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CAPITOLO I
Panoramica storica del fenomeno
1.1 Il periodo post unitario: inquadramento storico
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L’Unità d’Italia è stata un processo graduale che, a partire dagli anni
Cinquanta, per concludersi poi definitivamente verso la fine degli anni
Sessanta con l’annessione del Veneto e del Lazio, ha portato alla
proclamazione del Regno d’Italia, il 17 marzo 1861, dopo che l’esercito
sabaudo eliminava le ultime resistenze borboniche. Il primo Parlamento
nazionale, eletto su base censitaria, proclamava Vittorio Emanuele II re
d’Italia.
Il nuovo regno non era il risultato della sola iniziativa popolare, come era
stato auspicato dai patrioti, nemmeno delle decisioni di un’assemblea
costituente, ma dell’allargamento di uno Stato regionale più forte e dinamico:
da questo stato, l’intero paese si vedeva imporre sovrano e istituzioni, leggi e
ordinamenti. L’Unità fu dunque il prodotto dell’iniziativa diplomatica e
militare di uno Stato, quello piemontese, dell’azione di un uomo politico del
calibro del conte Cavour, ma anche di un ampio moto di opinione pubblica che
coinvolse gli strati sociali più attivi e dinamici della società: intellettuali,
studenti ed una borghesia desiderosa di creare un “mercato nazionale”,
premessa necessaria allo sviluppo economico del neonato stato.
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Per tutti i paragrafi di inquadramento storico si rimanda a G. SABBATUCCI, V. VIDOTTO, Il
mondo contemporaneo. Dal 1848 a oggi, Laterza, Bari 2006.
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In conclusione, in Italia lo Stato nazionale nacque dalla combinazione di
un’iniziativa dall’alto (la politica di Cavour e della monarchia sabauda) e di
un’iniziativa dal basso (le insurrezioni nell’Italia centrale e la spedizione
garibaldina nel Sud). La rapidità con cui l’Unità è stata raggiunta, si deve ad
una serie di circostanze favorevoli a livello internazionale, come la neutralità
della Gran Bretagna, l’isolamento del Regno delle due Sicilie e dell’Impero
asburgico, ma in modo particolare l’appoggio di Napoleone III nella guerra del
1859.
Dopo la morte di Cavour, avvenuta nel giugno del 1861, i suoi successori
mantennero una politica rispettosa delle libertà costituzionali, accentratrice,
liberista in campo economico e laica nei rapporti tra Stato e Chiesa. Il gruppo
dirigente, che governò il paese nel primo quindicennio di vita unitaria, era
costituito da piemontesi (La Marmora, Sella, Lanza), da gruppi moderati
lombardi (Jacini, Visconti-Venosta), emiliani (Farini, Minghetti) e toscani
(Ricasoli, Peruzzi); minore invece era la rappresentanza delle regioni
meridionali. Questo gruppo, che nei parlamenti dell’Italia unita si collocava
tradizionalmente a destra, fu chiamato Destra “storica”, ad indicare la funzione
decisiva nella storia d’Italia. Sul versante opposto, si trovavano mazziniani e
repubblicani che si rifiutavano di aderire alla politica ufficiale, esponenti della
vecchia sinistra piemontese come Depretis, oppure patrioti garibaldini e
mazziniani come Crispi e Cairoli. La Sinistra si appoggiava su di una base
sociale più ampia e composita, formata da gruppi piccolo e medio-borghesi
della città, gruppi di artigiani e operai del Nord, esclusi dall’elettorato.
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In realtà Destra e Sinistra erano espressione di un “paese legale”, poco
rappresentativo di quello reale. Nel primo ventennio di vita unitaria, bastavano
poche centinaia o decine di voti per eleggere un deputato: la vita politica aveva
un carattere “oligarchico” e “personalistico”.
In Italia il reddito pro-capite era pari a circa un terzo di quello inglese, il
tasso di analfabetismo era quasi tre volte più elevato. La maggior parte delle
città era priva di attività produttive di grande rilievo, la maggioranza della
popolazione viveva nelle campagne e nei piccoli centri rurali, traendo i mezzi
di sostentamento dalle attività agricole. L’agricoltura non era favorita dalle
condizioni naturali, dal momento che il suolo era per quasi due terzi
montagnoso. Nella Bassa Lombardia e in Piemonte, tra la fine del Settecento e
l’inizio dell’Ottocento, si erano sviluppate aziende agricole moderne, che
univano l’agricoltura all’allevamento dei bovini, seguivano criteri capitalistici
e impiegavano manodopera salariata. In Toscana, Marche e Umbria era
ampiamente diffusa la mezzadria, con la suddivisione della terra in poderi e
con la ripartizione degli oneri e dei ricavi tra il proprietario ed il coltivatore,
che doveva corrispondere al primo la metà del prodotto e concorrere alle spese
di manutenzione del fondo. Decisamente diversa la situazione nel Sud Italia e
nelle isole. In queste aree, la realtà economica era quella del latifondo, grandi
distese coltivate a grano e non interrotte da strade o insediamenti urbani. La
popolazione era concentrata in pochi e grossi borghi rurali. Autoconsumo e
scambio in natura rappresentavano una realtà largamente diffusa, ma nelle
campagne lo era ancora di più, tanto che si rifletteva nel bassissimo livello di
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vita della popolazione rurale, la quale viveva ai limiti della sussistenza fisica. I
contratti agrari erano arcaici e spesso caratterizzati da forme di dipendenza
personale.
Nel Sud della Penisola poi, al problema della terra e delle dure condizioni di
vita, si sommava quello del brigantaggio, che ne era una diretta conseguenza.
Un primo, seppur tiepido, segnale di avanzamento fu decretato dallo
sviluppo delle vie di comunicazioni ed in particolare della rete ferroviaria, che
collegò fra loro popolazioni prima isolate e permise un’intensificazione degli
scambi con le zone più progredite.
Se da una parte il settore agricolo conobbe qualche progresso in termini di
incremento produttivo, nessun vantaggio venne al settore “industriale”,
penalizzato dall’accresciuta concorrenza internazionale. Si sviluppò l’industria
della seta, anche se poco avanzata dal punto di vista tecnologico. Declinarono i
settori siderurgico, meccanico e l’industria laniera, risultati troppo deboli ai
cambiamenti. La politica liberista ebbe effetti negativi soprattutto sui pochi
poli industriali presenti nel Sud del paese, poiché furono cancellati dalla brusca
caduta dei dazi protettivi. La penetrazione dei rapporti di mercato nelle
campagne meridionali segnò anche la fine di molte lavorazioni artigiane, che
spesso integravano i bilanci di numerose famiglie contadine.
Verso la fine degli anni Settanta, il governo della Destra fu battuto alla
Camera su un progetto relativo alla statalizzazione delle ferrovie.
Il nuovo governo, guidato da Agostino Depretis, abolì la tassa sul macinato,
ma aumentò la spesa pubblica; nel frattempo la crisi agraria portò ad un rapido
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aumento dell’emigrazione, soprattutto dalle zone più povere e arretrate del Sud
Italia. La crisi agraria favorì indirettamente il decollo di un’industria in Italia e
questo non fece che accrescere ancor più il divario che intercorreva tra Nord e
Sud.
Gli anni Ottanta videro una significativa crescita del movimento operaio,
con la fondazione di federazioni di mestiere e Camere del lavoro, leghe
bracciantili e cooperative agricole.
Alla morte di Depretis, avvenuta nel 1887, divenne presidente del Consiglio
Crispi, che attuò una politica di riorganizzazione dell’apparato statale, mentre
Giolitti, a capo del governo nel 1892-93, imperniò la propria azione di governo
su una più equa pressione fiscale e su una linea non repressiva nei confronti dei
conflitti sociali. Dopo Giolitti, tornò di nuovo al governo Crispi, il quale attuò
la riforma bancaria, che segnò la nascita della Banca d’Italia, le leggi
antisocialiste e l’ulteriore spinta all’azione coloniale che portò alla guerra con
l’Etiopia; la sconfitta di Adua del 1896 segnò la fine politica per Crispi.
È pertanto in questo scenario storico dell’Italia appena creata sulla carta,
anche se non del tutto unita (almeno non dal punto di vista sociale ed
economico, con forti disparità tra Nord e Sud del paese), con le vicende delle
emigrazioni legate alle misere condizioni nelle campagne, con il tardivo
decollo del settore industriale, la forte disparità tra aree urbane e rurali,
l’elevato tasso di analfabetismo e la mancanza di un vero e proprio senso di
unione nazionale, che si inserisce il tristemente ormai noto fenomeno dello
sfruttamento minorile, tra forme di assistenzialismo, legate ad un senso di
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paternalismo verso i più piccoli ed alcune importanti disegni di legge, che
cercavano di arginare questo fenomeno, in Italia e soprattutto all’estero, per
salvaguardare l’immagine della neonata nazione agli occhi dell’opinione
pubblica, sia italiana che straniera.
1.1.1 L’assistenza come rimedio alla povertà e alla mendicità
In seguito all’Unità nazionale, uno dei primi problemi che si manifesta al
gruppo dirigente politico, è quello della povertà e dell’arretratezza di molte
zone, fatto che colpisce indirettamente anche i più piccoli, in quanto la
miserevole condizione delle loro famiglie, li obbliga a condurre un’esistenza
raminga, fatta di ogni tipo di espediente e a vivere abbandonati a se stessi.
Cadono così nelle mani di persone senza scrupoli, che, illudendoli di strapparli
da una triste condizione di vita, si servono di loro per ogni tipo di mansione: in
modo particolare i piccoli vengono impiegati come mendicanti, dal momento
che la loro tenera età suscita compassione.
Le iniziative benefiche usate per l’infanzia disagiata o sventurata hanno
anche lo scopo di essere un fattore aggregante della solidarietà nazionale.
Inoltre, curando bambini e ragazzi poveri di entrambi i sessi, si sollecitava la
gratitudine dei loro genitori e quindi si sperava in una loro buona disposizione
verso l’ordine costituito e al tempo stesso si mirava a prevenire le tensioni
sociali delle future generazioni adulte, garantendo la formazione di cittadini
onesti e laboriosi.
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Nella seconda metà dell’Ottocento il dibattito sulla povertà inizia ad essere
concepito in termini di questione sociale e all’ottica tradizionale di carità e
beneficenza verso il povero si sostituisce l’ottica di assistenza e previdenza che
si devono al cittadino e al lavoratore.
2
In modo particolare l’istruzione e l’educazione al lavoro sono i mezzi
principali con cui si cerca di integrare e disciplinare l’infanzia povera, per
poterla inserire nell’ordine sociale. Infatti il disciplinamento attraverso la
pedagogia del lavoro permette al minore di essere avviato ad un mestiere,
prevenendone quindi l’indigenza e la colpevolezza.
Il dibattito sull’intervento pubblico nel campo dell’assistenza resta attuale
per diversi decenni, come testimonia la pubblicazione, nel 1867, sulla rivista
«Biblioteca dell’Economista»
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, di due trattati comparsi per la prima volta in
lingua francese negli anni Trenta: il primo, Della carità legale, del pastore
ginevrino F.M.L. Naville, il secondo, Della beneficenza pubblica, del barone
francese J.M. De Gérardo, cattolico-liberale impegnato nella gestione di
istituzioni di beneficienza pubblica a Parigi.
Naville polemizza con il sistema della carità legale, ossia ogni forma di
assistenza pubblica obbligatoria sovvenzionata da una tassa per i poveri.
2
Per la questione relativa alle iniziative assistenziali nel corso della seconda metà
dell’Ottocento, si veda il volume V. NUTI, Discoli e derelitti. L’infanzia povera dopo l’Unità,
La Nuova Italia, Firenze 1992.
3
Le due opere compaiono in traduzione italiana nella «Biblioteca dell’Economista», serie II,
vol. XII, Torino 1867.
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Questo sistema prevede la proibizione della mendicità, la creazione di
appositi istituti per occupare gli indigenti validi, quali per esempio le case di
lavoro. Secondo l’autore le case di lavoro esercitano un’influenza negativa,
favorendo ozio, promiscuità, corruzione; inoltre la carità legale creerebbe nel
povero l’idea di un diritto positivo ad essere assistito, facendo venire a mancare
in lui ogni sentimento di riconoscenza.
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De Gérardo invece pensa che debbano coesistere «una beneficenza pubblica
che si esercita dall’amministrazione generale e municipale; una beneficenza
privata, che si esercita isolatamente da ogni individuo; una beneficenza che
appartiene insieme alla prima e alla seconda, e che potrebbesi chiamare
collettiva, che si esercita da associazioni indipendenti e volontarie».
5
La questione si fa maggiormente sentire con la creazione del Regno d’Italia.
La legge del 1862 riconosceva alle opere pie ereditate dal passato la qualità di
enti autonomi, i quali dovevano essere amministrati secondo i fini e i modi
stabiliti dalle rispettive tavole di fondazione o da eventuali statuti in vigore.
6
Nel 1890 la nuova legge dava allo stato più efficaci strumenti di tutela e di
vigilanza, gli assegnava il potere di modificare il fine e l’amministrazione delle
opere pie.
7
4
F.M.L. Naville, op. cit., pp. 75 ss.
5
J.M. De Gérardo, Il visitatore del povero, Truffi e C., Milano 1834, p. 372.
6
Sulla questione si veda A. GABELLI, Il progetto di legge sulle istituzioni di pubblica
beneficenza, in «Nuova Antologia», Roma, 16 gennaio 1890, pp. 258-259.
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Lo stato italiano dall’Unità alla Prima Guerra Mondiale in materia di istituzioni di
beneficenza emanò una prima legge nel 1862, una seconda nel 1890 e infine una terza nel
1904. Per un maggior approfondimento cfr. A. GILARDONI, Opere pie in «Il Digesto italiano»,
vol. XVII, Unione Tip. Ed. Torinese, Torino 1904-1908.
9
L’assistenza e la beneficenza si collegano sempre al timore che, se male
esercitate, possano alimentare proprio la povertà a cui si vorrebbe porre
rimedio, favorendo l’ozio e l’irresponsabilità. In questa ottica viene dunque
condannata la pratica dell’elemosina, sia come fatto individuale che
istituzionale.
Tuttavia alla voce Assistenza pubblica del «Digesto italiano» si afferma che
«riguardo agli infanti poveri la pubblica assistenza ha grandi e importanti
doveri: essa non può e non deve star paga a mantenerli fino all’epoca in cui
potranno guadagnare qualcosa, ma anche deve proporsi di fare di essi membri
utili della società».
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E prosegue affermando che «non ci si può più soltanto
occupare di orfani e trovatelli, ci si deve far carico anche dei fanciulli che
vengono a trovarsi in uno stato di abbandono. È lo Stato che deve intervenire,
anche contro la volontà dei genitori, a strappare i fanciulli allo stato di
abbandono e così alla mala vita e alla miseria».
9
Pochi anni dopo, la legge sulla beneficenza pubblica del 1904, presentata in
Parlamento da Giolitti, destinava un terzo delle rendite elemosiniere
all’assistenza di figli di famiglie povere, con particolare cura per i fanciulli più
sventurati «che si comprendono nella categoria dei moralmente
abbandonati».
10
8
Ibi., p. 1208.
9
Ibi., p. 1209.
10
A. GILARDONI, op. cit., p. 577. L’espressione «moralmente abbandonati» è presente nella
relazione che fece Giolitti.
10
1.1.2 Panorama legislativo sulla questione del lavoro minorile
Nel periodo compreso tra il 1840 ed il 1940, un po’ in tutta Europa, il forte
incremento della popolazione, l’ascesa dell’industrializzazione, la crisi
dell’agricoltura e la continua richiesta di coltivatori e maestranze straniere
portarono alla grande emigrazione del centennio prima dello scoppio della
Seconda Guerra Mondiale. Si calcola che delle oltre 55 milioni di persone che
si spostarono, tendenzialmente dall’Europa al Nuovo Mondo, ben 16 milioni
fossero italiani.
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Anche l’Italia dunque fu toccata da questo fenomeno di massa e sul totale di
coloro che emigravano per lavorare, una buona percentuale era costituita da
bambini e fanciulli, i quali molto spesso venivano venduti dalle famiglie,
perché fossero portati all’estero alla ricerca di un lavoro che permettesse loro di
guadagnare per sé e per la propria famiglia.
Questi emigranti, che provenivano da cittadine e paesi rurali, possedevano
una conoscenza innata delle possibilità economiche, dei mercati per le merci e i
servizi, perché per secoli avevano mantenuto rapporti con i centri urbani.
Grazie al miglioramento dei trasporti e delle comunicazioni, avvenuto nel
Diciannovesimo secolo, i centri urbani con i quali essi avevano rapporti,
potevano essere situati ad una distanza maggiore dalla città d’origine.
Il rapporto che gli emigranti svilupparono con i centri urbani ha un
importante riflesso su altri temi: l’accattonaggio, la povertà e la richiesta di
elemosina.
11
Sul tema dell’immigrazione italiana nel Diciannovesimo secolo si veda G. ROSOLI, (a cura
di), Un secolo di emigrazione italiana, Centro Studi Emigrazione, Roma 1976.
11
Le fondazioni filantropiche urbane erano state sopraffatte dal gran numero
di poveri provenienti dalla campagna, i quali affluivano nelle città come
emigranti, vagabondi e mendicanti.
12
In modo particolare, artisti girovaghi e soprattutto bambini, impiegati come
suonatori ambulanti, si rivelarono un caso difficile da affrontare per filantropi,
enti di beneficenza e in primis per legislatori, polizia e magistrati. Facevano
parte di quella massa di poveri che proveniva dalla campagna e sembrava
invadere le città e minacciare l’ordine pubblico. Erano considerati dei diversi
dall’opinione pubblica, pertanto si pensava che non avessero diritto a far parte
della comunità urbana ed erano sempre visti con molto sospetto dalle persone.
Quello che più risultava essere patologico nella questione sulla mendicità
era dato dalla presenza dei piccoli suonatori. Chiedevano la carità o qualche
moneta in cambio di un umile lavoretto: esporre topolini bianchi o suonare
l’arpa o il violino anche la sera tardi. Indossavano strani abiti e l’aspetto cupo
conferiva loro un’aria da delinquenti.
Si veniva a creare un vero e proprio problema intorno a questi piccoli, ossia
quello dell’accattonaggio, dovendo stabilire se i piccoli suonatori o venditori
ambulanti italiani, che spesso si trovavano a lavorare per le strade delle grandi
città europee, fossero o meno dei mendicanti.
I deputati parlamentari e i burocrati del ministero degli affari esteri
cercarono di reagire al problema con una soluzione legislativa dal punto di
vista del paese di partenza.
12
Un’esposizione esauriente dell’argomento si ritrova in E. FLORIAN, G. CAVAGLIERI, I
vagabondi, vol. I, Fratelli Bocca, Torino 1897.
12
Il Parlamento in cinque anni condusse dapprima un’indagine sui bambini
impiegati in attività ambulanti, per arrivare poi ad una legge speciale che li
proteggesse.
In ogni città e paese, politici, poliziotti e burocrati consideravano il
problema dei bambini lavoratori (e in particolare dei menestrelli) all’interno del
singolo contesto sociopolitico.
Grazie alle notizie sulla condizione di questi fanciulli, provenienti dagli atti
di enti governativi, associazioni e comitati filantropici o dai giornali, il Senato
italiano poté creare una commissione, tra il 1868 ed il 1873, che approntasse un
progetto di legge. Il progetto divenne legge a tutti gli effetti nel dicembre 1873
e proibiva l’impiego di bambini in professioni girovaghe.
1.1.2.1 La legge del 1873 sui minori migranti
Nel corso di due decenni, dal 1860 al 1880, fu molto sostenuta l’attività di
legislatori e burocrati, tanto che nel 1868 una commissione parlamentare aprì
un’inchiesta sulla tratta e appoggiò un disegno di legge per impedire l’impiego
di minori in attività itineranti: si manifestò infatti una diffusa sensibilità per la
tratta dei fanciulli, in Italia come in Inghilterra o in Francia.
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Nelle aule del Parlamento italiano, nel marzo 1873, Giuseppe Guerzoni,
relatore della giunta che aveva esaminato il progetto di legge d’iniziativa
governativa per la proibizione dell’impiego dei fanciulli in professioni
girovaghe, afferma che:
allora come oggi era un accattonaggio travestito coi simboli
dell’arte, una depravazione dell’innocenza, un abuso della
patria potestà […].
13
Un precedente c’era stato con la prima legge per l’unificazione
amministrativa del Regno d’Italia del 1865, in quanto l’articolo 63 vietava a
coloro che esercitavano professioni ambulanti di tenere presso di sé individui
minori di diciotto anni, «a meno […] di aver ottenuto il consentimento scritto
di chi eserciti su di essi la patria potestà o tutela, vidimato dall’autorità di
pubblica sicurezza, ed in loro mancanza dall’autorità medesima»,
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diritto che
poteva essere limitato dalle autorità di pubblica sicurezza solo nel caso in cui i
minori fossero sottoposti ad abusi o a maltrattamenti.
Lo stesso codice penale a cui si rifà il deputato Guerzoni, all’articolo 445,
punisce col carcere e coll’ammonizione i genitori o tutori che permettano ad
altri di servirsi dei propri figli per mendicare e all’articolo 441 persegue i
genitori che lasciano i loro figli all’ozio e al vagabondaggio.
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E sempre in base
al già citato articolo 63 della legge di pubblica sicurezza del 1865, gli esercenti
professioni girovaghe possono tenere con sé minori di diciotto anni, ma devono
13
Relazione della giunta in Atti Parlamentari, Discussioni, tornata del 19 marzo 1873, p. 5540.
14
Legge per l’unificazione amministrativa del Regno d’Italia del 20 marzo 1865, n. 2248,
allegato B, legge sulla sicurezza pubblica.
15
Guerzoni riprende gli articoli del codice penale sardo piemontese del 1859, in vigore nelle
regioni del Regno d’Italia sino all’emancipazione del primo codice penale unitario del 1889,
noto anche come codice Zanardelli.
14
avere prima ottenuto il consenso paterno o del tutore, mentre all’articolo 72 si
stabilisce di riconsegnarli ai genitori nel caso di maltrattamenti o abusi.
È a questo punto che il presidente del Consiglio e ministro degli Affari
esteri, Luigi Menabrea, in risposta all’interpellanza degli onorevoli Guerzoni e
Oliva, si impegnava insieme al ministro dell’Interno, Carlo Cadorna, a
proporre un disegno di legge «adatto a porre fine a quell’infame commercio
sull’anima e sul corpo dei poveri fanciulli».
16
Lo scopo della legge, secondo
Menabrea, è quello di evitare «alla crescente generazione la precoce
immoralità proveniente dalla vita vagabonda ed oziosa»;
17
nella tornata
dell’aprile 1869 viene così presentato al Senato uno schema di legge sul
Divieto di impiego di fanciulli d’ambo i sessi in professioni girovaghe
all’estero, quello che poi diventerà legge effettiva il 21 dicembre 1873.
1.1.2.2 La legge del 1886 sulla tutela del lavoro dei fanciulli
La nuova legge del 1873 limita la patria potestà rispetto alla legge di
pubblica sicurezza del 1865, che consentiva l’affidamento dei minori a chi
esercitasse professioni o negozi ambulanti, purché con il consenso scritto dei
genitori o tutori, vidimato dall’autorità di pubblica sicurezza. La nuova legge
però limitava solo timidamente le forme più estreme di abuso della patria
potestà, per la difesa della nomea nazionale e della moralità pubblica: viene
infatti proibito ai genitori la cessione dei figli a terzi per i mestieri girovaghi,
16
Atti Parlamentari, Camera del Senato, Legislatura X, sessione 1868-1869, Discussioni, p.
1378.
17
Ibi., p. 1379.
15
ma non viene loro impedito di impiegare i figli in queste attività girovaghe.
Dopo la legge del 1873, che condannava la tratta dei bambini per lavorare in
Italia e all’estero, il Parlamento italiano si occupò anche della tutela del lavoro
minorile dei piccoli operai, sia in Italia che all’estero.
La prima Legge sul lavoro dei fanciulli,
18
dopo più di quindici anni di
polemiche e inchieste, superate le resistenze di molti industriali, che contro
l’intervento dello Stato in materia di lavoro si facevano difensori delle libertà
individuali e della libertà dei padri, era stata approvata l’11 febbraio 1886.
Essa riguardava il lavoro negli opifici industriali, nelle cave e nelle miniere,
a cui vietava di ammettere i fanciulli di entrambi i sessi minori di nove anni o
minori di dieci, nel caso di lavori sotterranei. Stabiliva anche l’obbligo del
certificato medico fino ai quindici anni, in modo da attestare che il minore
fosse sano e idoneo al lavoro a cui veniva destinato, limitando a otto ore di
lavoro giornaliero l’impiego dei fanciulli tra i nove e i dodici anni. Alcuni
lavori, essendo considerati dalla legge pericolosi o comunque sia insalubri,
vengono vietati prima dei quindici anni di età.
18
La legge sul lavoro dei fanciulli 11 febbraio 1886, n. 3657, pubblicata nella «Gazzetta
Ufficiale del Regno», il 18 febbraio 1886, n. 40.