II
Tante analogie sono ravvisabili per il fatto che il cinema di Allen (senza escludere i primi film
cosiddetti “comici”, che sullo stile delle sue famose one-liners già presentavano contenuti “seri” in forma
parodistica) sviluppa tematiche impegnative come le relazioni interpersonali, l’introspezione psicologica,
le riflessioni esistenziali sul senso della vita e via dicendo. Tematiche anche “bergmaniane”, poiché il
regista svedese ha dedicato la quasi totalità della sua immensa produzione cinematografica (teatrale e
televisiva) all’osservazione e all’analisi degli interrogativi fondamentali dell’uomo.
Questa molteplice ed eterogenea serie di accostamenti da un lato contribuisce a individuare la presenza
inequivocabile di Bergman nella cinematografia alleniana, dall’altro non è sufficiente, a nostro avviso,
per esaurire il discorso, riducendolo in un quadro limitato e superficiale. Allen ha sempre attinto
liberamente al proprio background culturale, intellettuale e soprattutto cinematografico e le citazioni e i
rimandi ad altri autori ed opere sono numerosi in tutti i suoi film. Le interpretazioni risultano quindi
rischiose quando si ricercano e si distinguono i molteplici riferimenti ai “grandi” del cinema o dell’arte in
generale (Chaplin, i fratelli Marx, Bergman, Fellini, Cečov, Tolstoj, Picasso…), volutamente o
inconsciamente intrecciati dal cineasta nei suoi film.
Tuttavia, il complesso di “tracce” bergmaniane già riscontrate in molti lavori di Allen, assieme alla sua
dichiarata adorazione per il regista svedese, costituiranno il punto di partenza della nostra ricerca: quello
che ci preme è infatti penetrarne la superficie per evidenziare l’impronta di Bergman sul linguaggio
cinematografico alleniano. Come vedremo, le figure bergmaniane assimilate da Allen rientrano nel
contesto del cinema della modernità a cui il regista svedese ha aderito fin dai primi anni Sessanta, per
rappresentare l’interiorità e l’onirismo.
Nella sua recensione all’edizione americana di Lanterna Magica, l’autobiografia di Bergman, Allen
espone molto chiaramente il problema che il cinema andava affrontando:
The predominant arena for conflict in motion pictures has usually been the external, physical world.
Certainly that was true for many years…As the Freudian revolution sank in, however, the most
fascinating arena of conflict shifted to the interior and films were faced with a problem. The psyche is
not visible. If the most interesting fights are being waged in the heart and mind, what to do? Bergman
evolved a style to deal with the human interior, and he alone among directors has explored the soul’s
III
battlefield to the fullest…He created dreams and fantasies and so deftly mingled them with reality that
gradually a sense of the human interior emerged…He has found a way to show the soul’s
landscape…By rejecting cinema’s standard demand for conventional action, he has allowed wars to
rage inside characters that are as visual as the movement of armies. See Persona.
2
(Allen 1988, in
Oliver, 1995:28)
Secondo Sam Girgus, la recensione di Allen «delineates by implication his own artistic and theoretical
aspirations. In writing about Bergman, Allen in effect writes his own story and theory of film as well»
3
(Girgus, 1993:114). Allen espone la problematica della raffigurazione filmica dell’interiorità con tale
candore («the psyche is not visible…what to do?») da sottintenderne per contrasto l’enorme portata
nell’evoluzione del linguaggio cinematografico: effettivamente questo è il motivo che assilla e accomuna
maggiormente il cinema di entrambi. Si potrebbero infatti adottare le asserzioni di Allen, a proposito della
ricerca estetica messa in atto da Bergman nel fronteggiare la rappresentazione dello «human interior»,
come una sorta di manifesto personale delle motivazioni del suo fare cinema. Citando ancora Sam Girgus:
Clearly, many of his own cinematic innovations…represent his desire to expose and dramatize the inner
domain of psychic conflict and alienation in the manner of Bergman. The revolution of subjectivity and
sexuality in Play it Again, Sam, the representation of psychic division through the use of such devices as
the split screen in Annie Hall, the presentation and dramatization of displacement and decenteredness on
the Scope-screen in Manhattan, and the circling camera in Hannah and Her Sisters all involve attempts
to realize interior tensions and latent conflicts on the screen…Certainly the influence on Allen of other
important directors besides Bergman can be seen…Nevertheless, it remains significant that, in Allen’s
view, Bergman stands as the most important to him, at least as a source for the depiction of internal
conflict and interior consciousness.
4
(Girgus, 1993:115-116)
2
«L’arena predominante per il conflitto nei film è stata di solito il mondo fisico, esteriore. Di certo è stato così per
molti anni…Con l’affermarsi della rivoluzione freudiana, però, l’arena più affascinante del conflitto si spostò verso
l’interiorità e i film dovettero far fronte a un problema. La psiche non è visibile. Se gli scontri più interessanti
hanno luogo nel cuore e nella mente, cosa si può fare? Bergman ha sviluppato uno stile per occuparsi
dell’interiorità umana, ed egli solo fra i cineasti ha esplorato in pieno il campo di battaglia dell’anima…Ha creato
sogni e fantasie e le ha fuse così abilmente con la realtà così che gradualmente è emerso un senso dell’interiorità
dell’uomo…Ha trovato un modo per mostrare il paesaggio dell’anima…Respingendo la richiesta standard di azione
convenzionale del cinema, ha permesso alle guerre che infuriano dentro i personaggi di diventare visibili come il
movimento degli eserciti. Vedi Persona».
3
«delinea per implicazione le sue proprie aspirazioni artistiche e teoretiche. Scrivendo di Bergman, Allen in effetti
scrive anche la propria storia e teoria del film».
44
«Chiaramente, molte delle sue innovazioni cinematografiche…rappresentano il suo desiderio di esporre e
drammatizzare la sfera interiore del conflitto psichico e dell’alinezione alla maniera di Bergman. La rivoluzione di
IV
Con il presente lavoro tenteremo pertanto di dimostrare come Allen, volendo rappresentare «the psyche
not visible», prenda come modello una certa estetica bergmaniana. Quindi, estendendo il discorso relativo
alla problematica dell’interiorità a tutto ciò che sottende l’idea di non visibile – in altre parole a ciò che la
natura mimetica del cinema non gli permette di raffigurare ontologicamente; ovvero il magico, il sogno, il
ricordo, la fantasticheria, il flusso di coscienza, e così via –, tenteremo di dimostrare che tutte queste
molteplici sfaccettature dell’invisibile costituiscono motivi ricorrenti sia nel cinema di Bergman sia in
quello di Allen.
5
Infine, a prescindere dalle figure di linguaggio specifiche che Allen ha assimilato da
Bergman e che andremo ad individuare nel corso della nostra ricerca, cercheremo di comprendere come
questa vocazione al costante confronto con l’irrappresentabile in entrambi i cineasti riveli una precisa
presa di posizione all’interno del panorama estetico cinematografico: una ribellione contro le convenzioni
del cinema classico hollywoodiano, del “montaggio invisibile”, perché da un lato improntato sul
celamento della finzione, dall’altro illusoriamente realistico.
6
Bergman si libererà con grande difficoltà nel corso della sua carriera del linguaggio hollywoodiano,
elaborando soluzioni moderne e autoriflessive che svelano gli artifici del mezzo cinematografico e
rendono possibile rappresentare nel cinema l’invisibile. Allo stesso scopo Allen assimilerà le innovazioni
sperimentate da Bergman nel suo cinema, integrandole in uno stile personale che potremmo definire
soggettività e sessualità in Play it Again, Sam, la rappresentazione della divisione psichica attraverso l’uso di certi
espedienti come lo split screen in Annie Hall, la presentazione e drammatizzazione del dislocamento e del
decentramento sullo Scope-screen in Manhattan, e la cinepresa roteante in Hannah and Her Sisters, tutti implicano
tentativi di realizzare tensioni interiori e conflitti latenti sullo schermo…Certamente si può vedere l’influenza su
Allen di altri importanti registi oltre a Bergman…Nondimeno, rimane significativo che, nella visione di Allen,
Bergman resta il più importante per lui, almeno come fonte per la raffigurazione del conflitto interiore e dell’intima
coscienza».
5
La tensione drammatica e l’approccio culturale con cui vengono affrontati dai due cineasti è certamente
differente. Peter Bailey riassume lucidamente la posizione artistica di Allen, «One way to describe Allen is as a
Modernist by doctrine and a Postmodernist by inclination and practice…The Modernist Allen wants to make
serious films which attempt to answer significant human questions; the Postmodernist Allen doubts the utility of
posing that questions» (Bailey, 2001:177). («Un modo per descrivere Allen è come un moderno per dottrina e un
postmoderno per inclinazione e pratica…L’Allen moderno vuole realizzare film seri che tentano di rispondere a
quesiti significativi dell’uomo; l’Allen postmoderno dubita l’utilità di porre tali quesiti»). Tuttavia questi elementi
comuni indicano una medesima volontà nel ricercare vie possibili alla rappresentazione filmica dell’irreale,
dell’onirico, del metafisico.
6
Rimandiamo alle teorie di André Bazin sul “découpage invisibile” nel testo di riferimento principale su questo
tema, Qu’est-ce que le cinéma?, Éditions du Cerf, Paris, 1959-64 (tr. it., Che cosa è il cinema?, Garzanti, Milano
1999).
V
“europeizzante”, che lo porrà in diretto contrasto con la cinematografia americana e gli varrà il titolo di
autore anti-hollywoodiano.
7
Allo scopo di offrire una visione il più possibile ampia di questa problematica, ci soffermeremo
opportunamente sui film dei due cineasti che più rappresentano lo sforzo di “interiorizzare” il proprio
cinema attraverso figure di linguaggio della modernità. Tuttavia, data la vastità della filmografia di
entrambi gli autori, al fine di evitare un percorso che andrebbe ben oltre la portata della presente ricerca
focalizzeremo la nostra attenzione unicamente sul film di Bergman più rappresentativo del cinema della
modernità, Persona (1966). Prenderemo parimenti come modello della modernità di Allen Stardust
Memories (1980), un film tradizionalmente non associato al suo retaggio bergmaniano e nel quale invece
rintracceremo numerosi stilemi moderni assimilati dal cinema di Bergman.
Ho condotto le mie ricerche principalmente nella primavera del 2002 alla Bobst Library della New
York University, al Lincoln Center e alla Public Library di New York. Un ringraziamento particolare va
al fotografo John Clifford, grazie al quale ho potuto assistere a un set di un film di Woody Allen (“Spring
Project 2002”) durante la mia permanenza a Manhattan.
7
L’ultimo film di Woody Allen, Hollywood Ending (2002), è l’ennesima satira sugli opprimenti meccanismi degli
studios. Un regista, divenuto psicosomaticamente cieco durante la realizzazione di un film commerciale,
trasgredisce a causa del suo handicap le più comuni regole cinematografiche. Nonostante il suo film sia un
completo fallimento per gli standard hollywoodiani, avrà paradossalmente enorme successo in Francia. La sottile
ironia alleniana evidenzia come la stantia drammaturgia classica proibisca la rottura delle convenzioni che
assicurano un’immediata ricezione del pubblico e impedisca l’evoluzione dell’arte cinematografica.
PRIMA PARTE
Strategie della modernità nel cinema di Bergman
dagli esordi a Persona
1
CAPITOLO PRIMO
La fase classica
I.1. Tra classicismo e modernità: il paradigma estetico bergmaniano
In una ricerca che si proponga di individuare le figure stilistiche propriamente moderne che Allen ha
ereditato da Bergman, è necessario delineare innanzitutto quale posizione il cineasta svedese occupi nel
panorama dell’evoluzione del linguaggio cinematografico in un periodo, gli anni Cinquanta e Sessanta,
che vede avviarsi un rinnovamento estetico e trasformare le modalità di rappresentazione classiche in
moderne. Secondo Mikael Timm:
Bergman’s work presupposes both a clear tradition and the need to depart from it…With his roots in
institutional theater, Bergman has been very much in the center of the clash between cultural heritage
and innovation that has characterized twentieth-century aesthetics…Instead of polishing his style, each
film has served as a new contribution to his continuous test of “the potential of contemporary art.” In
other words: where should we stand on the scale between traditionalism and modernism?
8
(Timm, in
Oliver, 1995:96-97)
La domanda è più che pertinente, in quanto dimostra come il cineasta occupi un ruolo ambivalente
all’interno dei mutamenti estetici che attraversano il cinema europeo in quel periodo.
L’evoluzione artistica di Bergman potrebbe essere riassunta semplicisticamente descrivendo gli anni
Cinquanta come il periodo in cui il cineasta raggiunge la maturità, aderendo soprattutto ad un cinema
8
«L’opera di Bergman presuppone sia una chiara tradizione sia il bisogno di allontanarsi da essa…Con le sue
radici nel teatro istituzionale, Bergman è stato più che mai al centro dello scontro tra retaggio culturale e
innovazione che ha caratterizzato le estetiche del ventesimo secolo…Invece di raffinare il suo stile, ogni film è
servito come un nuovo contributo al suo continuo test del “potenziale dell’arte contemporanea.” In altre parole:
dove dovremmo stare sulla bilancia fra classicismo e modernità?».
Tutto può avvenire, tutto è possibile e probabile.
Tempo e spazio non esistono; su una base minima di
realtà, l’immaginazione disegna nuovi motivi –
prefazione de Il sogno di August Strindberg
2
classico e invertendo la rotta a partire dagli anni Sessanta, nel corso dei quali sperimenta le potenzialità di
un cinema moderno. Tuttavia, confini così netti non possono essere tracciati senza cadere in una certa
superficialità, poiché nella fase più legata alla tradizione hollywoodiana Bergman realizza alcune
sperimentazioni, e in quella successiva non scompare del tutto la sua formazione classica. Come osserva
Mikael Timm, ogni suo film pone di continuo la questione della scelta di un atteggiamento classico o
moderno.
Pertanto, per comprendere le dinamiche ambivalenti del cinema bergmaniano bisogna fare qualche
passo indietro nella biografia del cineasta e considerare che proviene dal teatro, non dal cinematografo.
Fin dall’infanzia, quando gli venne regalata una lanterna magica, egli coltiva una forte passione per il
racconto e la “messa in scena,” che soddisfa in gioventù attraverso il teatro, un mondo che non ha mai
effettivamente abbandonato.
9
Bergman non ha mai negato l’influenza del suo background teatrale sulla
formazione e sull’evoluzione del suo stile cinematografico.
Inoltre, Bergman inizia la sua carriera cinematografica nel rispetto di generi collaudati, imparando la
professione secondo le convenzioni di cui lo stile hollywoodiano è il depositario per eccellenza.
Si può dunque desumere che le circostanze della formazione del cineasta, ovvero l’esperienza teatrale
e una familiarità con le esigenze di un cinema commerciale, lo rendano un esperto dei meccanismi del
mondo dello spettacolo: innanzitutto la vita di teatro, dove il riscontro del pubblico è immediato e diretto,
gli ha insegnato che al di là dello spazio scenico, in cui gli attori fanno vivere la finzione, sono sempre
presenti gli spettatori che devono recepire l’opera e hanno diritto all’intrattenimento. Bergman sostiene
che:
In teatro, il rapporto è talmente diretto…Gli attori sono lì davanti al pubblico e tu devi muoverli,
aiutarli, dare loro tutte le possibilità affinché siano il più possibile efficaci e comprensibili. In caso
contrario, il pubblico si infurierà, oppure non verrà, o ancora farà a meno di guardarli. E l’errore sarà
soltanto tuo. (Bergman 1990, tr. it. 1994:59)
9
Come è noto, Bergman ha ufficialmente abbandonato il cinema con l’epopea definitiva di Fanny e Alexander
(1982), continuando ancora oggi a lavorare per il teatro e la televisione. Il successivo Dopo la prova (1984) era
destinato ad una produzione televisiva e, come ha dichiarato il cineasta, non costituisce un epilogo alla sua
filmografia.
3
Consapevole dell’esistenza di un cordone ombelicale che unisce le modalità della rappresentazione
scenica alla ricezione del pubblico, di un rapporto osmotico tra spettatore e spettacolo, Bergman sa che la
produzione di un’opera drammaturgica, nel teatro come nel cinema, deve anche essere pensata in
funzione del mantenimento di tale legame.
In secondo luogo, l’apprendistato nell’industria cinematografica commerciale non può che aver
confermato e solidificato quest’insegnamento, trasferendolo ai canoni del medium filmico.
In sostanza, in quanto “uomo di spettacolo”, Bergman comprende che non c’è dramma senza pubblico,
e che pertanto nel processo creativo di ogni film la componente d’intrattenimento e ricezione va
contemplata nelle proprie scelte estetiche, tanto quanto le esigenze artistiche personali. Ne consegue,
negli anni Cinquanta, l’adesione del cineasta a un’estetica classica, le cui modalità di rappresentazione
ben si addicono al “raccontare una storia”, soddisfando quei requisiti di chiarezza e intrattenimento
necessari per ottenere l’attenzione e la comprensione di un vasto pubblico. I film di questo decennio
mostrano visibilmente una teatralità della messa in scena fondata su una drammaturgia chiara e ben
costruita.
Il classicismo del suo cinema non nasce però da preoccupazioni o finalità meramente commerciali.
Allen è in grado di individuarne la natura artistica, «In addition to all else – and perhaps most important –
Bergman is a great entertainer; a storyteller who never loses sight of the fact that no matter what ideas
he’s chosen to communicate, films are for exciting an audience. His theatricality is inspired»
10
(Allen
1988, in Oliver, 1995:27).
L’attenzione per il pubblico, espressa dalla preoccupazione di mantenere sempre nei suoi film un
adeguato grado di comprensibilità e intrattenimento, è stata del resto ribadita da Bergman in diverse
occasioni:
10
«In aggiunta a tutto questo – e forse di maggior importanza – Bergman è un grande intrattenitore, un racconta-
storie che non perde mai di vista il fatto che a prescindere dalle idee che ha scelto di comunicare, i film sono fatti
per intrattenere il pubblico. La sua teatralità è ispirata».
4
Amo molto il pubblico. Mi sono sempre detto: «Devo essere molto chiaro, devono capire ciò che dico,
non è difficile» e molte volte mi sono reso conto di non essere stato abbastanza semplice, abbastanza
chiaro. Ma in tutta la mia vita, ho sempre lavorato per il pubblico. (Bergman 1990, tr. it. 1994:58)
Al contrario, quando Bergman trascura volontariamente questi propositi realizza i suoi film più
sperimentali nel contesto di un cinema della modernità. Il cineasta lo ha espresso apertamente: «A volte,
con L’ora del lupo o con Luci d’inverno mi sono ribellato al mio amore per il pubblico dicendomi: <Me
ne infischio!>…beh ovviamente anche in altri film» (1994:59).
Citeremo di seguito una serie di dichiarazioni del cineasta raccolte da Birgitta Steene, una delle più
profonde conoscitrici dell’opera bergmaniana, allo scopo di chiarire l’importanza che il pubblico, e
l’aspetto fruitivo di un’opera, rivestono per Bergman, in rapporto alle sue scelte estetiche:
For me personally this question always pops up: Can I express myself in a more simple, pure and brief
way? Does everyone understand what I am saying? Can the most unsophisticated person follow this
train of development?…In all experimenting there is a great and obvious risk, since the experiment
always leads away from the public. The road away from the public can lead to sterility, confinement in
the ivory tower.…Since I do not create my work for my own or a few people’s spiritual elevation but
for the entertainment of millions, the…imperative [of clarity] usually wins out. But sometimes I still try
the riskier alternative and it turns out that the public also absorbs an advanced irrational line of
development with a surprisingly open ear.
11
(Steene, in Michaels, 2000:28-29)
Queste affermazioni ci permettono di formulare un paradigma fondamentale, che sintetizza l’estetica
mutevole del cineasta, secondo il quale il classicismo è sinonimo di chiarezza e garantisce la ricezione di
un’opera da parte dello spettatore, mentre lo sperimentalismo implica quasi sempre il rischio di
allontanarne l’attenzione, di confinare l’autore nella «ivory tower». Per questo motivo, l’approccio
interpretativo alla cinematografia bergmaniana e la delineazione delle sue evoluzioni attraverso gli anni
11
«Personalmente questa domanda mi si ripresenta sempre: Posso esprimermi in modo più semplice, puro e breve?
Capiscono tutti quello che dico? Può la persona più semplice seguire questa sequenza di sviluppo?…In tutta la
sperimentazione c’è un grande ed ovvio rischio, poiché l’esperimento porta sempre via dal pubblico. La via lontana
dal pubblico può portare alla sterilità, al confinamento nella torre d’avorio….Visto che non creo la mia opera per
me stesso o per l’elevazione spirituale di pochi ma per l’intrattenimento di milioni…l’imperativo [di chiarezza] di
solito vince. Ma a volte provo ancora l’alternativa più rischiosa e si scopre che anche il pubblico assorbe una linea
irrazionale avanzata con un orecchio sorprendentemente aperto».
5
devono necessariamente prendere atto che il cinema di Bergman nasce sempre da una dialettica costante
tra classicismo e modernità.
Il tentativo di definire le scelte estetiche del cineasta all’interno della querelle tra classicismo e
modernità è quindi assai difficoltoso. Come asserisce Steene, i film che succedono al primo periodo
mostrano,
the quandary of a screenwriter and director who discovers the potential of the film medium to trascend
Hollywood’s dramaturgical rationale but who never rejects that rationale completely…Bergman’s
mainstream heritage, that is, his focus on telling a story and doing so with utmost clarity, never leaves
him.
12
(Steene, in Michaels, 2000:28)
Durante l’intero arco della sua carriera cinematografica, Bergman ha sempre presente questo dilemma.
Steene fa notare come ancora alla fine degli anni Cinquanta, nonostante il successo internazionale
ottenuto con Sorrisi di una notte d’estate (1955), e mantenuto negli anni successivi con due capolavori, Il
settimo sigillo (1957) e Il posto delle fragole (1957), «[Bergman] still felt compelled to set down certain
rules for himself…in order to sort out his sense of obligation to the public of a mass medium and to his
own ambitions and need for artistic integrity».
13
Nel 1959 Bergman ha difatti stilato tre “comandamenti” fondamentali per il suo metodo di lavoro, che
palesano perfettamente il paradigma estetico del suo cinema.
14
Il primo recita “Var alltid underhållande”
(alla lettera: “Sii sempre divertente,” ossia provvedi sempre l’intrattenimento), e si riferisce al senso di
responsabilità, maturato dall’esperienza teatrale, che il cineasta sente verso il pubblico. Il secondo, “Du
skall följa ditt konstnärliga samvete” (“Ascolterai la tua coscienza artistica”), ridimensiona il primo,
concedendosi di infrangerlo se le esigenze personali lo richiedono. Nel terzo comandamento, “Varje film
är min sista film” (“Ogni film è il mio ultimo film”), Bergman prende atto del fatto che i meccanismi e le
12
«il dilemma di uno sceneggiatore e cineasta nello scoprire che il potenziale del medium filmico trascende la
logica drammaturgica di Hollywood ma che non rifiuta mai quella logica completamente…Il retaggio classico di
Bergman, vale a dire, il suo obiettivo di raccontare una storia e di farlo con estrema chiarezza, non lo abbandona
mai».
13
«[Bergman] si sentiva ancora costretto a scrivere alcune regole per se stesso…per risolvere il suo senso d’obbligo
verso il pubblico di un medium di massa e verso le proprie ambizioni e il bisogno di integrità artistica».
14
Ingmar Bergman, 1959.
6
pressioni dell’industria cinematografica rendono il suo lavoro precario e s’impegna moralmente a
considerare ogni suo nuovo film come se fosse l’ultimo.
Le prime due norme ci interessano in modo particolare,
15
poiché la loro latente contradditorietà riflette
un conflitto del cineasta che influenza la realizzazione di ogni suo film: da una parte provvedere
15
Riportiamo testo originale e traduzione dei primi due comandamenti perché di grande interesse per il nostro
discorso: «VAR ALLTID UNDERHÅLLANDE. Detta innebär att den publik som besöker min förevisning och
därmed betalar mitt uppehälle, har rättighet att fordra en upplevelse, en gripenhet, en glädje, en vitalitet. Jag är
skyldig att åstadkomma den upplevelsen. Det är mitt enda existensberättigande.
Med detta menas inte att jag har rätt att prostituera mig, åtminstone inte hur som helst, eftersom jag då genast
kommer i strid med mitt andra bud som lyder:
DU SKALL FÖLJA DITT KONSTNÄRLIGA SAMVETE.
Detta är ett mycket knepigt budord eftersom det självfallet förbjuder mig att stjäla, ljuga, hora, mörda och förfalska.
Det vill säga, jag tillåts förfalska om det är konstnärligt försvarligt, jag får också ljuga om det är en attraktiv lögn,
jag bör mörda mina närmaste eller mig själv eller vem som helst, om det hjälper min film, jag får också lov att
prostituera mig om det gynnar saken och jag måste ju stjäla om jag inte har något eget att komma med.
Detta är i korta drag att lyda sitt konstnärliga samvete i alla dimensioner och den balansakten är så svindlande att
man när som helst kan falla ned och bryta nacken av sig och då säger alla förståndiga och moraliska människor: –
Titta, där ligger den tjuven, den mördaren, den horbocken, den lögnaren. Det var bäst som skedde. Ingen tänker på
att alla medel är tillåtna utom dem som för till fiasko, och att de farliga vägarna till slut är de enda framkomliga,
och att tvånget och svindelkänslorna är två nödvändiga ingredienser i vår eggelse. Ingen tänker på att skapandets
glädje som är en vacker sak alltid är bemängd med skapandets fasa som är nödvändig. Man kan läsa hur många
besvärjelser som helst, förstora sin ödmjukhet och förminska sitt högmod bäst man gitter, faktum kvarstår likafullt:
Att följa sitt konstnärliga samvete är en perversitet inbränd i köttet under åratal av förödmjukelse och lysande
ögonblick, av självklar askes och motvillig utlevelse. Slutsumman av allt detta blir densamma hur man än räknar.
Först vid jagets absoluta smältpunkt uppstår den legering mellan tro och underkastelse som kallas konstnärlig
självklarhet. Jag vill ingalunda påstå att jag befinner mig vid den punkten men det är mitt enda mål och jag försöker
att hålla kompassriktningen så gott jag förmår».
(«SII SEMPRE DIVERTENTE. Questo significa che il pubblico che si reca alla mia rappresentazione,
contribuendo con ciò alla mia sussistenza, ha il diritto di pretendere di vivere esperienze, commozione, gioia,
vitalità. Io ho il dovere di produrre tale esperienza. Solo così mi sono meritato il diritto all’esistenza.
Questo non vuol dire che io sia autorizzato a prostituirmi, o perlomeno non in qualunque maniera, perché mi
troverei immediatamente a combattere con il mio secondo comandamento che recita:
ASCOLTERAI SEMPRE LA TUA COSCIENZA ARTISTICA.
È un comandamento piuttosto intricato visto che evidentemente mi vieta di rubare, mentire, fare le corna, uccidere
e falsificare. Intendo dire, mi è permesso falsificare per motivi artisticamente legittimi, posso anche mentire se la
bugia è gradevole, devo uccidere i miei prossimi o me stesso o chiunque sia, se questo va a vantaggio del mio film,
mi è anche concesso prostituirmi se ciò favorisce la causa e dovrò pure rubare se non ho niente di mio da tirar fuori.
Questo è in poche parole il senso dell’ascoltare la propria coscienza artistica in tutte le sue dimensioni, e implica un
equilibrismo tanto vertiginoso che uno potrebbe cadere giù e rompersi il collo in qualsiasi momento e sentire tutta
la gente saggia e moralista dire: – Guardate un po’, eccolo lì il ladro, l’assassino, l’adultero, il bugiardo. E’ stato
meglio così.
Nessuno prende in considerazione il fatto che tutti i mezzi siano buoni, tranne quelli che portano al fiasco, e che le
strade pericolose sono infine le uniche percorribili, e che l’obbligo e le vertigini sono due ingredienti necessari al
nostro incitamento. Nessuno prende in considerazione il fatto che la gioia di creare, che è una bella cosa, sia sempre
mischiata all’imprescindibile terrore di creare. Si possono recitare scongiuri innumerevoli, accrescere la propria
umiltà e attenuare la propria superbia per quanto si riesca, il fatto rimane: Ascoltare la propria coscienza artistica è
una perversione marchiata nella carne dopo anni di umiliazione e momenti felici, di ascetismo naturale e sfogo
forzato. La somma finale è sempre uguale, non importa come si procede ai calcoli. Solo all’assoluto punto di
fusione dell’io si crea quella lega tra fede e sottomissione chiamata istintività artistica. Non intendo affatto
7
l’intrattenimento e lo spettacolo per il pubblico, essere chiari e comprensibili; dall’altra non tradire la
propria vocazione artistica, ovvero osare nuove vie che non sempre possono essere immediate per lo
spettatore.
Tale paradigma estetico sta dunque alla base del cinema bergmaniano, sempre oscillante tra
classicismo e modernità. Steene osserva che,
until the very end of his filmmaking career Bergman performs a balancing act between classical film
narrative with its underlying assumption that film is popular entertainment and a modernist dramaturgy
based on his own aesthetic impulses and desire to explore the full potential of the film medium.
16
(Steene, in Michaels 2000:29)
A seconda di quanto Bergman concede in fase creativa all’una o all’altra parte, ne conseguirà il grado di
accessibilità e sperimentazione del film. Perché per un cineasta il cui principale interesse è il sogno e lo
scandaglio dell’interiorità nel cinema – la rappresentazione dell’invisibile come si è detto
nell’introduzione –, il problema della comprensibilità si pone ogni volta come un ostacolo da raggirare o
da superare con un balzo.
Laddove Bergman, ad esempio, sovvertirà la realtà ontologica dell’immagine filmica per fare spazio
alle ingerenze del metafisico, e accosterà la realtà al sogno (o viceversa) in maniera volutamente oscura e
inscindibile (Il Silenzio, Persona, Sussurri e grida), verranno a mancare anche quegli elementi all’interno
del film che permettono una ricezione immediata e l’attività esegetica stessa; in altre parole, verrà
compromesso il rapporto tra spettatore e testo che il cineasta è abituato a rispettare.
affermare che io sia arrivato a quel punto, ma esso costituisce il mio unico obiettivo e cerco di seguire quella
direzione sulla bussola per quanto mi sia possibile»).
16
«Fino alla fine della sua carriera cinematografica, Bergman esegue un atto di bilanciamento tra la narrazione
filmica classica con il suo presupposto implicito che il cinema è intrattenimento popolare e una drammaturgia
moderna basata su propri impulsi estetici e il desiderio di esplorare il pieno potenziale del medium
cinematografico».
8
Un’opera come Persona, decisamente sperimentale, non poteva essere concepita senza una simile
consapevolezza e una precisa volontà del regista di scardinare i sistemi del cinema convenzionale, che
assicurano l’accessibilità dell’immagine e del film.
17
Persona, infatti, incarnerà alla perfezione la
questione del paradigma bergmaniano: il film inizia secondo una drammaturgia convenzionale e scivola
progressivamente e inesorabilmente verso una moderna.
18
Riassumendo, il cinema di Bergman nasce ed evolve attraverso una dialettica conflittuale tra la
rappresentazione del fisico e del metafisico, e per estensione semantica del reale/irreale,
visibile/invisibile, veritiero/illusorio, a cui corrisponde l’ambivalente adesione del cineasta al cinema
classico e della modernità.
Vorremmo comunque precisare che il paradigma formulato non è certo da estendersi a parametro di
distinzione generale tra il cinema classico e quello moderno. Si potrebbero citare innumerevoli casi di
film, la cui leggibilità e chiarezza non viene ad ogni modo compromessa dall’impiego di modalità
moderne della rappresentazione. Ma nel caso specifico del cinema bergmaniano, il conflitto estetico fra
classicismo e modernità riflette un conflitto tra il dovere di raggiungere il pubblico e quello di non tradire
le proprie aspirazioni artistiche.
17
Cfr. III.1.
18
Cfr. III.2.2.