2 
PREMESSA 
 
Questo lavoro prende avvio da uno di quei temi che, da sempre, è stato in grado di 
attirare le mie attenzioni: i primi sviluppi della religione cristiana, ancora vicini a 
forme semplici e primigenie di spiritualità ed ancora abbastanza lontani dalle forme 
via via più rituali e complesse. All‟interno di questo sconfinato argomento, il mio 
sguardo (ispirato da una “scintilla” indispensabile, quale il corso di Archeologia e 
Storia dell‟Arte Paleocristiana, tenuto dalla Professoressa Alessandra Frondoni) si è 
rivolto, non tanto alla dimensione comunitaria e sociale dell‟argomento, quanto a 
quella più intima, solitaria e profonda, che ha trovato la sua massima espressione 
nelle esperienze più radicali dell‟eremitismo e in quelle meno intransigenti del 
monachesimo. Facilmente, tuttavia, si potrà comprendere, leggendo le pagine 
seguenti, come questi due fenomeni, spesso considerati quasi antitetici tra loro, 
abbiano, in realtà, contorni  che tendono, frequentemente, a dissolversi gli uni negli 
altri. Ovviamente, sviluppare un discorso articolato su queste tematiche 
richiederebbe un tempo ed un‟estensione che mal si concilierebbero con la natura 
dell‟elaborato richiestomi: per questi motivi, la decisione presa è stata quella di 
limitarsi (mai termine, comunque, si è rivelato meno appropriato nel corso della 
stesura) al territorio ligure costiero, concedendosi un breve sconfinamento in 
territorio francese: le isole di Lérins, infatti, non potevano essere ignorate, soprattutto 
in relazione alla grande influenza che esse avrebbero esercitato nei confronti della 
nostra regione e ai rapporti che avrebbero intrapreso con importanti complessi liguri, 
San Michele di Ventimiglia in primis. Già Jean Guyon, d‟altronde, nel 2006, aveva 
fatto notare il rapporto osmotico che lega la Provenza cristiana alla nostra regione.  
Ecco quindi che, specialmente nel caso delle isole (Tino e Tinetto, per il Levante - “il 
miracolo panoramico”, come le definì nel lontano 1338 il Petrarca - ; Bergeggi e 
Gallinaria, per il Ponente), quelle piccole porzioni di terra che emergono dal mare e 
che, spesso, capita di osservare con sguardo rapido e disattento, si impongono alla 
nostra attenzione per la ricchezza di vicende di cui sono state protagoniste, vicende 
in cui storia e leggenda si intersecano a tal punto da rendere difficile la distinzione 
dell‟una dall‟altra (“non è sempre facile separare il grano dalla paglia […]” 
sosteneva, non a caso, il Calzamiglia).
3 
Non meno interessante, comunque, risulta essere anche il litorale di Genova, che, 
seppur privo di propaggini insulari, racchiude, nel tratto che si estende da San 
Fruttuoso di Capodimonte a Fassolo, una densità di situazioni e particolari degni di 
scendere a gara con quelli delle appena citate isole.  
Il presente lavoro non vuole, ovviamente, porsi come ricerca esaustiva e conclusiva 
sull‟argomento: vuole, piuttosto, proporsi come rassegna di un patrimonio che la 
Liguria (regione così ricca di testimonianze archeologico-artistiche delle più 
disparate tipologie e molto attiva nelle attività di studio) ha posseduto e, seppur 
annebbiato dalla bruma del tempo e ridotto a testimonianze più scritte che 
monumentali, possiede tuttora. Vi è, inoltre, l‟auspicio che esso possa rivelarsi come 
il risultato di un “compromesso” tra competenze archeologiche, inevitabilmente 
chiamate in causa per la natura del tema in questione, e competenze storico-
artistiche, inerenti il mio curriculum di studi.  
Ulteriore tempo richiederebbe, ancora, un discorso sulla valorizzazione di questa 
eredità culturale, che tende a perdersi, soprattutto nel caso delle realtà insulari, tra 
proprietà private e, talvolta, difficoltose richieste di permessi per poter visitare i 
luoghi in questione. Dato per scontato che uno sviluppo in senso turistico, non 
adeguatamente controllato, potrebbe facilmente portare alla rovina di ambienti 
ancora in gran parte incontaminati e degni di tutela (soprattutto nel caso delle realtà 
insulari), è altresì vero che il divieto d‟accesso non si configura, sempre e comunque, 
come la migliore soluzione del caso, proprio per il valore archeologico, storico e 
artistico che essi recano. La strada intrapresa con l‟istituzione di riserve naturali, enti 
parco o con le attività svolte da associazioni come la Pro Insula Tyro sembra, perciò, 
essere l‟unica da continuare a percorrere, promuovere, sostenere ed incentivare. 
L‟intento e la speranza è anche, infine, quella di portare alla conoscenza di queste 
vicende anche tutti coloro i quali, più o meno addetti ai lavori, si dimostreranno 
interessati all‟argomento: auspico, perciò, che questo breve excursus possa rivelarsi 
come un punto di partenza aggiornato per future ricerche o approfondimenti, sempre 
ben graditi, oltre che, inevitabilmente ed ovviamente, necessari.  
 
       Valeria Fusco
4 
INTRODUZIONE 
 
1. MONACHESIMO ED EREMITISMO IN LIGURIA
1
 
 
Per quanto concerne l‟Italia, si possono distinguere due forme di monachesimo: una, 
connotata da forti tendenze eremitiche, definita anche insulare, per l‟influenza che 
esercitò su di essa l‟isola francese di Lérins, “dove Sant‟Onorato aveva istituito, alla 
fine del IV secolo, un centro di vita anacoretica, modellata sugli esempi egiziani e 
caratterizzata da una forte austerità”; l‟altra, definita anche cittadina, “post[a] sotto 
l‟influenza diretta dell‟azione dei vescovi
2
”. La prima, indubbiamente favorita 
dall‟interesse che aveva suscitato la Vita di San Martino, redatta da Sulpicio Severo
3
, 
portò alla nascita di piccoli nuclei di asceti, dediti a una vita solitaria; la seconda, 
invece, avrebbe sancito quel legame tra episcopato, istituzioni civili e monachesimo 
che avrebbe raggiunto il suo apice in età medievale, decretando un‟inevitabile 
paradosso
4
: il coinvolgimento nelle problematiche sociali di coloro che avevano 
“fatto una scelta di ritiro dal mondo, per perseguire la salvezza eterna in meditazione, 
silenzio e rinuncia
5
”. In alcune regioni la nascita delle comunità monastiche fu 
riconducibile al ricordo di “qualche grande monaco esule in seguito alle controversie 
ariane
6
” (per esempio all‟Isola Gallinara, sede di un complesso cenobitico in onore 
del poco prima citato San Martino di Tours), altri, invece, sorsero nelle aree 
                                                 
1
 Resta ancora piuttosto avvolta dal mistero la storia della prima diffusione del Cristianesimo in 
Liguria (attribuita, dall‟Airaldi, a martiri, monaci e vescovi - AIRALDI 2008[a], p. 233) ed, in 
particolar modo, a Genova: l‟ipotesi avanzata da Jacopo da Varagine, che ha però trovato poco credito 
presso gli studiosi, vedrebbe un “diretto impulso apostolico”, mentre appare più convincente, seppur 
non supportata da fonti scritte od archeologiche, ma soltanto dalla devozione locale, la teoria che 
vorrebbe San Nazario e Celso antesignani della fede in Liguria (FRONDONI 1982, p. 351). 
2
 PICASSO 1987, pag. 5.  
3
 TURBESSI 1965, p. 15.  
4
 PICASSO 1987, p. 7. Tuttavia, come fece notare il De Negri, non si deve cadere nell‟errore (fatto 
anche dal Pacaut (PACAUT 1992 - ma già 1970, p. 9) di estremizzare l‟antitesi tra la prima forma 
“originari[a], liber[a], eremitic[a], di ispirazione orientale” e la seconda “organizzat[a] in comunità 
regolari” (DE NEGRI 2003, p. 123).  
5
 POLONIO 1999, p. 116; POLONIO 2003, pag. 116 . I monaci, infatti, possedevano quelle 
conoscenze, quella forza economica e quell‟organizzazione che, in quel momento, mancavano alle 
autorità civili.  
6
 G. PENCO 2000, p. 43. Le vicende della crisi ariana costituirebbero, infatti, un vero e proprio fil 
rouge  per la storia del primo monachesimo occidentale. Tuttavia, non è ben chiaro il loro livello di 
interazione, o se si tratti, piuttosto, di un aspetto contingente, proprio come nel caso di San Martino 
(PRICOCO 1992, pp. 24-25).
5 
suburbane per conservare la memoria, quando non anche le reliquie, dei martiri 
locali
7
.  
La Liguria si impose, indubbiamente, agli occhi degli studiosi del monachesimo per 
la grande fondazione di età longobarda che la contraddistingue, ossia quella di San 
Colombano, presso Bobbio, che coincise con l‟ultima notevole migrazione 
monastica. Il santo, di origine irlandese, andò a stabilirsi in una zona boscosa 
dell‟Appennino Ligure, lungo la valle del Trebbia (oggi provincia di Piacenza), 
fondandovi, nel 612, uno dei monasteri che, per la sua posizione strategica, sarebbe 
diventato uno dei più importanti ed influenti di sempre
8
. I monaci bobbiesi si 
distinsero per le opere di dissodamento dei territori padani, ma, anche, per 
l‟imponente cristianizzazione svolta, spesso, attraverso dipendenze dal carattere 
semi-eremitico
9
 e proiettarono la Liguria, non più verso il mare, ma verso 
l‟entroterra
10
.  
Tuttavia, questo periodo dorato (protrattosi anche in età carolingia) era destinato ad 
interrompersi bruscamente, a causa delle invasioni congiunte di Normanni, Ungari, 
ma, soprattutto, Saraceni. I ricchi monasteri opposero una breve resistenza, ma 
caddero presto vittima di questi nuovi barbari, bramosi di impossessarsi dei 
patrimoni custoditi in questi centri
11
. Le depredazioni colpirono tutta l‟Italia 
indistintamente: Roma, la Campania (pesantissimo fu l‟assalto all‟abbazia di San 
Vincenzo al Volturno), Taranto e, non da ultima, anche la regione ligure-
pedemontana. Nonostante ciò, comunque, la loro immediata ferocia non avrebbe 
                                                 
7
 Questi edifici, non di rado, divennero, successivamente, cattedrali.  
8
 G. PENCO 1969, p. 707. Sul tema si segnala anche l‟importante studio di VALERIA POLONIO “Il 
monastero di San Colombano di Bobbio, dalla fondazione all’età carolingia”, Genova, 1962, 
l‟articolo della POLONIO 2001, citato in bibliografia e la recente trattazione a riguardo di Gabriella 
Airaldi (in AIRALDI 2008[a], p. 237 e AIRALDI 2008[b], pp. 113 - 114, mentre, per notizie di 
carattere più generale sulla vita di San Colombano si rimanda a PACAUT 1992, pp. 61-69.   
9
 PICASSO 1987, ibidem. Tuttavia, il monachesimo di Colombano è un monachesimo ben diverso da 
quello benedettino, rivolto più ad un ambito missionario (LEONARDI 1987, p. 204; DE NEGRI 
2003, p. 139). Comune alle altre forme, invece, è un certo patrimonio di leggende tra la quali quella di 
San Brandano che, in compagnia di alcuni monaci, avrebbe toccato numerose isole (G. PENCO 2000, 
p. 85). 
10
 POLONIO 1999, p. 118; DUFOUR BOZZO 1993, p. 52. Il monastero di Bobbio sarebbe stato di 
fondamentale importanza nella colonizzazione longobarda della Liguria di Levante: sembra, infatti, da 
doversi ricondurre a questo cenobio “l‟origine del maggior centro benedettino lunigianese, cioè 
l‟abbazia di Brugnato (POLONIO 1979[b], p. 42).  
11
 PICASSO 1987, p. 28.
6 
lasciato gravi strascichi nella vita monastica degli insediamenti ormai consolidati: 
per questo, i loro attacchi sono preferibilmente noti con il nome di “scorrerie”
12
.  
Per quanto riguarda, invece, la forma più radicale del monachesimo, l‟eremitismo,  
si può notare che il suo massimo periodo di splendore fu quello ascrivibile tra il V e 
l‟VIII secolo: infatti, già nel X secolo, esso conobbe un forte ridimensionamento, a 
causa del “disordine civile e religioso, della lunga crisi economica e della 
depressione sociale
13
”. Seppur in maniera piuttosto sbrigativa, anche San Benedetto 
espresse una propria opinione nei confronti di queste figure solitarie: il primo 
capitolo della Regola, infatti, interpretava la vita eremitica come “coronamento di 
quella cenobitica
14
”. In realtà, sostenne il Picasso, il rapporto si deve porre nella 
direzione opposta, “ossia dall‟eremo al cenobio
15
”. L‟anacòresis si configura come 
un radicale ritorno a Dio, praticato nel silenzio, nella penitenza e nella 
contemplazione ed assume i connotati di un cotidianum martyrium
16
 e fuga mundi
17
, 
che non aveva nulla da invidiare ai veri e propri martiri dei primi secoli cristiani
18
. 
L‟anacoreta, tuttavia, sarebbe, però, ben presto, finito col diventare punto di 
riferimento imprescindibile per un “mondo rurale che, tra prima diffusione della 
nuova religione e successive tempeste dottrinarie, non [aveva] ancora conosciuto una 
penetrazione cristiana capillare
19
”. 
                                                 
12
 PICASSO 1987, pp. 28-29. Infatti, al momento del saccheggio non seguì mai la volontà di 
impossessarsi dei territori usurpati. In Liguria, inoltre, questi attacchi agirono, da “motore” nei 
rapporti tra Lunigiana e le isole di Lérins: le reliquie di San Caprasio, maestro di Sant‟ Onorato, 
vennero infatti traslate dal territorio francese ad Aulla intorno al 1070 (VECCHI 2001, p. 69; 
AIRALDI 2008[b], pp. 40-41).  
13
 VIOLANTE 1972, p. 130. Un secondo periodo di floridezza si colloca, invece, tra la fine del X 
secolo e l‟inizio dell‟XI secolo, parallelamente allo sviluppo socio-economico, a un nuovo ordine 
politico e alla ripresa delle attività culturali del dopo anno Mille: si tratta dell‟eremitismo legato alle 
figure di San Romualdo di Ravenna e San Pier Damiani, suo discepolo (PICASSO 1987, p. 49; G. 
PENCO 1969, pp. 713-714), che sarebbe sfociato “in gran parte dei movimenti e degli Ordini 
mendicanti all‟inizio del XIII secolo” (VIOLANTE 1972, ibidem).  
14
 PICASSO 1987, ibidem, ma anche PRICOCO 1992[a], pp. 33-34. Per maggiori notizie su San 
Benedetto e la sua Regola si rimanda all‟articolo della POLONIO 2001, citato in bibliografia.  
15
 PICASSO 1987, ibidem. 
16
 Come lo definiva Gerolamo nelle sue Epistole 
17
 PACAUT 1992, p. 10. Tuttavia, come già accennato, questa aspirazione trovava, in realtà, difficile 
compimento. 
18
 BONFIGLI 1990, p. 15. Per maggiori notizie sul pensiero degli anacoreti si rimanda all‟articolo 
POLONIO 2001, citato in bibliografia.  
19
 POLONIO 1986, p. 115, ma anche AIRALDI 2008[a], pag. 233. L‟esempio seguito è, d‟altronde, 
quello di Antonio, dapprima discepolo presso un asceta, ma, ben presto, a capo di una colonia di 
eremiti, per l‟ascendente che era in grado di esercitare (GOBRY 1991, p. 108; POLONIO 2001, p. 
84). Poco inclini nel favorire “la canonizzazione dei propri santi, per non attirare il conseguente 
afflusso di devoti” (G. PENCO 2000, ibidem), gli eremiti sono soli (“sine consolatione alterius” come
7 
2. L’EREMITISMO INSULARE IN LIGURIA 
 
L‟eremita per eccellenza è quello nel deserto
20
, ma non meno successo ebbero le 
forme di eremitismo insulare, soprattutto in Italia
21
, e ancor più esattamente negli 
arcipelaghi ligure e toscano
22
, in cui “la suggestione dei modelli orientali [era] 
manifesta
23
”. Le isole rappresentavano, in teoria (molto più che nella pratica, come 
già accennato), un luogo ideale per la vita monastica, protetta, attraverso il mare, da 
incursioni ed occhi indiscreti
24
: l‟insularità, spesso, però, piuttosto fittizia
25
, 
sembrava assicurare quell‟horror solitudinis, che caratterizzava tutte le esperienze 
eremitiche
26
. Già Sant‟Ambrogio, nel III libro dell‟Exameron, lasciava pochi dubbi 
sull‟importanza di quelle che lui chiamava “perle di Dio”: queste isole, infatti, a suo 
parere, erano luoghi per eccellenza dove praticare l‟esercizio della temperanza, della 
continenza e della preghiera, che scendeva a gara con il suono delle onde
27
.  
                                                                                                                                          
si legge nella Regola benedettina - VIOLANTE 1972, p. 135, ma anche POLONIO 2001, p. 85) di 
fronte a Dio, come sono soli di fronte al diavolo, che essi riescono sempre a sconfiggere (TURBESSI 
1961, p. 154), come si avrà modo di vedere in seguito. La loro vita, spesso tramandatici in modo 
frammentario e aneddotico, era scandita dalla preghiera, dalla mortificazione fisica e morale, 
dall‟estrema parsimonia di cibo e acqua (spesso si cibavano dei frutti e delle radici che la natura 
offriva, mentre pane e vino erano consumati più raramente), dalla poca cura nell‟abbigliamento 
(Bonoso, eremita del Mar Adriatico, era vestito con un “sacco laido” - PRICOCO 1992, ibidem), dalle 
veglie rigorosissime, dal lavoro manuale (intreccio delle palme, produzione di corde e funi, 
coltivazione) e, non di rado, da eventi miracolosi (estasi, apparizioni di angeli o demoni - TURBESSI 
1961, pp. 157-162). 
20
 PRICOCO 1992, pp. 18-19 (ma anche PRICOCO 1998, p. 754: “il secessus ascetico si esige 
realizzato nella solitudine del deserto”).  
21
 PRICOCO 1992, p. 19. Anche in Francia (come già accennato, a Lérins) e in Inghilterra, comunque, 
vi furono esperienze simili (TURBESSI 1961, p. 142). Recentemente Valeria Polonio ha fatto 
giustamente notare come, specialmente in Italia, “le isole, i promontori solitari e la foresta [abbiano] 
preso il posto del deserto, mutandone il carattere di luogo di tentazione e, nello stesso tempo, di grazia 
(POLONIO 2003[b], p. 101).  
22
 SEVERINI, MAZZEI 2000, p. 648; VARALDO 2003, p. 205; POLONIO 1982, p. 50; POLONIO 
2003, p. 116;  DELFINO 1977, p. 40; PACAUT 1992, p. 27; FRONDONI 1995, pp. 9-10.  
23
 PRICOCO 1992, p. 21, ma anche SCALFATI 1991, p. 283; DE NEGRI 2003, p. 121; AIRALDI 
2008[a], p. 235. Tuttavia, l‟influenza dal modello orientale è da ricercarsi soprattutto nei modelli 
culturali, piuttosto che in quelli normativi (PRICOCO 1992, pp. 22-23; PRICOCO 1998, p. 759).  
24
 Qui, meno che in terraferma, si assisteva alla trasformazione dell‟eremo in cenobio (TURBESSI 
1965, p. 12). A tal proposito Silio Scalfati sosteneva che le isole rispondevano alle esigenze 
dell‟ascesi “come e più dei monti e delle grotte” (SCALFATI 1991, p. 284).  
25
 La maggior parte delle isole in questione, infatti, si trova a distanze davvero minime dalla costa 
(PRICOCO 1992, p. 21).  
26
 PRICOCO 1992, ibidem. Esse erano tuttavia, anche luoghi “squallidi e selvaggi”, causa di prove 
supreme e di incontri con mostri immani (PRICOCO 1998, p. 754): non a caso l‟orrore dei luoghi 
costituirà uno stereotipo polemico abituale per gli oppositori del monachesimo (PRICOCO 1992, p. 
19).  
27
 SEVERINI, MAZZEI 2000, p. 621; SEVERINI, MAZZEI, 2003, p. 197; PRICOCO 1992, ibidem; 
CALZAMIGLIA, 1992, pp. 11-12; GOBRY 1991, pp. 565-566; BONFIGLI 1990, p. 33. Tuttavia, il
8 
Già da queste poche righe, perciò, si può evincere come il monachesimo e 
l‟eremitismo siano fenomeni ben più complessi di quanto si possa immaginare e 
difficilmente inquadrabili in schemi fissi: risulta, così, meramente astratta “la 
sistemazione della prima storia monastica in un‟ordinata successione di tre fasi, 
l‟anacoretica, la cenobitica e la benedettina
28
”. Non si deve neppure pensare a un 
“prius e un posterius tra forma anacoretica e forma cenobitica”, avendo queste 
convissuto per interi secoli addirittura come pratiche complementari dello stesso 
centro monastico (per esempio a Lérins)
29
.  
Le isole liguri, “insediamenti minuscoli e quasi più simili a degli atolli
30
” furono 
interessate da questo fenomeno
31
, soprattutto tra età tardoantica e altomedievale e, 
dalla fine del X secolo, si sarebbero uniformate attorno alla regola benedettina fino al 
progressivo esaurirsi del movimento, nel corso del basso medioevo
32
. Le prime 
testimonianze, di cui ci mancano, come è facilmente intuibile, dati diretti, sono da far 
risalire al IV secolo
33
: se a Levante troviamo San Venerio presso l‟isola del Tino (ma 
                                                                                                                                          
passo, che costituisce anche una testimonianza della diffusione del fenomeno alla metà del IV secolo, 
lascia intendere come questo si debba leggere in un‟ottica più comunitaria di quella che la tradizione 
ha sempre tramandato e come, d‟altronde farebbero supporre le rovine archeologiche, per quanto 
scarse o discutibilmente indagate (SEVERINI, MAZZEI 2000, pp. 621-622: è comunque, altresì 
ipotizzabile che la mancanza di strutture specifiche per queste prime forme monastiche trovi una 
logica spiegazione nella rioccupazione di edifici già esistenti – SEVERINI, MAZZEI 2000, p. 649). 
Non solo S. Ambrogio, comunque, si occupò di questo fenomeno: esistono, infatti, testimonianze di 
altri autori, quali Agostino, Girolamo (che usò l‟espressione“per totum etruscum mare” per inquadrare 
la diffusione del fenomeno), Sulpicio Severo, Gregorio Magno, Rutilo Namaziano (alto funzionario 
dell‟impero romano e convinto pagano, definì, nel suo De Reditu, “lucifughi” questi eremiti, per lui 
“quasi nemici del genere umano” - AIRALDI 2008[a], p. 234, ma anche POLONIO 2001, p. 84 - non 
abbastanza coraggiosi da affrontare apertamente i barbari – per notizie ulteriori sulla figura di 
Namaziano ad Albenga si segnala l‟articolo di FRANCESCO DELLA CORTE, Rutilo Namaziano ad 
Albingaunum, in “Romanobarbarica”,  n°5, Roma, 1980, pp. 89-103), oltre a quelle contenute in 
numerose passiones (SEVERINI, MAZZEI, p. 622). Per una esaustiva bibliografia sulle fonti antiche 
si rimanda all‟articolo di JACQUES BIARNE, Le monachisme dans les ȋles de la Méditerranée nord-
occidentale, in “Rivista di archeologia cristiana”, Città del Vaticano, 2000, pp. 351-374. 
28
 PRICOCO 1992, p. 31. 
29
 PRICOCO 1992, p. 32; PRICOCO 1998, p. 753. Del resto, l‟interesse ad unire vita monastica ed 
anacoretica era preoccupazione comune a molti dei protagonisti religiosi di quei secoli: il Gianelli 
riporta che anche San Colombano studiò a lungo come far convivere questi due diversi stili di vita 
(GIANELLI 1884, p. 25). Il Penco (G. PENCO 1955, p. 18) fece invece notare come le esperienze 
eremitiche nelle isole tirreniche non dovessero ostinatamente leggersi come forzata “evasione dalla 
convivenza in regolari cenobi”, a favore di“una riaffermazione eroica del vecchio monachesimo 
orientale”, come erroneamente sostenuto dal Formentini, che esasperò questa dicotomia specialmente 
nella figura di San Venerio, che egli riteneva letteralmente dilaniato tra lo stile di vita monastica 
orientale e occidentale.  
30
 MENNELLA-VALENTINI 2003, p. 191.  
31
 Delfino definisce l‟anacoretismo ligure come un fenomeno austero e talora selvaggio, assai vicino a 
quello egiziano, “ma ancora più stravagante” (DELFINO 1977, p. 40) 
32
 VARALDO 2003, p. 205.  
33
 SCALFATI 1991, p. 284; SEVERINI 2003, pp. 197 e 199; POLONIO 1982, p. 50.
9 
tracce eremitiche compaiono anche nel vicinissimo Tinetto), a Ponente, si segnalano 
le presenze di Sant‟Eugenio a Bergeggi e di San Martino di Tours alla Gallinaria
34
. 
Al di fuori del territorio ligure, invece, si possono ricordare le zone insulari 
dell‟attuale Toscana
35
 e le coste provenzali (isole di Hyères o la già citata Lérins)
36
. 
Anche il materiale ceramico rinvenuto in questi luoghi ha confermato la presenza 
dell‟uomo in epoca tardoantica
37
: una presenza, comunque, destinata a svilupparsi 
maggiormente in tempi successivi, in correlazione alla “profonda riorganizzazione 
degli organismi ecclesiastici della Liguria costiera dopo l‟allontanamento del 
pericolo saraceno”, e allo sviluppo del movimento benedettino
38
 (solo per il Tino, 
infatti, si può parlare di una vera e propria continuità insediativa
39
).  
Tuttavia, le fonti romane hanno attribuito poca attenzione alle isole liguri, sia per la 
loro minima estensione, sia per la scarsità di risorse economiche autonome che, di 
fatto, ne impedivano un‟occupazione antropica: nella Tabula Peutingeriana, l‟isola 
Palmaria poteva vantare una breve citazione, come Insula Arenaria, mentre solo la 
Gallinaria ebbe una considerazione maggiore
40
, sia in relazione all‟etimologia del 
suo nome, da attribuirsi alla presenza delle galline selvatiche
41
, sia perché sede del 
soggiorno del già menzionato Martino di Tours. Le fonti agiografiche, invece, 
rimarcarono con insistenza l‟aspetto inospitale delle isole, allo scopo di favorire la 
                                                 
34
 SCALFATI 1991, p. 289.  
35
 Si veda a proposito della diffusione del monachesimo insulare nell‟arcipelago Toscano (Isole di 
Gorgona, Capraia, Elba, Pianosa, Montecristo, Giannutri) l‟articolo di Barbara Mazzei in  Des îles 
côte à côte. Histoire du peuplement des îles de l’Antiquité au Moyen Âge (Provence, Alpes-Maritimes, 
Ligurie, Toscane), Bulletin Archèologique de Provence Supplèment 1, 2003, pp. 200-203, ma anche 
l‟articolo di Scalfati citato in bibliografia.  
36
 POLONIO 2003, p. 116; CRACCO RUGGINI 2004, pp. 559-560. Sempre a Valeria Polonio si deve 
un‟acuta osservazione a riguardo della diffusione di queste leggende: “[…] il tema è sempre lo stesso 
e non perché le leggende si modellino l‟una sull‟altra inventando di sana pianta, ma perché condizioni 
naturali e spirituali analoghe hanno prodotto analoghe situazioni, i cui particolari possono 
eventualmente essersi influenzati a vicenda” (POLONIO 1979[a], pagg. 156-157). La Polonio ha poi 
fatto notare come anche per la Sardegna esistano “radicate tradizioni [che] parlano di eremiti, singoli o 
a gruppetti, molto spesso di provenienza esterna, orientale o africana” (POLONIO 2001, p. 88).  
37
 POLONIO 2001, ibidem.  
38
 VARALDO 2003, p. 206.  
39
 SEVERINI 2003, p. 199.  
40
 Considerazione che le permise di emergere tra le altre isole liguri (VARALDO 2003, p. 205). Fu 
menzionata inoltre da Sulpicio Severo, Sozomeno, Paolino Petricordio e Venanzio Fortunato. Il 
Semeria, proprio a questo riguardo, sosteneva che l‟isola Gallinaria fu “santificata prima di tutte [le 
altre isole] dalla presenza di San Martino”, segnalando, comunque, a sua volta, come già altre isole  
(quelle francesi di Hyères e altre liguri e toscane) fossero abitate da “santi solitari” (SEMERIA 
1843[b], p. 462). 
41
 MENNELLA, VALENTINI 2003, p. 191. Si trattava delle citazioni di Varrone e di Columella, che 
lasciavano già chiaramente intuire l‟ostilità del luogo, ospitante al massimo qualche ricettacolo per 
pescatori.
10 
creazione di un certo alone mistico ed eroico intorno alle figure di cui si narravano le 
gesta
42
. Ma neanche le fonti medievali furono più gentili: Bracelli, umanista 
sarzanese, descrivendo, nel 1448, il litorale della nostra regione menzionava solo le 
tre isole maggiori, la Gallinaria e Bergeggi a ponente e la Palmaria a levante.  
Un breve accenno è da farsi, infine, su quelle forme di eremitismo che la tradizione 
attesta, invece, sulla terraferma: il culto di Sant‟Ampelio e di San Romolo. Il primo, 
ricordato nella zona di Bordighera, presso l‟omonimo capo, venne addirittura 
riconosciuto in Apelle, monaco della Tebaide che a fine IV secolo avrebbe trovato 
qui la sua morte (si dovrebbe trattare, però, con tutta probabilità di un errore ad opera 
di un monaco lerinese che confuse il nome Ampelio con un toponimo greco dal 
suono molto simile)
43
; il secondo, invece, di cui mancano comunque notizie certe, 
avrebbe vissuto, in eremitaggio, nei dintorni dell‟allora Villa Matutiana (attuale 
Sanremo), compiendo miracoli (motivo per il quale sempre più persone accorrevano 
a lui) fino alla nomina di vescovo di Genova che, comunque, non gli impedì di 
abbandonare del tutto la sua oasi di solitudine presso la quale tornava piuttosto di 
frequente
44
. A Levante invece la tradizione tramanda dell‟esistenza di un monastero 
maschile a Portovenere, come sembrerebbe anche testimoniato da alcune lettere di 
Gregorio Magno: eretto nella zona della chiesa medievale di San Pietro, 
probabilmente fu il luogo in cui Venerio compì la sua iniziale esperienza monacale, 
prima del ritiro in romitaggio nella vicinissima isola del Tino
45
.  
                                                 
42
 SCALFATI 1991, p. 285. A favorire questa contaminazione tra realtà e leggenda fu anche, 
ovviamente l‟assenza di archivi monastici, che favorì l‟alimentazione del “fascinosum” (SCALFATI 
1991, ibidem).  
43
 La prima notizia certa sul suo culto risale solamente al 1140, ed è quindi assai improbabile che la 
sua origine sia da collocarsi al V secolo: la tradizione riporta comunque che questo eremita, giunto 
dall‟Egitto, abbia vissuto nei pressi di Bordighera gli ultimi giorni della sua esistenza, insegnando le 
tecniche per la coltivazione della palma (di cui avrebbe portato i semi dalla Tebaide - AIRALDI 
2008[a], p. 236 -). L‟umile spelonca dove Ampelio aveva dimorato sarebbe diventata oggetto di culto 
per molti secoli e avrebbe testimoniato l‟influenza del monachesimo africano sui primi centri di vita 
monastica che si svilupparono nella parte occidentale della diocesi di Ventimiglia (PASTOR 1979, pp. 
209-210). In effetti, la mancata citazione dell‟esperienza liguria di Ampelio, da parte di S. Pancrazio e 
Sozomeno, contemporanei di Ampelio e redattori della sua Vita, darebbe conferma ai dubbi sulla 
fondatezza di questa leggenda (LAMBOGLIA 1946, p. 30). Del resto, già nel 1843, il Semeria 
sosteneva “manifeste falsità” nella vita del santo, redatta da un monaco olivetano del monastero di 
Santo Stefano in Genova, soprattutto per la parte inerente il soggiorno ligure, nella quale, gli 
sarebbero state attribuite azioni compiute, in realtà, da San Giovanni (SEMERIA 1843[b], p. 532). La 
zona di Capo Sant‟Ampelio, tuttavia, al contrario di tutte quelle insulari precedentemente citate, 
risulta l‟unica a non essere stata archeologicamente indagata (POLONIO 2003, p. 116).  
44
 G. PENCO 1955, pp. 17-18.  
45
 FRONDONI 1998, scheda 25/1. Si rimanda comunque al paragrafo 3.1 per maggiori notizie su 
questo complesso, la cui esistenza non ha comunque trovato unanimi pareri.