2
1.2 IL DIRITTO PENALE DELLE ORIGINI
Le conoscenze circa l’amministrazione della giustizia criminale
nella Roma dei re dipendono in larga misura da materiali spesso
leggendari, e da tradizioni poco sicure. Sulla base di una ricostruzione
effettuata su fonti indirette, integrate dalle ricerche archeologiche è
possibile trarre alcuni elementi di conoscenza.
La comunità organizzata di rado interveniva nella repressione dei
crimini, che restava devoluta alla reazione dei privati offesi, talora
temperata dalla legge del taglione o dalla consuetudine del riscatto
1
.
Soltanto in casi particolari, nei quali l’infrazione appariva come
una violazione della pax deorum, lo Stato riteneva necessario ristabilire
l’ordine turbato. La sanzione era costituita generalmente da una offerta
espiatoria, il piaculum, ( consistente nel sacrificio di un animale o nella
devoluzione di una somma di denaro ). Per le colpe più gravi, invece, era
lo stesso trasgressore a rispondere con la sua persona alla divinità offesa.
Accanto a questi reati sanzionati con obblighi sacrali, si potevano
individuare altri fatti, oggetto di pubblica persecuzione, seguendo il
principio che all’offesa si risponde con l’offesa. Nella persecuzione di
tali illeciti il re esplicava un potere derivante dal suo imperium: egli non
era vincolato da norme positive ed era libero di adottare tutti i rimedi che
gli sembravano necessari per la repressione dei crimini
2
.
Si osserva comunque che siffatta attività non fosse propriamente
esercizio di una funzione giurisdizionale ma l’estrinsecazione della
facoltà di comando spettante al capo supremo della comunità
3
.
1
B. Santalucia, Diritto e processo penale nell’antica Roma, II edizione, Milano 1998, pag. 1 e ss.
2
B. Santalucia, op. ult. cit., pag. 20.
3
B. Santalucia, op. ult. cit., 21.
3
1.3 L’ETA’ REPUBBLICANA
Il mutamento costituzionale avutosi con il passaggio dalla
monarchia alla repubblica portò a una netta separazione tra le funzioni
religiose e quelle politiche-militari.
Abolito il regnum, al rex venne sostituito un capo militare unico,
che si distingueva dal primo per la temporaneità della carica e dei
poteri
4
. Quindi, nel corso degli anni, il governo della Res Pubblica passò
nelle mani di capi investiti di poteri che li rendevano superiori agli altri
cittadini: essi si denominarono magistrati.
La preoccupazione di mantenere entro certi limiti il potere
supremo del magistrato incominciò a farsi strada tra le classi patrizie, cui
si dovette l’instaurazione delle libertas.
Idonea guarentigia apparve quella di subordinare l’irrogazione
delle pene più gravi al giudizio del popolo riunito in assemblea: nasce
così la provocatio ad populum
5
. Per mezzo di essa la comunità riunita in
assemblea avrebbe giudicato il fatto, o commutato la pena:
effettivamente, si sostiene che al popolo era riservata soltanto la
valutazione della gravità del crimen, mentre la qualificazione del
comportamento era riservata al magistrato.
Questa garanzia ebbe un riconoscimento scritto nella lex Valeria
de provocatione del 509 a.C. . Essa si pose come un limite alla mancanza
di un Principio di legalità simile al nostro: il sistema, così costruito,
prevedeva che i casi in cui il magistrato poteva intervenire, al di fuori del
4
P. Cerami, A. Corbino, A. Metro, G. Purpura, Storia del diritto romano, Profilo, II ed., Soveria
Mannelli, 1996, pag. 45.
5
B. Santalucia, Op. Ult. Cit., pag. 29 e ss.
4
processo, con poteri coercitivi non erano fissati da norme positive, ma
rimessi alla sua discrezionale valutazione
6
.
Vero è che, insieme alla provocatio, ostava anche un generale
dovere di rendiconto che ricadeva sul magistrato alla fine del suo
mandato: la responsabilità per una condotta antisociale avrebbe
compromesso il consenso politico e popolare che lo legittimava.
Abilitati a promuovere il processo e a portare innanzi al popolo le
proposte di condanna erano i questores, i duumviri perduellionis, e i
tribuni della plebe. Questi ultimi in particolare conoscevano del reato di
perduellio. La perduellio indicava genericamente l’alto tradimento, la
violazione del dovere di fedeltà verso lo Stato, e le sue istituzioni. La
casistica dei fatti considerati perduellio dai tribuni è notevole: colpe
gravi dei magistrati nell’esercizio delle loro funzioni, e del comando
militare, uccisione di cittadini senza processo, violenze contro la
repubblica, offese ai tribuni
7
. Erano reati contro le libertà cittadine.
Quanto detto è sufficiente per dedurre il prevalente carattere
privato della repressione dei crimini afferenti alla sfera privata, anziché
quella pubblica, sotto una duplice accezione: quella dell’uso arcaico di
farsi giustizia da sé, ormai caduto in desuetudine; e quella, su cui ora ci
soffermeremo, in base al quale la controversia tra i soggetti veniva
risolta in processo di natura privata.
Così, la repressione di molti reati che oggi chiameremmo contro il
patrimonio, avveniva attraverso il ricorso ad un processo moderato dal
pretore, il quale suggeriva alle parti le formulae da adottare nella
specifica fattispecie
8
.
6
P. Cerami, A. Corbino, A. Metro, G. Purpura, Op. Ult. Cit., pag. 122.
7
B. Santalucia, op. ult. cit., pag. 81.
8
M. Marrone, Istituzioni di diritto romano, Palermo, 1994, pag. 76 e ss.
5
L’importanza di queste formulae nell’instaurazione del
procedimento era indiscutibile; per coglierla dobbiamo porre l’attenzione
sul rapporto esistente tra il diritto sostanziale e il diritto processuale
romano.
Esso era difforme da come oggi lo intendiamo; siamo abituati a
considerare il diritto processuale come strumentale a quello sostanziale:
nel senso che una norma sostanziale pone la fattispecie astratta, e le
norme processuali mirano a rendere concreta la tutela degli interessi
sottesi alla prima.
Nel diritto romano il rapporto era invertito: erano le forme del
processo, o più propriamente le formulae, ad essere tipicamente
riconosciute. Una ragione era tutelabile solo se vi era una apposita actio
o altro strumento processuale.
Con incisività si è detto che il diritto soggettivo presupponeva
l’azione
9
.
Posto che le actiones venivano adottate dal pretore secondo le
richieste avanzate dalle parti contendenti, valutando l’opportunità di
tutelare un certa pretesa, possiamo concludere che era il magistrato a
dare rilevanza giuridica a certe posizioni giuridiche.
Avvertiamo inoltre che il sistema romano conosceva una
distinzione tra pene pubbliche e pene private, tanto da legittimare l’uso
dell’espressione diritto penale privato. Si distinguevano gli illeciti civili
( nel senso che erano incriminati da una lex ) dagli illeciti pretorii, creati
da un magistrato specifico, il pretore, ogniqualvolta appariva equo
sanzionare certi comportamenti.
9
M. Marrone,op. ult. cit., pag. 59 e ss. .
6
Tuttavia l’attrazione di figure criminose nella sfera del processo
privato non dovrebbe farci indugiare sulla natura sostanzialmente penale
dell’illecito: la realtà dei fatti era giustificata dal carattere pecuniario
della sanzione, facente sorgere una obligatio tra l’offeso e l’offensore.
Valga ricordare, da ultimo, che solo per la repressione dei crimini
meno gravi il magistratus procedeva direttamente, senza avviare il
processo popolare; per quelli più gravi, invece, per il tramite della
provocatio, la persecuzione avveniva davanti i comitia. Le maggiori
difficoltà di riunire questi, tuttavia, delegarono pian piano al magistrato
la cura delle attività antisociali.
7
1.4 LE QUAESTIONES PERPETUAE
Il processo comiziale funzionò in modo soddisfacente sino a
quando perdurarono le condizioni ambientali che lo videro nascere.
Con l’espansione territoriale dell’Urbe, le questioni portate innanzi
ai iudicia populi, diventavano sempre più complicate, e richiedevano
particolari cognizioni tecniche che il privato cittadino non possedeva:
quindi non era facile emettere un giudizio ponderato
10
; inoltre il
meccanismo processuale, che richiedeva ripetizioni farraginose, e la
proletarizzazione delle masse urbane, rendeva i comizi vulnerabili alle
influenze demagogiche.
In base alle ricostruzioni storiche, dopo la fine della II guerra
punica ( 146 a.C., anno di distruzione della città di Cartagine ) ebbe
inizio per la Res Pubblica romana una lunga e travagliata crisi politica a
causa di forti contrasti sociali interni, il cui esito incise ampiamente
nell’ordinamento giudiziario, e nel diritto penale sostanziale.
Ricordiamo brevemente che durante la crisi, Optimates e
Populares, le due fazioni politiche che ambivano al controllo della città,
combatterono una lotta per il monopolio del potere che non risparmiò
l’uso delle famose liste di proscrizione e di brogli elettorali, l’abuso di
poteri magistratuali e la corruzione, la gestione demagogica del pubblico
consenso e la diffamazione
11
.
In queste condizioni socio-politiche, si assiste ad una notevole
inflazione legislativa: furono fissate nuove fattispecie criminose, spesso
piegate ad uso personale dei magistrati piuttosto che a difesa della
comunità; si istituirono nuovi tribunali (le questiones ).
10
B. Santalucia, op. ult. cit., pag. 97.
11
P. Cerami, A. Corbino, A. Metro, G. Purpura, op. ult. cit.., pag. 137
8
Il senato affidò ai consoli e ai pretori la cognizione e la repressione
di alcuni crimini: il più celebre esempio si ebbe nel 186 a.C. in relazione
allo scandalo dei baccanali.
Le repressioni di carattere straordinario vennero progressivamente
cedendo il posto ai tribunali stabili, istituiti per legge o con
senatoconsulto, e presieduti da un magistrato: pian piano divennero
l’organo ordinario della repressione criminale dell’ultima età
repubblicana e dei primi anni dell’impero
12
.
Riteniamo opportuno soffermarci brevemente sul modello
organizzativo di questi tribunali stabili.
Al tempo funzionavano nove corti di giustizia permanenti, di cui
cinque incaricate di perseguire reati di carattere politico e quattro reati
comuni: i componenti delle quaestiones erano, oltre al presidente
( funzione assolta da un magistrato), i giudici popolari, estratti da un albo
compilato annualmente dai pretori.
Il processo aveva inizio quando un qualsiasi privato cittadino
presentava l’accusa al presidente per ottenerne la legittimazione. Questa
fase era motivata dal fatto che i tribunali venivano istituiti con il
medesimo provvedimento che introduceva l’illecito perseguito dal
tribunale competente.
Occorreva possedere alcuni requisiti per l’idoneità ad interpellare
la questio su una specifica fattispecie criminosa. Quindi si procedeva alla
iscrizione dell’accusato nel ruolo dei sottoposti a giudizio, e al
compimento di una serie di formalità introduttive.
Il dibattimento veniva moderato dal presidente, consentendo alle
parti di esprimere le loro opinioni, dimostrare le proprie asserzioni e
confutare quelle altrui, servendosi dei mezzi di prova.
12
B. Santalucia, op. ult. cit.., pag. 104.
9
Tutto si concludeva con la condanna o l’assoluzione dell’imputato
espressa dal voto della giuria.
Sono stati condotti interessanti studi su questa modalità di
svolgimento del processo penale. Grazie ad essi si è giunti a tale
conclusione: “il magistrato, l’accusatore pubblico, il popolo riunito in
comizio, la giuria popolare potevano includere o escludere un fatto da
quelle previsioni astratte con una discrezionalità che nessuna operazione
ermeneutica oggi permetterebbe di configurare”
13
.
Inoltre si è messo in luce che l’intervento legislativo ricorreva
soltanto nei casi dubbi: in particolare nell’ipotesi in cui i crimini che più
destavano l’interesse dei gruppi sociali e politici e le soluzioni date dalla
pratica fossero divergenti al massimo; solo allora si provvedeva ad
emanare una apposita lex publica o un senatusconsultum che qualificasse
una certa condotta come illecita. Oggi diremmo che si trattava di un
intervento ex post, laddove si accertava un dato di fatto ormai non più
trascurabile nella pratica forense.
Tutto ciò era coerente con la struttura normativa dell’ordinamento
romano, posto che non era ammesso il principio di legalità, o almeno lo
era in una misura lontana da quella oggi esistente; al massimo esso
veniva soddisfatto dalle leges istitutive delle questiones perpetuae.
Significativa è la ricostruzione che di tale stato dei fatti si è
operata: si sostiene infatti che alla base vi fossero ragioni di natura etica,
di origine orientale.
Ogni cittadino sapeva che allontanandosi da un modello di vita
equilibrato sarebbe stato ingiusto; a prescindere da ogni previsione
legale, ciascuno sapeva cosa fosse lecito e cosa illecito.
13
V. Giuffrè, Il diritto penale nell’esperienza romana, Napoli, 1989, pag. 73.
10
Per di più, la mancanza di una fitta rete di norme era contrapposta
dal sistema di funzionamento dello status rei publicae, lasciato al giuoco
delle forze, all’opporsi di questa o quella corrente politica.
Solo sporadicamente un istituto giuridico aveva regole giuridiche:
più spesso erano la consuetudine, i comportamenti reiterati a dare il
carattere cogente delle norme
14
.
14
V. Giuffrè, Op. Ult. Cit., pag. 74 e ss.
11
1.5 L’ETA’ DEL PRINCIPATO
La repressione criminale durante i secoli del principato e del
dominato condurrebbe il nostro discorso lungo percorsi suggestivi e
articolati. Una sua attenta indagine farebbe così perdere di vista
l’obiettivo di dare un rendiconto sintetico dei antecedenti storici della
figura del giudice-creatore del diritto.
Negli anni compresi tra il 27 e il 23 a.C. si succedono una serie di
eventi che travolgono le istituzioni della Libera Res Pubblica, già entrate
in crisi nel corso dei decenni precedenti, e segnano la fondazione del
Principato.
Il Princeps è la nuova figura istituzionale che, nei suoi diversi
volti,da imperatore illuminato a despota di un impero in crisi, sino al 476
d.C. ha retto tutte le istituzioni del novus status rei pubblicae.
Nel nuovo assetto istituzionale, la cognizione di ipotesi delittuose
non previste dalle leges publicae, ma anche dei crimini per i quali era
preordinata una apposita questio, potevano essere avocati dal princeps al
proprio tribunale.
Infatti, a partire da Augusto, entrarono in funzione due nuove corti
criminali, di cui una era costituita dall’imperatore con l’assistenza del
suo consilium.
I reati giudicati dal tribunale imperiale erano tra i più vari: tra essi
ricordiamo i crimina maiestatis, gli abusi dei funzionari statali, le
violazioni della disciplina militare, alcuni delitti comuni.
Le decisioni del tribunale erano chiamate decreta e per esse il
principe risolveva i conflitti posti alla sua attenzione.