5
Non manca inoltre chi trova nella proliferazione del virtuale la causa di una
crisi del mercato del lavoro che si fa di giorno in giorno sempre più grande:
quando tutte le abitazioni saranno cablate con fibre ottiche e connesse alla
rete, ci sarà tutta una serie di operazioni che potranno essere svolte
comodamente a casa e questo segnerà la fine di molti impiegati e lavoratori
comuni. D’altra parte però c’è anche chi non pensa al virtuale come a
qualcosa di nuovo e soprattutto scorge in esso, nonostante gli indiscutibili
lati oscuri, qualcosa di assolutamente naturale. È il caso di Pierre Lévy che
trova nel virtuale e nelle evoluzioni culturali che lo hanno preceduto un
proseguimento dell’ominizzazione
3
.
La virtualizzazione non è quindi né positiva, né negativa, né neutra. Essa si
presenta come il movimento stesso del ‘farsi altro’, eterogenesi dell’umano… Il
virtuale non è affatto il contrario del reale ma un modo di essere fecondo e
possente che concede margine ai processi di creazione, schiude prospettive
future, scava pozzi di senso al di sotto della piattezza della presenza fisica
immediata.
4
Non di meno però la virtualizzazione, se non ad una smaterializzazione
viene assimilata, da Lévy, ad una “privazione di sostanza che si declina in
trasformazioni a essa legate: la deterritorializzazione” - cioè un distacco dal
qui e ora, presente ovunque e in nessun luogo, ma sempre
contemporaneamente – “l’effetto Moebius, che dispone l’incessante
rovesciamento dell’interno e dell’esterno, la condivisione di elementi
privati e l’integrazione soggettiva inversa di elementi pubblici.”
5
3
Pierre Lévy, Qu’est-ce que le virtuel?, Paris, Editions La Découverte, 1995 (trad. it. di Maria Colò e
Maddalena Di Sopra, Il virtuale, Milano, Raffaello Cortina Editore, 1997, p.1 sgg.).
4
Ivi, p.2.
5
Ivi, p.127.
6
Nascono così, secondo Lévy, comunità virtuali che si organizzano secondo
affinità di vario tipo ma per le quali lo spazio e il tempo classici non
rappresentano più un problema. Essi rientrano nello spazio-tempo reale
solo saltuariamente perché ricordiamo che devono sempre agganciarsi a
supporti fisici che ne permettano il distacco dalla realtà.
6
Al di là di giudizi positivi o negativi sul virtuale e sulla virtualizzazione del
mondo e della cultura contemporanei ciò che ci interessa è partire dalle
caratteristiche che questa forma dell’essere sembra possedere per arrivare
prima alle tecnologie che ne hanno accresciuto la pervasività e quindi ai
contraccolpi teorici e pratici che queste tecnologie hanno causato nel
cinema contemporaneo e nella produzione cinematografica in particolare.
Le caratteristiche peculiari del virtuale sembrano essere: una natura
contrastata, ambivalente, addirittura ossimorica, una tendenza a staccarsi da
ciò che è reale o ad ampliare il reale stesso, e a farlo, comunque, attraverso
supporti tecnologici che lo permettano. La realtà virtuale è la tecnologia
che meglio sintetizza queste caratteristiche. Il termine realtà virtuale è stato
coniato nel 1989 da Jaron Lanier, direttore generale della VPL Research
una società californiana che si occupa da sempre di questa tecnologia, che ,
come ci dice Gianni Canova, “si presta… ad essere letta in maniera
antitetica o come derealizzazione e smaterializzazione del reale, oppure,
all’opposto, come dispositivo tecnologico che intensifica la realizzazione
del possibile”
7
, ma soprattutto la realtà virtuale crea una sensazione di
circondamento che può essere considerata l’elevamento a potenza della
sensazione che ormai dà il virtuale nel mondo. Anche la realtà virtuale ha
6
Ivi, pp.38 sgg.
7
Gianni Canova, L’Alieno e il Pipistrello, Milano, R.C.S. Libri S.p.A., 2000, pp. 23-24.
7
ovviamente bisogno di un qualche supporto fisico che permetta
all’individuo l’ingresso. Una volta indossata una tuta idonea, una cuffia
oculare e un guanto intelligente, la presenza di una realtà altra che si trova
tutto intorno a noi è fisicamente palpabile. Si tratta però di finzione, anche
noi che ci muoviamo al suo interno non siamo veramente lì, ma è un nostro
alter ego digitale a sostituirci e a rimandarci sotto forma di impulsi elettrici
delle sensazioni tattili e oculari, quelle sì, del tutto reali. È questo, secondo
Maldonado, lo snodo principale di tutto il discorso sul virtuale, “la nostra è
una civiltà in cui un particolare tipo di immagini, le immagini trompe-
l’oeil, raggiungono, grazie al contributo di nuove tecnologie di produzione
e diffusione iconica, una prodigiosa resa veristica”
8
e ciò è particolarmente
evidente nelle realtà virtuali. Gianni Canova propone a partire da queste
considerazioni una nuova definizione di virtualità utile a cogliere la nuova
natura delle immagini sintetiche: è virtuale quell’immagine che, lungi
dall’essere il frutto della riproduzione fotografica della realtà, si configura come
il risultato o il prodotto di un algoritmo realizzato al computer. In base a questa
definizione ciò che viene meno nell’immagine virtuale è il rapporto ontologico
con una realtà che la preesista o che esista comunque indipendentemente da lei.
9
L’immagine virtuale è quindi il risultato di un calcolo numerico, nasce dal
nulla, non ha un referente a cui rimandare se non se stessa e ciò da un lato
permette quella creatio mundi auspicata da Maldonado ma dall’altro
realizza anche quella fuga mundi dovuta, sempre secondo Maldonado, ad
una sorta di paura per la realtà
10
.
8
Tomás Maldonado, op.cit., p.48.
9
Gianni Canova, op.cit., pp.26-27.
10
Tomás Maldonado, op.cit., pp.78.
8
Al di la di questo mi sembra comunque interessante rilevare il passaggio di
queste immagini dallo statuto di icone a quello di idoli. Come spiega
Philippe Quéau:
Due parole in greco che indicano l’immagine: éidolon e eikon, l’idolo e l’icona.
Èidolon, dalla radice indoeuropea vid (vedere), forma eido (vedere) e oida
(sapere). Questa stessa radice si trova in idea (l’aspetto esteriore), hades
(l’invisibile, l’inferno), eidesis (la scienza) e eidyllion (l’idillio, la poesia). Per
contro eikon deriva da vik (sembrare) che ugualmente fornisce eiko (apparire e, al
passato: verosimile essere probabile), eike (per azzardo), isos (uguale). Quindi
l’idolo contiene l’idea: nel vedere c’è un sapere. L’icona è un’immagine
apparente. Ma nell’apparire sfumano il verosimile e l’inverosimile. La fotografia,
il cinema, il video sono tecniche iconiche, registrano delle apparenze, delle
analogie. Le immagini del computer non copiano il reale si basano su una
conoscenza a priori (modelli, strutture di calcolo, algoritmi) chiara e distinta. In
altre parole appartengono alle tecniche idoliche
11
.
Nella stessa direzione vanno gli studi di Jean Baudrillard
12
. Lo studioso si
concentra in particolare sul concetto di simulacro, la cui origine latina è
simulacrum che significa figura. Egli individua in questo senso tre ordini di
simulacri. Il primo, chiamato ordine della contraffazione, ha come
emblema la civiltà barocca in cui i segni sono privi di referente perché
hanno come referente se stessi. Ma questa, secondo Baudrillard, è
comunque ancora una fase imitativa, perché l’idolo conserva ancora una
11
Philippe Quéau, Eloge de la simulation, Paris, Champ Vallon, 1986 (cit. in Gianni Canova, op.cit.,
p.27).
12
Jean Baudrillard, op. cit., pp. 46 sgg.
9
nostalgia del suo referente naturale. I simulacri del secondo ordine,
nascono quando al principio dell’analogia tra naturale e artificiale si
sostituisce quello dell’equivalenza. Il problema dell’origine, a questo punto
non ha più senso perché è la tecnica stessa che è diventata origine.
L’immagine non ha più alcun rapporto con la realtà, il suo destino è solo la
riproducibilità. Il terzo ordine di simulacri è l’ordine della simulazione che
trova il suo motivo d’essere in questa che può essere considerata l’era
elettronica. L’astrazione è massima. L’immagine simulacrale è l’antitesi di
quella simbolica. Il simulacro cancella il referente e crea così un vuoto di
realtà e di senso. Il simulacro è, quindi, un segno vuoto, un duplicato senza
prototipo. Baudrillard, quindi, concorda nell’individuare nel rapporto con la
realtà la differenza principale tra immagini simboliche o iconiche e
immagini simulacrali o idoliche. Rapporto che nel caso di queste ultime,
identificabili nelle immagini sintetiche, non esiste per niente.
Lo stesso Casetti riconosce, riferendosi ai tentativi fatti dall’uomo per
ampliare la sua visione del mondo e agli strumenti che questi ha inventato
per riprodurlo, che “la conoscenza passa attraverso la visione, ma la visione
non sempre è conoscenza corretta e produttiva”
13
. Riconosce cioè le
difficoltà dell’uomo nel rapportarsi con le immagini. Questo vale in modo
particolare per le immagini iconiche che al mondo si riferiscono, ma che
non possono evitare di darne una visione parziale e sfocata. Quando un
fotografo sviluppa le fotografie da lui scattate, ciò che vi ritrova è
inevitabilmente il suo punto di vista sull’oggetto, e anche questo non può
che essere influenzato dalla qualità della carta su cui ha stampato, e ancora
13
Francesco Casetti, Il cinema, per esempio, Milano, I.S.U. Università Cattolica, 1999, p.23.
10
prima dalla stessa macchina fotografica e dalla definizione e precisione
nella messa a fuoco che questa gli permette. Diverso il discorso per le
immagini idoliche che ampliano il mondo ma non lo richiamano. Queste,
rifacendosi solo a se stesse non sono soggette ad errore, alla loro visione
corrisponde tutto il sapere che esse possono trasmettere, nulla di più e nulla
di meno, ma al contempo grazie alle tecnologie interattive come la realtà
virtuale ampliano il mondo nel quale, se non fisicamente almeno
virtualmente, possiamo muoverci.
A questo punto dovrebbe essere chiaro come la sempre maggiore
diffusione del virtuale e quindi delle immagini virtuali e idoliche abbia
contribuito a ridefinire lo scenario scopico complessivo della
contemporaneità. Ci sembra che il cinema in questo senso abbia dato e stia
ancora dando un contributo fondamentale. Il perché di tutto ciò è da
ricercarsi nella natura e nelle caratteristiche intrinseche del cinema stesso.
Come ci spiega Casetti “il cinema, nei suoi primi cent’anni di vita, ha
saputo elaborare delle proposte e insieme suscitare degli interrogativi che
investono alcuni degli snodi cruciali del secolo”
14
e lo ha fatto “sia
attraverso alcune delle sue opere più significative, sia soprattutto attraverso
il suo funzionamento corrente”
15
. Il cinema sembra reagire a questi sviluppi
cruciali per l’umanità in maniera particolarmente sensibile. Proseguendo
questo discorso Casetti evidenzia tre funzioni fondamentali della macchina
cinema: cinema come esploratore, cinema come negoziatore e infine
cinema come sentinella
16
.
14
Ivi, p.13.
15
Ivi, p.14.
16
Ivi, pp.14-15.
11
Il cinema appare comunque come una sorta di grande laboratorio in cui i modi di
sentire e di vivere caratteristici del secolo e più in generale della modernità
avanzata trovano riscontro, un approfondimento e talvolta qualche soluzione.
17
Il cinema quindi svolge la sua funzione anzitutto registrando l’esistenza di
questi modi di vivere e sentire, quindi evidenziandone i risvolti, e in terzo
luogo, a volte, proponendo delle soluzioni alle possibili tensioni latenti.
18
Questo è ciò che ha fatto per molti degli snodi del nostro secolo, pensiamo
ad esempio alle storie narrate dalla commedia italiana degli anni cinquanta
e al contributo in termini di identità sociale che questa ha offerto alla classe
proletaria investita dal boom economico e dalla società di massa, ma
pensiamo, più semplicemente, alla risposta delle grandi majors americane
dopo l’attacco terroristico alle twin towers dell’undici settembre 2001, la
stagione che ne è seguita è stata quella dei grandi film patriottici o dei
blockbusters d’animazione e fantasia. Si è quindi cercato, da un lato, di
dimenticare rifugiandosi in storie allegre e magiche alla Harry Potter
(2001) di Chris Columbus, dall’altro ci si è invece stretti attorno agli eroi
di quei giorni e al mito americano. Esemplare in questo senso Spiderman
(2002) di Sam Raimi dove il protagonista oltre a vestire una tuta che è
fondamentalmente una bandiera americana, è un fotoreporter (cronisti e
fotografi sono coloro che più da vicino ci hanno parlato della guerra) che
tra i suoi superpoteri annovera il senso del ragno, una sorta di sesto senso
che lo avverte dei pericoli e gli permette spesso di cavarsela, potere questo
che può essere considerato quasi una concretizzazione del bisogno di
17
Ivi, p.15.
18
Ibidem.
12
protezione esploso negli americani dopo l’undici settembre. Non ancora
uno scudo spaziale, quindi, ma un radar molto potente sì.
Questo lavoro di registrazione, mediazione e scioglimento il cinema lo ha
ovviamente svolto anche per il virtuale, e lo ha fatto sia portandolo sotto
forma di storie all’interno dei film sia attraverso le sue tecnologie e il suo
funzionamento. Per quanto riguarda le storie pensiamo ad esempio a un
film come Tron (1982) di Steven Lisberger ambientato all’interno di un
videogame o a Il Tagliaerbe (The Lawnmower Man, 1992) di Brett
Leonard che racconta delle potenzialità della realtà virtuale e fa in qualche
modo del protagonista una sorta di simbolo dei pericoli della
virtualizzazione. Ma il film che più di tutti tematizza questo argomento è
sicuramente The Matrix (1999) dei fratelli Andy e Larry Wachowski in cui
ciò che crediamo essere la realtà in verità non lo è, si tratta invece di una
simulazione collettiva prodotta dalla rete (Matrix nel film). Lo spazio in cui
si muovono i personaggi è uno spazio virtuale fatto di immagini che hanno
una perfetta resa veristica. Nelle poche sequenze che si svolgono fuori della
simulazione, i Wachowski Bros. ci mostrano un mondo in cui le macchine
e i computer in particolare hanno preso il sopravvento, costringendo
l’umanità alla schiavitù, anche loro quindi parlando di virtuale sembrano
volerci mettere in guardia verso una sua diffusione eccessiva.
Virtuale non solo nelle storie ma nel funzionamento e nelle tecnologie.
Dagli inizi degli anni Ottanta è stato possibile grazie all’avvento delle
nuove tecnologie digitali inserire immagini di sintesi all’interno dei film.
Il digitale in questo discorso sulla virtualizzazione nel mondo e nel cinema
in particolare recita un ruolo fondamentale.
13
Le tecnologie digitali, rappresentano infatti quel supporto che permette di
entrare nel virtuale ma, soprattutto, di creare il virtuale stesso. Grazie a
questo nuovo strumento i registi hanno potuto realizzare parte dei loro film
prescindendo dalla realtà profilmica che avevano a disposizione, le idee che
gli autori avevano nelle loro teste si sono da quel momento in poi realizzate
direttamente sul computer proprio come essi le avevano immaginate.
Questa nuova possibilità di visualizzazione è ciò che ha permesso
l’esistenza di molti, se non della maggior parte, dei film dell’ultima decade.
Pensiamo al T-1000 di Terminator 2 (1991) di James Cameron con la sua
capacità di cambiare forma in tutto ciò che tocca, o ai giocattoli di Toy
Story (1995) di Lasseter o ancora a La Mummia (The Mummy, 1999) di
Stephen Sommers in cui sono più le parti digitali verosimili che quelle
effettivamente fotografiche. Oltre che nell’ampliamento delle possibilità
visive, la comparsa del digitale in campo cinematografico, è stata registrata
dai metodi di produzione e al contempo ha provocato su di essi una vera e
propria rivoluzione. Questo vale sia per le grandi produzioni, che hanno
dovuto adeguare i propri processi alle necessità della nuova tecnologia, sia
per le produzioni piccole e indipendenti che si sono in questi anni
moltiplicate proprio grazie alle vaste possibilità che il digitale mette a
disposizione a basso costo.
È in questa direzione che vuole muoversi la nostra analisi, presentando nei
paragrafi e capitoli successivi gli effetti che questa tecnologia sta avendo
sulle diverse fasi della produzione. Così nel prossimo paragrafo inizieremo
a spiegare che cosa è il digitale, quali sono le sue caratteristiche e
14
soprattutto descriveremo le più frequenti tecniche informatiche utilizzate
nella creazioni di immagini di sintesi.
Nel capitolo due analizzeremo la fase preparatoria di una produzione
digitale, fase che se già era importante nelle produzioni classiche, in quelle
digitali assume una rilevanza fondamentale per la buona riuscita del lavoro.
Nel capitolo tre parleremo della produzione vera e propria, cioè di tutto ciò
che succede sul set di ripresa e di come questo stia cambiando. Prenderemo
quindi particolarmente in considerazione l’influenza delle nuove tecnologie
sul linguaggio cinematografico concentrandoci sui movimenti di macchina,
le angolazioni e inclinazioni. Svilupperemo, infine, un discorso sulla
prevedibilità e materialità del nuovo profilmico.
Nel capitolo quattro, quindi, analizzeremo ciò che succede a riprese finite.
La nostra concentrazione si volgerà in particolare alla fase di editing
digitale durante la quale vengono inserite e adattate le immagini sintetiche.
Un altro argomento importante che affronteremo in questo capitolo
riguarda i cambiamenti che la nuova tecnologia sta provocando nella
distribuzione e quindi anche nei metodi di fruizione del cinema stesso.
Il quinto capitolo vuole essere una storia delle immagini digitali e della loro
evoluzione. Verranno presi in esame i film più importanti che hanno
contribuito a cambiare il cinema negli ultimi vent’anni, film che sono stati
per un motivo o per un altro esploratori, negoziatori e sentinelle
dell’avvento del virtuale per mezzo del digitale.
15
1.2 La tecnologia digitale: definizione e tecniche
Probabilmente, riferirsi al digitale significa pensare nei termini di un metodo
tecnologico con particolare propensione al calcolo. Presa in sé, l’informazione
digitale non è per così dire, molto intelligente, in quanto composta da un codice
che ha due soli simboli, lo 0 e l’1.
19
Un codice molto semplice, ci dice quindi Giuseppe Amodio, sta alla base
del digitale. Proprio la semplicità è il punto di forza di questo codice che si
lega in maniera perfetta con quel dispositivo chiamato computer e che ha la
sua peculiarità nello svolgere alla perfezione le operazioni di calcolo.
Durante gli ultimi vent’anni il rapido sviluppo di queste macchine le ha
trasformate nello strumento fondamentale per svolgere quei calcoli che
sono la base delle immagini di sintesi. Nonostante questo, non sono i
computer a creare queste immagini. L’uomo, per quanto sempre più
dipendente dai calcolatori e per quanto abbia con essi un rapporto sempre
più interattivo, è colui che grazie ad interfacce come la tastiera, il mouse e
le penne ottiche, oltre a sofisticati software le crea e le controlla sia
nell’aspetto esteriore che nella struttura interiore. Ciò che gli permette di
fare ciò è la natura discreta del digitale. Come ci spiega Giulietta Fara “il
termine ‘digitale’ significa, infatti, in elettronica e in informatica, ciò che
appartiene a dispositivi che trattano grandezze sotto forma discreta, ovvero
che possono essere rappresentate con caratteri isolati, con numeri o
lettere”.
20
19
Giuseppe Amodio, Digital Cinematography, Faenza, Editrice Cinetecnica , 2001, p.7
20
Giulietta Fara, Vita da Pixel, in Giulietta Fara, Andrea Romeo, Vita da Pixel, Milano, Editrice Il
Castoro, 2000, p.9.
16
1.2.1 Il pixel
La grandezza discreta propria del digitale è il cosiddetto pixel, ovvero
picture element. Il pixel può essere definito come il “componente
elementare di una figura, che può essere visualizzata mediante le
coordinate fissate da un programma di elaborazione grafica”.
2122
Più
semplicemente potremmo dire che si tratta dell’unità base di una qualsiasi
immagine digitale. Per definirlo è necessario, oltre alle coordinate,
conoscere anche il suo colore, e questo, essendo il pixel una grandezza
discreta, è programmabile. In particolare il colore di un pixel sul display di
un computer è la risultante di un algoritmo, cioè un’insieme di criteri che,
impostati determinati parametri, dà il via ad una elaborazione che porterà
ad un risultato: questo, nel nostro caso, è proprio il colore del pixel. I
parametri che servono ad avviare l’algoritmo sono i tre colori primari
(rosso, giallo e blu) dai quali è possibile ricavare praticamente tutti i colori
dello spettro visibile. I computer possono oggi rappresentare circa 16
milioni di colori. La serie completa di pixel di uno solo dei tre colori è detta
canale, e oltre ai tre canali fondamentali, ce ne può essere un quarto che
descrive la trasparenza dei pixel. Questo canale si chiama matte-channel ed
è una sorta di maschera, fondamentale in tutte le operazioni di compositing,
come spiegheremo più avanti.
Le dimensioni del pixel dipendono dalla risoluzione dello schermo, più
questa è alta più il pixel ha dimensioni ridotte e permette ai disegnatori
21
Giacomo Devoto, Gian Carlo Oli, Il dizionario della lingua italiana, Firenze, Casa Editrice Felice Le
Monnier, 1990.
17
digitali di realizzare immagini accurate. Quando tra la fine degli anni
settanta e i primi anni ottanta uscirono i primi videogiochi e i computer si
dotarono di desktop su cui mettere delle icone, la grafica al computer
rinunciò all’alta definizione delle immagini in favore di una più immediata
e intuitiva riconoscibilità. Le immagini digitali entrarono in questo modo a
far parte degli oggetti d’affezione dell’uomo…La tecnologia fredda e meccanica
dei primi calcolatori cede il passo a un concetto più soft dell’informatica, perché
il monitor non è più una finestra sulla struttura interna dell’hardware ma si
trasforma in mille finestre su un mondo di fiction, che simula cestini, cartelle,
fogli e matite colorate.
23
Ma la bassa definizione oltre che una scelta era all’epoca anche un obbligo
dettato dalla potenza dei personal computer, cioè i calcolatori in vendita al
grande pubblico, non ancora sufficiente a sostenere le richieste in termini di
velocità e memoria di software di elaborazione grafica altamente sofisticati
come quelli odierni.
Diverso il discorso per quanto riguarda il cinema che da sempre necessita
di immagini ad alta risoluzione. Non è una caso dunque che i primi
esperimenti di inserimento delle immagini di sintesi in un audiovisivo
riguardino appunto i cartoon che sotto alla loro esteriorità gommosa e
tondeggiante nascondono una struttura fatta di linee semplici ma decise che
facilita il lavoro dei grafici del computer. Ricordiamo a questo proposito
cortometraggi come The Adventures of André and Wally B (1984) e Luxo
JR (1986) di John Lasseter, quest’ultimo anche vincitore dell’Oscar per il
23
Giulietta Fara, Vita da Pixel, in Giulietta Fara, Andrea Romeo, op.cit., p.8
18
miglior cortometraggio dell’anno. Proprio l’animazione al computer ha
quindi fino ad oggi raggiunto i risultati più elevati in questo senso e lo ha
fatto soprattutto sfruttando i decenni d’esperienza dell’animazione
tradizionale.
L’anti-realismo è quindi stato, almeno all’inizio, la linea guida del digitale
al cinema. Tutti i personaggi che fino a qualche anno fa eravamo abituati a
vedere solo tra le pagine di un fumetto o al massimo sullo schermo di un
televisore sono stati portati e ricostruiti all’interno del computer, altri mai
visti primi sono stati creati e molti ancora lo saranno. La discrezione del
pixel e delle immagini digitali ha però fatto in modo che poco per volta gli
interventi digitali, inizialmente in 2D, si facessero sempre più massicci non
solo nella realizzazione di cartoon ma soprattutto come effetti visivi
all’interno di film live. Pensiamo in questo senso ad un film come I
predatori dell’arca perduta ( Raiders of the Lost Ark, 1981) di Steven
Spielberg, nel cui finale, una volta aperta l’arca ne escono spiriti animati in
2D (due dimensioni, altezza e larghezza) che massacrano i nazisti; o a Chi
ha incastrato Roger Rabbit (Who Framed Roger Rabbit, 1988) di Robert
Zemeckis, in cui un personaggio come Roger, che è ancora un cartoon
classico, si integra alla perfezione nelle immagini live del film grazie a
numerosi accorgimenti realizzati al computer. L’evoluzione
cinematografica delle immagini di sintesi si è spinta però, soprattutto in
questi ultimi anni, molto oltre. Ciò che attira l’attenzione sul cinema
realizzato con tecnologie digitali è infatti la possibilità di realizzare
immagini in 3D (tre dimensioni, altezza, larghezza e profondità),e inserire
queste immagini in film live facendole muovere e interagire con gli attori.