risultati. E’ necessario che questi Paesi posseggano, per poter adottare con successo
un regime di Inflation Targeting, determinati prerequisiti; anche se l’esperienza di
alcuni Paesi rivela che non è indispensabile che tutti questi prerequisiti siano in atto
al momento dell’introduzione del regime. Inoltre, le Banche Centrali dei Paesi
Emergenti potrebbero avere delle esigenze particolari, come il bisogno di tenere
sotto controllo anche altre variabili oltre all’inflazione, necessitando quindi di
apporre alcune modifiche alla regola base proposta da Taylor.
Il Brasile, ad esempio utilizza una regola di Taylor forward looking, in cui, cioè, il
tasso d’interesse risponde alle deviazioni dell’inflazione attesa rispetto all’obiettivo
di inflazione stabilito consentendo così di evitare alla Banca Centrale brasiliana di
dover intervenire ogniqualvolta l’inflazione effettiva differisse dal target,
provocando repentini balzi del tasso d’interesse che potrebbero rivelarsi
destabilizzanti per il sistema finanziario.
Questa tesi esamina i problemi connessi all’attuazione dell’Inflation Targeting nei
Paesi Emergenti, per poi concentrarsi sul caso brasiliano. In particolare, stima i
coefficienti associati alle variabili che rientrano nella funzione di reazione utilizzata
dalla Banca Centrale del Brasile, per valutare l’entità della risposta ai movimenti di
tali grandezze, e verifica se anche altre variabili macroeconomiche siano tenute in
considerazione nella formulazione della politica monetaria brasiliana, anche se non
dichiaratamente.
Nel primo capitolo, dopo aver classificato i Paesi nei diversi regimi di cambio
attualmente riconosciuti - sulla base della classificazione “de facto” del Fondo
Monetario Internazionale (FMI) – analizzo quali sono i fattori che spingono un
determinato Paese ad adottare un particolare regime di cambio, illustrando
l’evoluzione dei regimi di cambio nell’ultimo ventennio.
Una corrente di pensiero, emersa alla fine degli anni ’90 e appoggiata da Calvo e
Reinhart, sostiene la “two corner hypotesis”, che non insiste tanto sul fatto che i
Paesi debbano adottare preferibilmente tassi di cambio fissi o flessibili, ma
piuttosto che debbano muoversi (o si stiano muovendo) verso un estremo o l’altro
dello spettro dei regimi di cambio, che va da cambi super-fissi (Currency Board o
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Dollarizzazione) a cambi super-flessibili, e che la lezione che si può trarre dalle
recenti crisi è solo la non fattibilità dei regimi di cambio intermedi nelle Economie
Emergenti.
Nonostante per molti Mercati Emergenti l’adozione di un tasso di cambio flessibile
abbia coinciso con un periodo di relativa stabilità dei prezzi e di crescita
economica, ci sono molti Paesi che, pur dichiarando ufficialmente un regime di
cambio di tipo flessibile o intermedio, di fatto seguono un regime di cambio di tipo
fisso. Calvo e Reinhart (2002) definiscono questo fenomeno “fear of floating”
(paura di fluttuare). Il regime di Inflation Targeting si propone di sostituire il tasso
di cambio fisso con il Target di Inflazione quale ancora nominale.
Nel secondo capitolo descrivo il funzionamento tecnico dell’Inflation Targeting;
dapprima illustro la funzione di risposta della politica monetaria ideata da Taylor
(1993), osservando poi le valutazioni effettuate da Eichengreen (2002) circa il
funzionamento di questa in un’economia aperta.
In seguito elenco quali sono le condizioni iniziali che un Paese dovrebbe possedere
per poter adottare con successo l’Inflation Targeting secondo il parere di diversi
economisti, e le modalità con cui è possibile andare incontro a tali condizioni: vi
deve essere un mandato a perseguire un obiettivo di inflazione e la Banca Centrale
deve esser resa responsabile del raggiungimento di questo obiettivo; bisogna
assicurare che il target non sia subordinato ad altri obiettivi; il sistema finanziario
deve essere sviluppato e stabile; devono esistere strumenti adeguati per attuare la
politica monetaria a supporto dell’inflation target.
Il capitolo si conclude con una raccolta di suggerimenti volti alla determinazione di
un obiettivo di inflazione che sia effettivamente in grado di ancorare le aspettative
di inflazione, di garantire credibilità alla Banca Centrale e che sia, al tempo stesso,
coerente con gli obiettivi di politica macroeconomica del Paese che intende attuare
questo sistema.
Nel terzo capitolo analizzo quali sono le principali difficoltà di attuazione
dell’Inflation Targeting nei Mercati Emergenti.
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A causa del pass-through più elevato le variazioni dei prezzi delle importazioni,
dovute ai movimenti del tasso di cambio, si trasmettono sui prezzi interni più
velocemente nei Mercati Emergenti piuttosto che nei Paesi industrializzati. Con un
più elevato pass-through una variazione del tasso di cambio ha un forte impatto
sull’inflazione e un debole impatto sull’output.
Il vantaggio dell’applicazione dell’Inflation Targeting è quello di consentire una
maggiore flessibilità del tasso di cambio (rispetto all’alternativa di utilizzare un
tasso di cambio fisso come ancora nominale), tuttavia questi vantaggi sono, in
pratica, relativamente minori in economie altamente dollarizzate. Infatti la
dollarizzazione delle passività di imprese, istituzioni finanziarie e governi implica
che, se il tasso di cambio dovesse deprezzarsi, i bilanci degli operatori ne
risentirebbero, penalizzando i consumi e gli investimenti, anche se
contemporaneamente renderebbe i beni prodotti internamente più competitivi. Se il
tasso di cambio si deprezza molto quindi, una Banca Centrale in regime di Inflation
Targeting aumenterà improvvisamente i tassi d’interesse e farà apprezzare
velocemente il tasso di cambio, in modo tale da minimizzare il danno finanziario
per le banche, le imprese e le famiglie. Tuttavia, la maggiore variabilità del tasso di
cambio che il passaggio all’Inflation Targeting comporta, incoraggia banche ed
imprese a coprirsi dai rischi.
Nella misura in cui l’Inflation Targeting sarà meno credibile nei Paesi emergenti, i
suoi benefici saranno minori. Le Banche Centrali dei Paesi Emergenti godono di
una scarsa credibilità, fondamentale per la creazione della fiducia verso gli obiettivi
inflazionistici della politica monetaria, e le difficoltà nel prevedere l’inflazione non
fanno che aggravare questi problemi di credibilità.
L’assenza della fiducia nel fatto che la Banca Centrale si stia impegnando a
mantenere un basso tasso d’inflazione porta ad una minore riduzione dei tassi
d’interesse rispetto agli altri Paesi a bassa inflazione. Variazioni improvvise dei
tassi d’interesse, dei tassi di cambio e dei flussi internazionali di capitale possono
autoalimentarsi: le variabili finanziarie saranno volatili, con implicazioni negative
per l’economia. Se la politica non è credibile, le imprese non ridurranno la crescita
dei prezzi per andare incontro all’obiettivo di inflazione. Raggiungere
quell’obiettivo richiederà un aumento dei tassi d’interesse sufficiente a produrre
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una riduzione dei prezzi delle importazioni (attraverso un apprezzamento del tasso
di cambio), con effetti destabilizzanti sulla produzione. Le Banche Centrali nei
Paesi Emergenti saranno perciò incentivate a sfruttare la trasparenza per rilanciare
la loro credibilità.
Infine, nel quarto capitolo, mi concentro su un caso-Paese, analizzando l’esperienza
del Brasile che, dopo Cile e Messico, è stato uno dei pionieri, tra i Paesi Emergenti,
nell’attuare l’Inflation Targeting e nel lasciare il proprio tasso di cambio libero di
fluttuare.
Dopo una breve digressione sulla storia inflazionistica dell’America Latina, spiego
come l’Inflation Targeting è stato introdotto e implementato in Brasile, analizzando
le peculiarità del suo funzionamento in questo Paese e dando uno sguardo ai primi
risultati. Per fare ciò costruisco un semplice modello econometrico, in modo tale da
calcolare la misura della risposta del tasso d’interesse alle variazioni delle diverse
variabili comprese nella funzione di reazione della politica monetaria e verificare
inoltre se la regola di politica monetaria dichiarata ufficialmente sia effettivamente
rispettata, o se invece il tasso d’interesse brasiliano reagisce anche a variabili
omesse dalla regola ufficiale.
Ciò che è emerso è che la regola di politica monetaria adottata dalla Banca Centrale
del Brasile risponde positivamente agli scostamenti dell’inflazione attesa rispetto
agli obiettivi di inflazione, come indica il coefficiente β, stimato pari a 0,89, ma il
tasso d’interesse reagisce in modo ancora più aggressivo agli scostamenti
dell’output dal suo trend, con un coefficiente α = 1,89. Inoltre, la regola non tiene
effettivamente conto dell’inflazione osservata, ed è quindi forward looking, tuttavia
il tasso d’interesse sembra rispondere anche alle fluttuazioni più marcate del tasso
di cambio. Un problema si è posto relativamente alla stima del PIL nominale
mensile fornita dalla Banca Centrale Brasiliana, il cui andamento, se confrontato ad
altri indicatori economici, risulta poco attendibile. Quando le regressioni escludono
l’andamento dell’output gap, il tasso SELIC risponde in maniera molto più
aggressiva alle deviazioni dell’inflazione attesa rispetto al target e le variazioni del
tasso di cambio non sembrano influenzare in modo significativo le deviazioni
relative al tasso d’interesse.
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Capitolo primo
I regimi di cambio
Nelle economie emergenti le politiche di cambio e monetarie, come l’inflation
targeting, difficilmente possono essere dissociate, dal momento che una storia di
instabilità monetaria tende a far diventare il tasso di cambio un punto focale per le
aspettative inflazionistiche e i prestiti in valuta estera sottopongono le imprese di
questi paesi e le istituzioni finanziarie a significativi rischi. Molti dei Paesi
Emergenti che hanno scelto di abbandonare il tasso fisso come ancora nominale per
la politica monetaria hanno adottato il regime di Inflation Targeting, e questo
sistema sembra funzionare bene.
Prima di addentrarmi nello studio dell’attuabilità delle politiche monetarie di
Inflation Targeting nel contesto di queste economie, vale la pena di analizzare quali
sono i fattori alla base della scelta di un certo tipo di regime di cambio piuttosto che
di un altro, considerando i peculiari problemi macroeconomici fronteggiati da
questi paesi.
1.1) Tipologie di regimi di cambio
I regimi di cambio esistenti ed osservati storicamente sono di molti tipi; infatti sono
presenti molti regimi caratterizzati da diversi gradi di flessibilità e rigidità. Anche
se ogni tipo di classificazione effettuata risente inevitabilmente di elementi di
arbitrarietà, è possibile identificare 7 diverse tipologie di regimi di cambio:
1. Tassi di cambio perfettamente flessibili. L’autorità monetaria si astiene
completamente dall’intervenire nel mercato dei cambi lasciando che il tasso
di cambio sia determinato interamente dalla domanda e dall’offerta di
valuta. (Euro e Dollaro sono probabilmente le uniche valute collocabili sotto
questo regime).
2. Fluttuazione “ sporca”. Le autorità monetarie intervengono nel mercato dei
cambi in modo sporadico, senza seguire una regola precisa, per ridurre le
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fluttuazioni del tasso di cambio e/o per sostenere un determinato livello di
cambio. Tali interventi sono tendenzialmente limitati e circoscritti sia in
termini temporali che di strumenti utilizzati, dato che sono in genere
orientati a risolvere una situazione economica contingente e non un
problema strutturale.
3. Fluttuazione all’interno di una banda. Il tasso di cambio viene lasciato
fluttuare liberamente all’interno di una banda costruita attorno ad una parità
centrale (che in genere è fissa). L’intervento delle autorità monetarie
avviene solamente ai margini della banda; tanto maggiore è l’ampiezza della
banda tanto più questo regime di cambio si avvicina ad un regime di perfetta
flessibilità. La parità centrale della banda può essere un tasso di cambio
fisso (in questo caso il regime viene chiamato Target Zone) o può seguire
un tasso di svalutazione detto crawl (in questo caso il regime prende il nome
di Crawling Band).
4. Crawling peg. Il tasso di cambio viene ancorato ad una valuta o ad un
paniere di valute, ma definendo un tasso di svalutazione che può essere più
o meno preannunciato. Questo tipo di regime di cambio cerca di
raggiungere un compromesso tra i cambi fissi e flessibili cercando di
coniugare un certo grado di disciplina monetaria (la Banca Centrale è
costretta ad intervenire se il tasso di deprezzamento eccede quello
prefissato) con il mantenimento dell’equilibrio esterno (viene ridotta la
possibilità che si verifichino consistenti apprezzamenti del tasso di cambio
reale qualora il tasso di inflazione domestica ecceda quello estero).
5. Tasso di cambio fisso. L’autorità monetaria si impegna a difendere il livello
del tasso di cambio nei confronti di un’altra valuta o di un paniere di valute.
Nella maggior parte dei casi l’accordo di cambio è unilaterale, ovvero la
Banca Centrale della valuta alla quale la valuta domestica si è ancorata non
ha alcun obbligo ad intervenire in difesa della parità. Una caratteristica
cruciale dei regimi di cambio appartenenti a questa categoria è costituita dal
fatto che le “barriere all’uscita” sono generalmente modeste: così come è
stato adottato, il policymaker può stabilire con una decisione che ha
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operatività immediata l’abbandono del regime di cambio o la modifica della
parità (chiamata riallineamento).
6. Currency board. Il Currency board è un particolare regime di cambio fisso
in cui viene istituzionalizzato il vincolo alla politica monetaria. La Banca
Centrale può emettere moneta solamente se è “coperta” da un
corrispondente ammontare di valuta estera, in questo modo l’operato della
Banca Centrale è intrinsecamente legato alla condotta della Banca Centrale
verso cui il tasso di cambio è stato fissato. Al fine di permettere alla Banca
Centrale di continuare ad esercitare la funzione di prestatore di ultima
istanza verso il settore bancario, molti Paesi hanno deciso di adottare un
Currency Board basato su un surplus di riserve per regolare la liquidità
all’interno del sistema economico. L’istituzionalizzazione di questo vincolo
avviene generalmente rendendolo parte di una legge speciale o addirittura
della costituzione. Ne consegue che la decisione di modificare il regime di
cambio risulta particolarmente lunga e laboriosa (richiedendo maggioranze
parlamentari qualificate), costituendo un’elevata “barriera all’uscita”.
7. Dollarizzazione. Con questo termine si identifica l’adozione di una valuta
estera (in genere il Dollaro) come valuta ufficiale in sostituzione della
valuta nazionale. Costituisce una forma estrema di tasso di cambio fisso
dato che la politica monetaria è svolta integralmente dall’autorità monetaria
estera. I casi di dollarizzazione completa sono però rari (ad es. Panama dal
1950).
1.2) La classificazione dei Paesi nei regimi di cambio
Posizionare i Paesi nelle categorie di tassi di cambio da essi adottati risulta difficile,
in quanto vi sono sostanziali differenze tra le classificazioni “di diritto” e quelle “di
fatto”, tra quello che i governi dichiarano e quello che questi mettono in atto.
Molti dei Paesi classificati sotto cambi flessibili, di fatto intervengono spesso nel
mercato valutario. Come osservato da Calvo e Reinhart, “i Paesi che sostengono di
lasciar fluttuare il loro tasso di cambio il più delle volte non lo fanno”.
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Dall’altro lato dello spettro, molti degli Stati classificati come “fissi” hanno subito
riallineamenti negli ultimi dieci anni.
Diversi sono i metodi per classificare i Paesi in termini dei regimi di cambio che
effettivamente adottano. Ad esempio, osservando la variabilità del tasso di cambio
e delle riserve ufficiali. Tipicamente, tuttavia, queste classificazioni hanno sempre
un grado di arbitrarietà e quindi non risultano pienamente convincenti.
Inizierò considerando i regimi correntemente seguiti dai Paesi emergenti, così come
riportato nel sistema di classificazione dell’International Financial Statistics del
Fondo Monetario Internazionale (FMI). Questo sistema non segue pedissequamente
l’auto-descrizione degli Stati come avveniva in passato, ma bisogna comunque
tenere in considerazione che rimane pur sempre una classificazione “de jure”.
Attualmente, 47 Stati hanno rinunciato ad avere una valuta indipendente, per mezzo
di un impegno istituzionale ad ancorare il tasso di cambio. 12 sono i Paesi
dell’Unione Monetaria Europea (che adottano un’unica valuta all’interno
dell’Unione, libera di fluttuare nei confronti delle altre valute) e 35 sono Paesi in
via di sviluppo o in transizione. Di questi 35:
ξ 8 sono economie dollarizzate (Ecuador, El Salvador, Panama, quattro isole
del Sud Pacifico e San Marino – che adotta l’Euro).
ξ 20 sono unioni monetarie (6 nell’Unione Valutaria dei Carabi dell’Est e 14
nella Communautée Financière de l’Afrique)
ξ 7 sono Currency Board
Dei 35 “fissi” tra i Paesi in via di sviluppo, solo l’Ecuador e El Salvador hanno
adottato il Dollaro statunitense come valuta legale in tempi recenti. Gli altri non
hanno mai attuato politiche monetarie indipendenti (cioè regimi flessibili). 5 Paesi
hanno adottato negli anni ’90, e tuttora mantengono, un regime di Currency Board:
Estonia (1992), Lituania (1994), Bulgaria (1997) e Bosnia (1998). Con Hong Kong
(che adotta un Currency Board dal 1983) e i 12 Paesi dell’Unione Monetaria
Europea, salgono a 20 i Paesi che hanno rinunciato ad una valuta indipendente negli
ultimi dieci anni.
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98 paesi, tra i membri del FMI, nel 2005 erano classificati come regimi intermedi.
Di questi 98, 29 seguono accordi convenzionali di tasso di cambio fisso, e 10 basket
pegs. Entrambe le categorie includono alcuni Stati che dichiarano di avere cambi
fluttuanti controllati, mentre esibiscono di fatto cambi fissi, così come entrambe
potrebbero essere classificate sotto la denominazione “cambi fissi aggiustabili”.
Fra gli altri Paesi, 16 seguono bande di oscillazione, 43 sono classificati dal FMI
come “cambi flessibili controllati senza un sentiero preannunciato, una categoria
che può sembrare di tipo flessibile ma che comprende un sufficiente targeting di
fatto ed un margine di intervento che porta a posizionarli tra i regimi intermedi.
Infine, 40 Stati sono classificati dal FMI come perfettamente flessibili. Di questi, 9
sono Paesi industrializzati e 31 sono Paesi in via di sviluppo, a medio reddito o in
transizione.
Perciò, escludendo i Paesi industrializzati, 31 Stati possono essere contati nella
schiera dei “fissi”, 98 tra i regimi intermedi e 31 tra i “fluttuanti”.
Negli ultimi trent’anni c’è stato un aumento della flessibilità dei tassi di cambio.
Qualcuno ritiene che un andamento dai regimi intermedi verso cambi più flessibili
sia controbilanciato da un andamento da intermedi a fissi. Da qui la teoria dell’
”hollowing of the middle”, altrimenti nota come “two corners hypotesis”, di cui
parlerò più avanti.
Fisher (2001), ad esempio, riporta che tra il 1991 e il 1999 la percentuale dei
membri del FMI con regimi intermedi è crollata dal 62% al 34%. La percentuale
con cambi fissi è cresciuta dal 16% al 24%, mentre quella con cambi flessibili è
aumentata dal 23% al 42%.
Tuttavia questa teoria non incontra i favori di tutto il mondo accademico; Masson
(2001) ad esempio, rigetta quest’ipotesi dimostrando empiricamente che i regimi
intermedi non stanno affatto scomparendo.
Ciò che è certo è che, negli ultimi otto anni, in America Latina c’è stata una chiara
tendenza verso regimi più flessibili ( Cile, Messico, Brasile e Argentina).
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