8
sociale, fondamentalmente composto dalla popolazione nativa, le cui
rivendicazioni evolvono da un carattere più tipicamente sindacale ad uno
attraversato dalla rilevanza della questione etnica.
Analizzeremo in particolare la formazione delle prime organizzazioni
indigene, la loro composizione e le loro rivendicazioni; in seguito
descriveremo come le piccole associazioni di base mettano in moto un
processo di organizzazione che sfocia nella costituzione di un organismo di
rappresentanza nazionale.
Nel terzo capitolo approfondiremo la genesi, lo svolgimento e il significato di
un evento che ha marcato un passaggio significativo nella storia del
movimento indigeno ecuadoriano: il levantamiento del 1990. Attraverso tale
mobilitazione, infatti, i nativi acquisiscono visibilità nel panorama politico e
sociale del paese e ribadiscono la loro presenza nei levantamientos
convocati negli anni successivi degli anni Novanta.
Nel quarto ed ultimo capitolo descriveremo, infine, quella serie di eventi che
hanno portato il movimento indigeno a consolidare la propria partecipazione
alla vita politica nazionale. La formazione di un partito, la convocazione
dell’Assemblea Costituente, un tentato golpe, un levantamiento ed infine la
partecipazione al Governo evidenziano la grande vitalità del movimento
negli ultimi dieci anni e la sua capacità di proporsi come attore politico che
non si limita ad una rappresentanza politica corporativa, ma abbraccia con
la propria proposta politica l’intera società ecuadoriana.
Nel corso dell’esposizione tratteremo del movimento indigeno riferendoci
alla Confederación de Nacionalidades Indígenas del Ecuador (CONAIE);
tale semplificazione è giustificata dalla grande compattezza a livello
rappresentativo ed organizzativo che caratterizza il movimento indigeno.
Alla CONAIE fanno riferimento infatti due terzi del totale della popolazione
nativa ed essa si è dimostrata una forza capace di grande mobilitazione, la
principale promotrice delle azioni del movimento, nonché interlocutore
politico riconosciuto a livello governativo.
9
Capitolo 1
L’indigenismo
«La letteratura indigenista non può darci una visione
rigorosamente veritiera dell’indigeno. Deve idealizzarlo e
stilizzarlo. Non può darci nemmeno la sua anima.
Rimane comunque una letteratura di meticci. Per questo
si chiama indigenista e non indigena. Una letteratura
indigena deve venire, verrà a suo tempo. Quando gli
stessi indigeni saranno in grado di produrla»
1
1.1 Il contesto storico
L’inizio del XX secolo rappresentò un momento di grande cambiamento
politico e sociale per l’ America Latina.
Il sistema di potere oligarchico, infatti, sapientemente costruito e gestito
dalle classi dominanti durante il XIX secolo, iniziò a vacillare a causa delle
sue contraddizioni interne e delle trasformazioni della base sociale ed
economica che lo manteneva.
Nel periodo compreso tra il 1880 e lo scoppio della prima guerra mondiale,
si assistette ad un forte sviluppo economico, dovuto all’affermazione del
subcontinente come partner privilegiato negli scambi con l’Europa,
improntato alla “crescita verso l’esterno” e caratterizzato dall’affermazione
del settore delle esportazioni, incentivato e finanziato dal capitale inglese.
1
«La literatura indigenista no puede darnos una versión rigurosamente verista del indio.
Tiene que idealizarlo y estilizarlo. Tampoco puede darnos su propia ánima. Es todavía una
literatura de mestizos. Por eso se llama indigenista y no indígena. Una literatura indígena,
si debe venir, vendrá a su tiempo. Cuando los propios indios estén en grado de producirla»
Mariateguí J.C., cit. in Ibarra, H. “Intelectuales indígenas, neoindigenismo e indianismo en
el Ecuador”, Ecuador Debate, n.48, Quito, diciembre 1999.
http://www.dlh.lahora.com.ec/paginas/debate/paginas/debate100.htm
10
Se tale slancio non produsse trasformazioni importanti del sistema
produttivo,
2
provocò significative modificazioni della struttura sociale.
Il relativo arricchimento dei paesi latinoamericani indusse un miglioramento
delle condizioni sanitarie e dei regimi alimentari, riducendo il tasso di
mortalità; ciò, accompagnato da una massiccia immigrazione europea,
generò una esplosione demografica: la popolazione del subcontinente
passò infatti da 60 milioni nel 1900, a 82 milioni nel 1914, per giungere a
più di 100 milioni nel 1930.
3
L’incremento demografico e l’espansione economica accelerarono
l’ampliamento dei centri urbani, spostando il fulcro del potere dalle
campagne alle città. La burocrazia, i servizi commerciali e le classi operaie
che vi operavano favorirono l’emergere dei ceti medi e del proletariato
urbano, rompendo l’immobile dualismo in cui aveva vissuto fino a quel
momento la società iberoamericana e generando conflitto all’interno
dell’oligarchia fra gruppi di potere agrari, industriali e commerciali.
I fattori di cambiamento insiti nella struttura sociale e politica
latinoamericana di inizio secolo divennero determinanti con la crisi
economica del 1929, che segnò il crollo della domanda dei prodotti
esportati dalla regione. La dipendenza totale dal mercato internazionale
rese la crisi congiunturale degli anni Trenta una crisi strutturale per
l’America Latina, evidenziando l’eccessiva debolezza e inefficienza del
modello di sviluppo adottato. Iniziò così a delinearsi una nuova linea
economica, che si consolidò negli anni Cinquanta, fondata sulla produzione
per sostituzione di importazioni (modello ISI). Un’altra importante
modificazione, in seguito al primo conflitto mondiale, fu la sostituzione del
2
L’assetto produttivo latinoamericano rimase infatti ancorato alle strutture tradizionali,
senza che si sviluppasse un mercato interno; ancora nel 1929 il latifondo forniva i 2/3 della
produzione agricola e il suo incremento, ottenuto attraverso l’ampliamento della frontiera
interna e lo sfruttamento della manodopera, andava ad esclusivo vantaggio delle
oligarchie. Cfr. Carmagnani M., La grande illusione delle oligarchie. Stato e società in
America Latina (1850-1930), Torino, Loescher Editore, 1981; Carmagnani M., L’altro
Occidente: l’America Latina dall’invasione europea al nuovo millennio, Torino, Einaudi,
2003 e Martinez Diaz, N. “Los radicalismos”, in Lucena Salmoral M., Historia de
Iberoamerica. Tomo III. Historia contemporánea, Madrid, Ed. Catedra, 1992.
3
Cfr. Chevalier F., L’Amérique Latine de l’indépendence à nos jours, Paris, PUF, 1993,
p.129.
11
capitale inglese (che aveva alimentato la crescita economica del periodo
precedente) con quello statunitense.
La scelta di sviluppare un mercato interno, attraverso l’industrializzazione,
decretò il declino del pensiero liberale e l’adozione di politiche protezioniste
e nazionaliste.
4
Dal punto di vista politico, il ristagno economico generò la crisi del sistema
di potere oligarchico, fondato su una continua espansione economica;
questo lasciò il posto al nuovo progetto di governo, quello populista, che,
assumendo caratteristiche progressiste o conservatrici a seconda dei
diversi paesi, ha costituito il tratto comune dei sistemi politici latinoamericani
dagli anni Trenta fino alla metà degli anni Cinquanta.
Di fronte agli avvenuti cambiamenti sociali, all’affacciarsi sulla scena politica
delle nuove classi sociali, i populismi si presentarono, seguendo Alain
Roquié, «come sistemi di transizione che tentano di integrare le classi
popolari nell’ordine politico e sociale esistente, mediante un’azione
volontaria dello stato».
5
L’importanza che in questo progetto politico
assumeva una persona carismatica era secondaria rispetto a quella
attribuita al soggetto statale, istituzione chiave.
L’ideologia che sosteneva i populismi era il nazionalismo “popolare”, dove il
popolo era costituito dall’insieme della comunità nazionale; questo
significava integrazione dei settori sociali esclusi attraverso politiche sociali
paternalistiche, volte a placare il dissenso in nome di una sostanziale
immutabilità della struttura di potere.
1.2 La questione indigena e la questione nazionale
Fra i settori sociali esclusi, che il nazionalismo latinoamericano della prima
metà del Novecento tentò di cooptare, troviamo le popolazioni indigene.
Queste, sebbene fossero differenziate dall’entità della loro presenza
4
Cfr. Carmagnani M.(1981), op.cit. pp. 218-225.
5
Rouquié A., L’America Latina. Introduzione all’estremo Occidente, Milano, Mondadori,
2000, p. 223.
12
all’interno dei diversi paesi, erano accomunate dall’orientamento politico di
omogeneizzazione e assimilazione subito durante tutto il XIX secolo.
Ridotti a “casta speciale” durante il periodo coloniale, acquistarono lo status
di “cittadini” al pari degli altri con l’acquisizione dell’indipendenza dei nuovi
Stati. L’uguaglianza di tutti i cittadini davanti alla legge, affermata dal
progetto liberale, negava infatti l’esistenza dell’indigeno trasformandolo in
un soggetto al pari degli altri, avente gli stessi diritti e doveri. Vennero
dunque abolite le leggi “speciali” emanate dalla Corona Spagnola durante il
periodo coloniale
6
che, sebbene avessero costituito uno strumento di
controllo della popolazione nativa, ne permisero la preservazione e
riproduzione culturale e sociale.
Con l’indipendenza e la formazione delle nuove repubbliche lo “stato indio”
costruito all’interno dello stato coloniale venne assorbito; l’indigeno venne
eliminato come categoria giuridica
7
scomparendo nella categoria astratta
del “cittadino”. L’annullamento dell’indigeno sfociò inevitabilmente
nell’inesistenza di una “questione indigena”.
Il nazionalismo di inizio Novecento mise in crisi tale concezione e ripropose
l’indigeno come un problema: in quanto escluso e differente costituiva infatti
un limite allo sforzo di unità nazionale; l’indigeno non rappresentava dunque
un problema di per sé; lo diveniva nel contesto dello stato nazionale poiché
minava la sua solidità in termini di unità e identità.
Alla luce di tali considerazioni risulta evidente come l’esistenza della
“questione indigena” fosse necessariamente collegata alla “questione
nazionale”.
Se consideriamo la nazione nella sua accezione moderna, ci riferiamo ad
un processo di organizzazione politica e sociale che si sviluppò in Europa
alla fine del XVIII, fondato sul pensiero di grandi pensatori politici (Hobbes,
Locke), i cui pilastri erano rappresentati dallo sviluppo del capitalismo e del
liberalismo, concepito come «tentativo di sostenere i valori della libertà di
6
Per esempio la Corona prevedeva un tributo speciale a carico degli indigeni e ne
riconosceva la proprietà comunale della terra.
7
Per esempio, nelle otto Costituzioni politiche promulgate in Perù durante il XIX secolo le
parole “indio” e “indigeno” sono appena pronunciate, cfr. Marzal, Manuel M. Historia de
antropologia indigenista: Mexico y Perù, Barcélona, ed.Anthropos, 1993, p. 51.
13
scelta, di pensiero e la tolleranza contro la tirannia, il sistema assolutista e
l’intolleranza religiosa».
8
Alla base della formazione dello stato moderno si situa una riconciliazione
tra stato sovrano, «inteso come una struttura di potere impersonale e
legalmente circoscritta»
9
e popolo sovrano, «fonte legittima dei poteri dello
stato stesso»
10
.
In Europa, il processo di formazione dello stato-nazione fu condotto dalla
nuova classe dirigente emersa con lo sviluppo del capitalismo, che,
proclamando la libertà e l’uguaglianza tra i cittadini, non fece della
separazione e privilegio il suo carattere distintivo; tutti avevano la possibilità
di ascendere la scala sociale, senza distinzioni. E’ evidente come la
questione etnica non rientrasse in questo tipo di discorso e ciò avesse
permesso la formazione di stati nazionali pur in presenza di forti differenze
culturali (come per esempio in Svizzera e in Olanda), poiché tutti i cittadini
potevano prendere parte al progetto nazionale e trarne vantaggio.
Questo non si può dire nel caso latinoamericano. Come abbiamo visto nel
paragrafo precedente, il processo di formazione e sviluppo dei nuovi stati
dell’America Centrale e Meridionale fu condotto dall’oligarchia, una classe
sociale estremamente chiusa che perseguiva, attraverso lo strumento
statale, l’arricchimento economico e la continua affermazione del proprio
dominio.
L’esclusione dei nativi perpetrata dallo stato coloniale, seguita dal tentativo
di annullamento messo in atto dalle nuove repubbliche rese la questione
etnica un problema politico da affrontare in funzione del rafforzamento dello
stato.
Tale volontà si trasformò in un tentativo di “integrazione” all’interno delle
società nazionali meticce, eliminando i fattori di arretratezza delle
popolazioni native ed esaltandone ed accogliendo nella cultura nazionale gli
aspetti positivi. Il meticciato divenne infatti una corrente che attraversò e
8
Held D., Modelli di democrazia, Bologna, Ed. Il Mulino, 1997, p.108.
9
Ibid., p.109.
10
Ibid., p.109.
14
influenzò il pensiero politico e sociale di tutti gli Stati latinoamericani come
soluzione al problema della costruzione dell’identità nazionale.
Alla base di tale corrente troviamo il pensiero di José Vasconcelos, autore
messicano, che, nella sua opera La raza cósmica: misión de la raza
iberoamericana pubblicata nel 1925, affermava: «Tutto sembra indicare che
[…] arriveremo in America, prima che in altra parte del globo, alla creazione
di una razza fatta con il tesoro di tutte le anteriori, la razza finale, la razza
cosmica».
11
La valenza negativa del meticciato era legata all’idea dell’impossibilità di
unione fra razze differenti, mescolanza sanzionata dal punto di vista etico e
legale; tra Ottocento e Novecento tale accezione si modificò e giunse a
considerare il meticcio come possibilità di miglioramento della razza, o
addirittura come «simbolo di una distinta e originale identità latino-
americana».
12
Il meticcio, forte dell’arricchimento dato dalla mescolanza delle diverse
“razze” e culture, assumeva quindi il grado di “razza superiore” ed
illuminata.
L’importanza del meticciato nella storia politica e sociale degli stati
latinoamericani come elemento di differenza dal Vecchio Mondo era
sottolineata anche da Aguirre Beltrán, direttore dell’Istituto Indigenista
Interamericano (III) negli anni Sessanta:
«Un elemento in più da considerare in America, a differenza di ciò
che è accaduto in Europa, è la presenza del meticcio, ossia, il
prodotto della ibridazione di indios, bianchi e negri.[…] In Europa la
mescolanza di popoli non diede mai origine alla categoria sociale,
denominata meticcio che in America svolge una funzione di cardinale
importanza. Il meticcio è il fattore di unione con cui i paesi
11
«Todo parece indicar que […] llegaremos en América, antes que en parte alguna del
globo, a la creación de una raza hecha con el tesoro de todas las anteriores, la raza final,
la raza cósmica», Vasconcelos J., La raza cósmica: misión de la raza iberoamericana,
Madrid, Editorial Aguilar, 1966, cit. in Moreno Yánez, S., Figueroa J. El levantamiento
indígena del inti raymi de 1990, Quito, Abya Yala, 1992, pp. 79-80.
12
Giraudo L., Distanze da superare. I governi rivoluzionari in Messico e la trasformazione
culturale di indios e contadini, Torino, Otto Editore, 2003, p.18.
15
latinoamericani pretendono di raggiungere la meta che si sono
proposti: lo Stato monoetnico».
13
La ricerca di unità nell’identità nazionale si coniugava a livello politico nel
tentativo di integrazione delle comunità indigene; la corrente di pensiero
che offrì gli strumenti agli stati latinoamericani per risolvere la “questione
indigena” è l’indigenismo.
1.3 Il pensiero indigenista
Con il termine di “indigenismo” si indicano quelle correnti di pensiero e
pratiche politiche accomunate dal semplice interesse per la popolazione
indigena, siano esse attuate durante il periodo coloniale o nei differenti
periodi che attraversarono le repubbliche latinoamericane.
In un’accezione più ristretta, si intende per “indigenismo” quella corrente di
pensiero tradotta in azione politica e sociale, sviluppatasi in Messico e Perù
intorno agli anni Venti del secolo scorso
14
, in risposta al problema di
integrazione delle popolazioni indigene alla società nazionale ed in funzione
dell’affermazione di un’identità nazionale autonoma, complessa e
differenziata da quella occidentale. Si tratta della «forma privilegiata che
assume il nazionalismo in alcuni paesi dell’America Latina».
15
Lo stesso
Aguirre Beltrán affermava:
«Per comprendere la ragione di essere della politica indigenista
desideriamo innanzitutto rendere chiara la finalità ultima che
13
«Un factor más a considerar en América, a diferencia de lo acontecido en Europa, es la
presencia del mestizo, esto es, del producto de la hibridación de indios, blancos y negros.
[…] En Europa la mezcla de pueblos nunca dio origen a la categoría social denominada
mestizo que en América desempeña una función de cardinal importancia. El mestizo es el
factor de unidad por medio del cual los países latinoamericanos pretenden alcanzar la
meta que se han propuesto: el Estado monoétnico […]», Aguirre Beltrán G., “Política
indigenista en América Latina” (1969), in Obra Polémica, México, Fondo de Cultura
Económica, 1972, p.57 (corsivo nel testo).
14
Cfr. Giraudo L., op.cit. pp. 25-26 e Bengoa, J. La emergencia indígena en América
Latina, Quito, Fondo de cultura económica, 2000, pp. 204-206.
15
Giraudo L. , op. cit., p. 26.
16
persegue e che altra non è se non la formazione di una nazione a
partire dalla pluralità di gruppi etnici stabiliti nel territorio che
costituisce la base materiale dello Stato».
16
In tale ottica, caratteri distintivi della politica indigenista possono essere
considerati:
«la denuncia dell’oppressione dell’indio, la ricerca di politiche di
superamento della situazione indigena attraverso il processo di
integrazione al resto della società e la manifestazione, come
conseguenza di questo, del carattere meticcio, indoamericano, del
continente. E’ un programma di denuncia e autoaffermazione».
17
Altro carattere distintivo dell’indigenismo era la paternità non indigena
dell’iniziativa:
«L’indigenismo non è una politica formulata dagli indigeni per la
soluzione dei propri problemi ma quella [politica] dei non-indigeni
verso i gruppi etnici eterogenei che ricevono la generale
designazione di indigeni. Paradossalmente, Juárez, indigeno di
origine, nell’ attuare una politica indigenista agiva come non-
indigeno, come dirigente di una nazione, come rappresentante della
società nazionale. L’indigeno, come tale, non può richiedere una
politica indigenista perché l’ambito del suo mondo è ridotto ad una
16
«Para comprender la razón de ser de la política indigenista deseamos antes todo hacer
palmaria la finalidad última que persigue y que no es otra sino la formación de una nación
a partir de la pluralidad de los grupos étnicos establecidos en el territorio que constituye la
base material del Estado.» Aguirre Beltrán G., op.cit. p.54 ??
17
«la denuncia de la opresión del indio, la búsqueda de políticas de superación de la
situación indígena por el camino de su integración al conjunto de la sociedad y la
manifestación, como consecuencia de lo anterior, del carácter mestizo, indoamericano, del
continente. Es un programa de denuncia y autoafirmación.» in Bengoa J., op. cit., p. 205.
17
comunità parrocchiale, omogenea e preclassista che non ha che un
sentimento e una nozione vaghi di nazionalità».
18
Emerge da questo passaggio anche l’ottica di rafforzamento del sentimento
nazionale insita nell’azione politica indigenista, opera che non poteva
essere attuata né tanto meno pensata da individui che da sempre erano
esclusi dalla società degli stati di appartenenza e che avevano riferimenti
sociali e culturali differenti rispetto a quelli nazionali. Gli stessi indigeni,
attuando politiche indigeniste, agivano da non indigeni; perdevano cioè quel
carattere di specificità e differenza che li definiva tali e agivano da “cittadini”
dello stato che operavano per il bene comune.
Era implicita in questa visione una certa definizione di indigeno, che non
dipendeva da caratteristiche fisiche ma da elementi più intimi, quali
l’autodefinizione e il senso di appartenenza ad una determinata comunità.
Parlare una lingua nativa o possedere determinati tratti somatici non
sanciva l’appartenenza ad un gruppo etnico se non era unita alla effettiva
volontà di vivere secondo le tradizioni della propria comunità e riprodurle
socialmente e culturalmente.
Un altro elemento che traspare nel passaggio precedente, e che
rappresentò un’innovazione nella comprensione dell’”indigeno”, è il
carattere comunitario della sua essenza; l’identità india era
indissolubilmente legata alla relazione e interazione tra soggetti secondo
certi costumi e credenze legati ad un passato comune, differenti dal resto
della società che li circonda. Appare evidente dunque la condizione di
costruzione sociale che assume l’etnicità; l’identità indigena è vincolata
all’esistenza di un “altro”, separato fisicamente e distante culturalmente.
18
«El indigenismo no es una política formulada por indios para la solución de sus propios
problemas sino la de los no-indios respecto a los grupos étnicos heterogéneos que reciben
la general designación de indígenas. Paradójicamente, Juárez, indio de origen, al
implementar una política indigenista actuaba como no-indio, como dirigente de una nación,
como representante de la sociedad nacional. El indio, como tal, no puede postular una
política indigenista porque el ámbito de su mundo està reducido a una comunidad
parroquial, homogénea y preclasista que no tiene sino un sentido y una noción vagos de
nacionalidad.» Aguirre Beltrán G., “Un postulado de política indigenista” in Obra Polémica,
op.cit., pp. 24-25.
18
L’azione indigenista muoveva dunque dalla presa di coscienza
dell’esistenza dell’indigeno e della sua diversità; questa poteva rivelarsi allo
stesso tempo un limite e una risorsa: un limite nei termini di
omogeneizzazione dell’identità nazionale, risorsa nei termini di
valorizzazione degli aspetti “positivi” della cultura indigena e di costruzione
e identificazione in un passato comune pre-coloniale. Pareva quindi
indirizzarsi verso un’azione di costruzione dell’identità nazionale attraverso
la combinazione di caratteri differenti (europei e pre-colombiani), adottando
allo stesso tempo passato etnico e modernizzazione.
Questo significava attuare un programma di sviluppo e integrazione delle
popolazioni indigene e, nello stesso tempo, arricchire il resto della società
con alcuni elementi culturali appartenenti alle comunità native. Come
spiegava Alfonso Caso:
«bisogna incorporare le comunità indigene nella grande comunità
messicana; trasformare queste comunità portando loro quello che già
esiste in altri villaggi del paese […] Posto che non si tratta di un
problema razziale, ma di un problema di ritardo culturale, è
necessario trasformare gli aspetti negativi della cultura indigena in
aspetti positivi, e conservare quello che le comunità possiedono di
positivo e utile: il loro sentimento di comunità e mutuo aiuto, le loro
arti popolari, il loro folclore. Non abbiamo il diritto di distruggere
queste forme di cultura; all’interno della cultura nazionale, la varietà è
necessaria ».
19
Possiamo notare che, se l’indigenismo suggeriva, per la prima volta in una
politica strutturata, alcune risoluzioni alle problematiche relative alla
19
« […] hay que incorporar las comunidades indígenas a la gran comunidad mexicana;
transformar estas comunidades llevándoles lo que ya existe en otros poblados del país [...]
Puesto que no se trata de un problema racial, sino de un problema de atraso cultural, lo
que se necesita es transformar los aspectos negativos de la cultura indígena en aspectos
positivos, y conservar lo que las comunidades indígenas tienen de positivo y útil: su
sentido de comunidad y ayuda mutua, sus artes populares, su folklore. No tenemos el
derecho a destruir estas formas de cultura; dentro de la cultura nacional, la variedad es
necesaria.» Caso A., nel 1958, citato da Marzal M.M., op. cit. p. 37.
19
situazione delle popolazioni native in America Latina, sancendo la necessità
della loro protezione e il loro diritto all’esistenza, era evidente anche il
carattere insieme paternalistico e autoritario dell’approccio al problema. Gli
indigeni dovevano essere allo stesso tempo protetti e trasformati, quasi
fosse univoco il cammino da percorrere per tutte le popolazioni ed evidente
il diritto del non-indigeno ad assumere il ruolo di guida in questo percorso.
Si partiva dunque da considerazioni che si rifacevano al relativismo
culturale,
20
al rispetto dello sviluppo libero e differente delle diverse
popolazioni per ritornare alle teorie evoluzioniste del XIX secolo, che
postulavano una linearità nel processo di sviluppo e, conseguentemente, la
possibilità di trovarsi in una condizione di maggiore o minore ritardo rispetto
allo stadio più avanzato (la società capitalista occidentale).
Emerge inoltre il paradosso esistente nel tentativo di costruire una nuova
identità (differente da quella occidentale), utilizzando strumenti culturali e
ideologici che erano inevitabilmente legati alla cultura occidentale e al
sistema economico capitalistico. La cernita tra elementi da mantenere, da
modificare o eliminare era operata, cioè, utilizzando canoni di pensiero che
necessariamente derivavano dalla stessa cultura dalla quale ci si voleva
distinguere.
1.3.1 La politica indigenista in America Latina
Sebbene il pensiero indigenista si fosse sviluppato quasi in contemporanea
all’arrivo degli Europei nel nuovo continente (importante fu l’opera svolta a
favore delle popolazioni indigene dal padre Bartolomé de Las Casas), la
trasformazione in un pensiero politico strutturato, destinato poi ad essere
istituzionalizzato in alcuni stati del subcontinente, fu un fenomeno degli inizi
del XX secolo.
20
Il relativismo culturale è una teoria antropologica che si sviluppa negli Stati Uniti all’inizio
del Novecento; rifiutando il sistema di analisi etnocentrico, in nome della pluralità delle
diverse culture, si pone in una posizione di netta contrapposizione all’idea di sequenza
lineare di sviluppo e allo sguardo giudicante verso i diversi sistemi culturali, tipici della
teoria evoluzionista.
20
Il primo paese ad attuare una riflessione sul problema indigeno a livello
ufficiale, nel primo decennio del Novecento, è il Brasile. L’espansione della
frontiera interna al paese, dovuta all’incremento dell’estrazione e
commercializzazione del caucciù alla fine del XIX secolo, mise in contatto le
popolazioni native dell’Amazzonia con i pionieri; un tentativo dello stato
brasiliano di attenuare la violenza determinata da tale incontro, ed anche la
prima istituzione a protezione degli indigeni, fu la creazione del Servizio di
Protezione degli Indigeni, istituito nel 1910.
21
Qualche anno più tardi, nel
1915, il generale Rondón, venuto a conoscenza delle condizioni di vita degli
indigeni in Amazzonia a causa delle esplorazioni effettuate con la
“Commissione Rondón”,
22
inserì nel Protocollo di Rio de Janeiro,
23
alcune
clausole a protezione delle popolazioni indigene, a partire dalla promozione
dell’applicazione della legislazione già esistente in materia di diritti indigeni.
Un’attenzione particolare fu dedicata al problema del riconoscimento delle
terre abitate dalle popolazioni native e al controllo relativo agli abusi che
esse subivano, in termini di sfruttamento e sopraffazioni (dovute
all’inesperienza delle regole e costumi esistenti nella “società
occidentale”).
24
E’ da segnalare inoltre l’importanza di tale documento in quanto per la
prima volta si definiva il concetto di “terre indigene”, considerando tali:
i territori in cui vivevano e che erano stati abitati anticamente dalle
popolazioni native
le terre necessarie alla loro sopravvivenza, nei termini di possibilità di
svolgere le normali attività legate alla loro cultura e tradizione (per
esempio caccia e pesca)
i territori già consegnati o riconosciuti di loro proprietà.
25
21
Mauro F., Histoire du Brésil, Paris, éditions Chandeigne, 1994.
22
Commissione istituita nel 1915, in seguito a dispute territoriali tra Brasile, Perù e
Colombia relative alla demarcazione delle linee di frontiera fra i tre paesi. Il Generale
Cándido da Silva Rondón era a capo della commissione che compì un vasto lavoro di
esplorazione in aeree fino ad allora sconosciute. Cfr. Bengoa J., op.cit. p. 213.
23
Accordo stretto fra i tre Stati (Brasile, Perù e Bolivia) per la determinazione delle linee di
confine.
24
Cfr. Bengoa J., op.cit. p. 214.
25
Cándido Silva da Rondón, “Problema indígena” in America Indígena, N.1, gennaio 1943,
pp. 23 e ss., citato da Bengoa J., op.cit. p. 208.