, “consapevolezza
intuitiva” (Sumedho, 2004). Gli psicologi sono stati a lungo riluttanti
all’esplorazione dell’intuizione ma, nel tentativo di esprimere istanze
maggiormente scientifiche, hanno parlato di “conoscenza implicita” o di
“formazione di un concetto preverbale” (Charles, 2004) fino all’adozione del
termine insight. Secondo Bastick (1982) la differenza tra i due termini risiederebbe
nel fatto che l’intuito è più antico e più diffuso rispetto all’insight e che
quest’ultimo presenta maggiori caratteristiche di “scientificità”. Considerando
ulteriori termini contigui tra loro, si precisa che l’autoconoscenza, rispetto
all’insight, non è necessariamente nuova, né conscia poiché può essere implicita
o inconscia. Anche la retrospezione (hindsight) o il senno di poi è un costrutto
simile all’insight ma si riferisce spiccatamente al guardare indietro, alla creazione
di connessioni tra eventi del passato e del presente. Per molto tempo il termine
insight è stato associato alla definizione gestaltica con il significato di
“consapevolezza di una nuova soluzione” (Darley et al., 1997). Proprio la
consapevolezza appare fondamentale nella Teoria della Gestalt ed è stata
definita da Pearls, Hefferline & Goodman (1951) come qualcosa di radicato nel
corpo e nell’esperienza sensoriale, distinta dall’introspezione. Questa si riferisce
a un’azione deliberata, ad un processo intenzionale volto a porre attenzione nel
monitorare e valutare intellettualmente il proprio comportamento. Stevens (1971)
ha schematizzato le seguenti forme di consapevolezza:
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consapevolezza del mondo esterno (esperienza sensoriale);
consapevolezza del mondo interno (esperienza in termini emotivi);
consapevolezza dell’attività fantastica della mente.
Le prime due forme rappresentano ciò che è possibile conoscere circa la realtà
presente, l’ultima assunzione riguarda la “consapevolezza della propria
consapevolezza” ossia la capacità umana di interpretare l’esperienza sia con una
elaborazione cognitiva che emotiva. In terapia della Gestalt l’insight deriva dal
raggiungimento di una chiara comprensione di una parte significativa del
campo, pertanto il paziente emerge in qualità di massimo esperto di se stesso,
come l’unico in grado di descrivere i propri processi interni, le conoscenze, le
credenze, le sensazioni e le emozioni. Il concetto di insight nella terapia della
Gestalt implica che non vi sia nulla di inconscio, ma che molto sia inconsapevole
o non sperimentato. In questa visione, l’insight emerge come riconoscimento
spontaneo e intuitivo di un comportamento o di una considerazione, che
realmente appartengono alla persona. È un sentire che deriva da un’esperienza
reale e piena di consapevolezza quindi si tratta di un processo piuttosto che di
un contenuto. La consapevolezza è intesa come movimento continuo dallo
sfondo alla figura e dalla figura allo sfondo poiché è assorbita nel momento di
emergenza di un bisogno, nella sua manifestazione, nella sua rappresentazione
simbolica e infine nella decisione (Zinker, 1977). Su questa circolarità si fonda la
dinamica consapevolezza-contatto-esperimento, considerando un tipo di
consapevolezza che è sempre presente cioè rivolta al bisogno che vuole essere
soddisfatto. Obiettivo terapeutico della Psicoterapia della Gestalt non è rendere
il paziente consapevole di un preciso contenuto bensì ripristinare il nesso tra
consapevolezza e azione. I teorici della Gestalt ritenevano che l’insight fosse
basato sulla ristrutturazione del cuore del problema, in altre parole, l’espressione
“Aha!Experience” (o “Aha!Moment”) racchiude una concezione di insight come
strategia utile alla risoluzione di un problema (useful solution). In essa riecheggia
l’esclamazione “Eureka!” (in greco, “ho trovato”), attribuita ad Archimede di
Siracusa nel momento in cui scoprì il suo celebre principio del galleggiamento.
Centrale è il problem solving, reso possibile in virtù di una costruzione analitica e
consequenziale, al contrario, secondo Sternberg & Davidson (1995), l’insight
avviene in un unico passo e compare inaspettatamente nella mente del solutore.
Indubbiamente, l’approccio della Gestalt ha offerto un contributo all’evoluzione
dell’insight ma, concependolo come un problema esistente nel mondo esterno,