2industriale, tra reindustrializzazione, bonifica e dismissione.
Si sono volutamente lasciate fuori le vicende legate alla “nave dei veleni”
avvenute alla fine degli anni ’80, poiché allargando i fronti della ricerca si sarebbe
prodotta un’analisi meno approfondita.
Lo studio, oltre ad implicare l’analisi dei soggetti sociali coinvolti e delle loro
relazioni reciproche, è stato condotto su vari livelli: la rappresentazione ufficiale
dell’evento (fonti bibliografiche), la comunicazione dell’evento (giornali),
l’interpretazione e il vissuto quotidiano (interviste) e l’intervento politico4. Le
discordanze emerse dalle fonti scritte sono state risolte privilegiando quelle più
attendibili, in riferimento ai ruoli assunti dagli autori5.
Di fondamentale importanza, per la comprensione di dinamiche spesso
intricate, sono risultate le interviste effettuate ad ex-operai, tecnici, chimici,
agricoltori, sindacalisti e parenti di alcune vittime. Da esse è emersa in tutta la sua
limpidezza la complessità di una vicenda che ha interessato il nostro territorio per
quasi trent’anni e che, anche se trascurata spesso dalla storia ufficiale6, è ancora
nitidissima nei ricordi di chi l’ha vissuta in prima persona.
La memoria di quegli uomini e di quelle donne è importantissima per
qualsiasi lavoro di ricostruzione storico-economico-ambientale riguardante
Manfredonia dall’ultima metà del secolo scorso in poi e occorrerebbe raccoglierla
prima che vada perduta per sempre.
La storia è ciclica e Manfredonia lo sta scoprendo con la seconda
industrializzazione del Contratto d’area. Per questo il contributo che la storia può
dare per far sì che si evitino gli errori del passato è oggi più importante che mai.
Occorre riabilitare la memoria collettiva della città e metterla a disposizione delle
istituzioni e delle nuove generazioni così da permettere ad esse, alla luce del passato,
di pianificare il proprio futuro.
4
Ibidem, p. 161
5
Così, ad esempio, per le vicende relative all’intervento politico si sono privilegiati gli scritti del sen.
Michele Magno rispetto ad altre fonti.
6
Non solo a livello nazionale, ma anche a livello regionale spesso quando si parla di aree ad alto
rischio ambientale si ricorda solo Taranto e Brindisi.
3CAPITOLO I
INDUSTRIA CHIMICA E DISASTRI AMBIENTALI NEL XX SECOLO
1.1 Industria chimica e ambiente
La chimica è l’unica grande disciplina scientifica che ha un’industria che
porta il suo nome. Essa tradizionalmente si divide in primaria e secondaria. La
chimica primaria o di base, partendo da materie grezze e naturali, produce materie
prime per altre industrie e input per la chimica secondaria. Quest’ultima, attraverso
processi di sintesi e di formulazione, ottiene prodotti finiti di largo consumo o
additivi, composti e ausiliari che entrano in altre produzioni manifatturiere7.
Nata alla fine del ‘700 in Inghilterra con la Rivoluzione Industriale,
l’industria chimica ha attraversato un periodo di forte sviluppo in tutti i paesi
industrializzati a partire dalla prima metà del XIX secolo. La sua storia e la sua
evoluzione si sono basate prevalentemente sulle scoperte scientifiche, sulla
disponibilità di materie prime a basso costo e sull’utilizzo di scarti di altre
lavorazioni industriali per la produzione di fibre artificiali ed altri materiali nei
periodi di economia autarchica8.
Sorta con lo scopo di tendere alla sostituzione delle sostanze e dei materiali
naturali con altri di tipo artificiale, la chimica dal secondo dopoguerra in poi è
divenuta “la donna a tutto servizio della civiltà quotidiana”9, apportando una vera e
propria rivoluzione nei settori più disparati, come quello dei concimi, dei farmaci, dei
tessili, dei detersivi, delle vernici, delle pellicole fotografiche, ecc…
È l’esigenza di produrre grandi quantità di prodotti a prezzi accessibili che
caratterizza la chimica industriale rispetto a quella accademica, e che ha permesso al
mondo industrializzato di realizzare quello spettacolare progresso economico che ha
segnato la storia dell’Occidente nel XX secolo. Basti pensare che la produzione e il
7
Circa il 60 % delle produzioni chimiche entrano come prodotti intermedi in altri cicli industriali: questo è
un chiaro indicatore della forte penetrazione del settore chimico in tutti gli altri comparti produttivi.
8 F. Trifirò, Inquadramento storico della nascita dell¶industria chimica,
http://www.minerva.unito.it/chimica&industria/ ChimicaIndustria1/NascitaInd/NascitaInd1.htm
9
D. Lapierre, J. Moro, Mezzanotte e cinque a Bhopal, Mondadori, Milano 2001, p. 53
4consumo di acido solforico, il composto basilare delle principali produzioni
chimiche, sono diventati un indice di crescita economica.
Gli ingenti investimenti necessari ed il costante collegamento con la ricerca
scientifica hanno consentito solo a grossi colossi multinazionali come Dupont De
Nemours, Monsanto, Union Carbide, BASF, Shell, Dow Chemical di guidare una
rivoluzione che ha inondato i mercati mondiali di centinaia di prodotti chimici
innovativi.
Quella rivoluzione aveva però un prezzo, che derivava direttamente dal
trattamento delle materie prime utilizzate nei processi produttivi. Molte delle
sostanze trattate erano infatti pericolose quanto le radiazioni prodotte dalle industrie
nucleari. Ad esempio il fosgene, soprannominato “gas senape”, uno dei prodotti
chimici più utilizzati, aveva asfissiato migliaia di soldati durante la prima guerra
mondiale. L’acido cianidrico, il gas dall’odore di mandorla dolce che entra nella
composizione di alcuni farmaci, veniva adottato da numerosi penitenziari americani
per l’esecuzione dei condannati a morte10.
I giganti della chimica hanno impegnato ingenti risorse nella promozione dei
loro prodotti, vantandone le qualità rivoluzionarie e l’assenza di tossicità, si sono
sforzati di preservare la propria reputazione investendo grosse somme nella sicurezza
sui posti di lavoro e praticando severe politiche di salvaguardia dell’ambiente. Ma,
come in ogni rivoluzione, non sono riusciti a gestire in maniera del tutto controllata
un’accelerazione tanto dirompente. Solo il verificarsi di alcuni grandi incidenti
industriali, e delle loro gravi conseguenze sull’ambiente e sulla salute delle
popolazioni colpite, hanno portato al ripensamento di una crescita così esplosiva11.
1.2 Il disastro di Bhopal
Nel campo dei pesticidi negli anni ’60 del XX secolo si scatenò una vera e
propria guerra tra le principali industrie chimiche: chi per prima avesse scoperto un
10
Ibidem, p. 54
11
R. Ugo, La scienza e l¶industria chimica: un¶opportunità per un futuro sostenibile o solo un problema
ambientale?, http://www.minerva.unito.it/Chimica&industria/ChimicaIndustria2/FuturoSostenibile01.htm
5pesticida potente quanto il Ddt12, ma privo dei suoi effetti tossici sull’uomo e
sull’ambiente avrebbe conquistato il mercato mondiale del settore. A vincere questa
corsa fu la statunitense Union Carbide. Essa si affrettò a inondare l’America di
opuscoli che vantavano la nascita del suo miracoloso prodotto: il SEVIN. “Le lodi
erano sperticate e, per sottolineare a dovere la totale mancanza di tossicità, nelle
fotografie si vedeva uno dei suoi inventori mentre ne assaporava qualche granello,
con l’aria golosa di un bambino che lecchi la cioccolata”13. Ma la Carbide non
pubblicò mai su nessuna rivista scientifica i risultati degli esperimenti tossicologici
effettuati sugli animali del MIC, l’isocianato di metile, uno dei gas utilizzati per la
produzione del Sevin. Si saprà solo molto più tardi che quegli esperimenti avevano
provocato la morte quasi immediata degli animali esposti, provocando blocchi
respiratori, cecità irreversibili, ustione dei pigmenti della pelle. Inoltre il MIC è un
composto altamente “irascibile”: il solo contatto con qualche goccia d’acqua o
qualche grammo di polvere metallica scatena reazioni di incontrollabile violenza.
Di tale violenza si rese testimone e vittima, suo malgrado, la popolazione di
Bhopal, l’antica capitale dello stato del Madhya Pradesh in India14. Qui la Union
Carbide costruì nel 1969 uno stabilimento per la produzione del Sevin, che a regime
avrebbe prodotto 5 mila tonnellate annue del miracoloso pesticida. Nella notte tra il 2
e 3 dicembre 1984 dalla cosiddetta “bella fabbrica” fuoriuscirono 40 tonnellate di
12
Il diclorodifenil-tricloroetano (Ddt) fu scoperto nel 1939 dal biochimico svizzero Paul Herman
Müller, successivamente insignito del Nobel per la medicina e la fisiologia (1948). Egli ne verificò
l’efficacia neurotossica contro zanzare, mosche tse-tse, pulci e pidocchi. Il Ddt fu rapidamente
adottato in ambito agricolo nel trattamento del suolo e delle sementi, e in campagne di prevenzione
sanitaria, soprattutto per l’eradicazione della malaria, del tifo, della febbre gialla e di altre patologie
veicolate da insetti. Alla fine degli anni Cinquanta del XX secolo divenne l’insetticida più usato in
tutto il mondo e permise di migliorare la produttività agricola di alcune coltivazioni e di ridurre la
mortalità legata alla malaria. Nei primi anni Sessanta si manifestarono sospetti sulla tossicità del
composto nei confronti dell’uomo e degli ecosistemi. Tra le voci che ebbero maggiore risonanza vi fu
quella della zoologa statunitense Rachel Carson, oggi considerata la pioniera del movimento
ambientalista, che nel 1962, con il suo libro Silent spring, denunciò fra l’altro le gravi conseguenze
provocate sulle catene alimentari dall’insetticida. L’opera sollecitò vivaci polemiche che
contribuirono ad avviare progetti di studio sugli effetti del Ddt. Tali studi accertarono che la
pericolosità della molecola, da allora considerata cancerogena, derivava dalla sua struttura chimica:
essa non è, infatti, solubile in acqua ma nei grassi, e pertanto tende a concentrarsi sempre di più ad
ogni passaggio della catena alimentare (fenomeno noto come amplificazione biologica o
bioaccumulo). Le ricerche evidenziarono che i residui di Ddt erano presenti nella maggior parte degli
alimenti tra gli anni Cinquanta e Settanta del XX secolo, e anche nel tessuto adiposo umano. Queste
evidenze portarono a bandire l’uso del Ddt nella maggior parte dei paesi industrializzati a partire dal
1972. Microsoft ® Encarta ® Enciclopedia Premium. © 1993-2004 Microsoft Corporation.
13
D. Lapierre, J. Moro, Mezzanotte«, op. cit., p. 45
14
Vedi fig. 1 in appendice fotografica