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Introduzione
Con “alternativa al carcere” ci riferiamo ad una risposta sanzionatoria ben
diversa per contenuto e struttura dalla pena detentiva e che risponde alla speci-
fica esigenza di rieducazione del soggetto. Le origini delle misure alternative
alla detenzione, così come vedremo nel I capitolo, hanno trovano attuazione
dopo un lungo periodo in cui si pensava che il reo fosse non solo pericoloso,
ma diverso e che, pertanto, il suo isolamento fosse necessario per il bene della
società.
Le scienze sociali e umane sono indispensabili nell’analisi della pena, in
quanto essa è un fenomeno sociale: la società non solo subisce il reato, ma è
anche un collante sociale (Durkheim, 1983). Se la politica penale manipola il
senso comune di portando a credere che chi sbaglia deve essere punito, non so-
lo la comunità automaticamente lascerà al margine il soggetto, ma farà un torto
anche a se stessa. Preoccuparsi esclusivamente della punizione del soggetto,
infatti, significherebbe trattare soltanto un aspetto della pena. E’ necessario
fornire al soggetto un percorso di rieducazione che lo porti a comprendere il
perché del fatto compiuto e, soprattutto, che lo conduca a non commetterlo
più.
Non è difficile rendersi conto che una mera detenzione non basta per rag-
giungere questi obiettivi e che il condimento della persona dietro le sbarre, so-
spendendo ogni suo diritto umano, invece che portarla verso un percorso di ri-
flessione, va ad incrementare il suo comportamento criminoso, facendola rica-
dere nel fenomeno della recidiva. L’evoluzione storica del sistema giuridico
penale è stata lenta e piena di lacune, ancora oggi parte della legislazione
avrebbe bisogno di essere rivista per non sottometterla ad un’eccessiva discre-
zionalità del giudice o che non si risolva in mera burocrazia.
Per delineare il quadro complesso delle misure alternative alla detenzione è
importante, dunque, partire da un’analisi sociologica del concetto di pena: per
fare ciò mi sono ispirata in particolare a Durkheim, il quale, come vedremo nel
II capitolo, ha fornito un legame tra reato e coscienza collettiva; poi a Rusche e
Kirchheimer, che hanno messo in evidenza la natura storico-sociale della pena,
in quanto frutto di trasformazioni storiche; poi a Foucault, che con le sue ope-
re, ha fornito una visione teorica della criminologia e degli sviluppi che si sono
verificati nel corso del XIX secolo. Questi sociologi - insieme ad altri citati
sempre nel II capitolo - mirano all’abolizione di una politica penale che porti
all’emarginazione del condannato, suggerendo una concezione di pena che
esula da ogni tipo di stereotipo.
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Le maggiori innovazioni del sistema penale italiano si sono avute nel XX
secolo, in seguito alla Riforma penitenziaria del 1975, la quale ha portato verso
un’ottica di rieducazione del condannato, in ossequio a quanto voluto dalla no-
stra Costituzione (art. 27) e ciò, di conseguenza, ha favorito la nascita delle
misure alternative alla detenzione, come ad esempio l’affidamento in prova ai
servizi sociali. Ma ciò che sicuramente ha influito particolarmente è stato il di-
ritto internazionale che non solo ha spinto il Legislatore del 1988 ad innovare
il diritto penale minorile con l’introduzione del probation, ma ha anche dato la
possibilità di introdurre in tale ambito professionisti, quali educatori e assisten-
ti sociali, capaci di elaborare un trattamento individualizzato per il condannato.
Il ruolo dell’assistente sociale, ad esempio, oggi è diventato fondamentale nel-
le misure alternative alla detenzione sia nel momento precedente alla loro con-
cessione, sia durante in quanto assurge ad una funzione di sorveglianza-
sostegno.
Dagli anni Novanta fino ad oggi abbiamo assistito ad una continua solleci-
tazione del rispetto dei diritti fondamentali, basti pensare alle diverse condanne
ricevute dall’Italia per il trattamento disumano presente in carcere (vedi sen-
tenza Torregiani), fino a giungere, nel 2014, all’introduzione del probation per
l’imputato adulto, istituto nato sia per ragioni deflattive sia per consentire
all’imputato di non entrare nel circuito penale giudiziario.
In questa trattazione, dunque, attraverso un lungo excursus storico che dal
XX secolo ci porta fino ad oggi, provo a ricostruire la nascita delle misure al-
ternative, suggerendo una posizione di favore per la misura della messa prova,
sia perché può essere richiesta sin dalle indagini preliminari, sia perché crea un
legame tra reo e territorio, sia perché il suo esito positivo estingue il reato. Tut-
tavia, mi rendo conto che non è possibile valutarne gli aspetti positivi senza te-
nere in considerazione i vuoti lasciati dal Legislatore del 2014 e le lacune di
applicazione che ancora ad oggi mettono in difficoltà la vera efficienza
dell’istituto: faccio riferimento in primis alla carenza di risorse economiche e
territoriali, alle condizioni di sottorganico in cui lavorano gli operatori sociali e
al conseguente sovraccarico di lavoro che non consente una vera e propria in-
dividualizzazione del programma di trattamento.
La mia curiosità verso quest’ambito, nata da un pensiero critico verso la de-
tenzione e dall’esperienza di tirocinio svolta presso l’Ufficio di Esecuzione
Penale Esterna di Messina, mi hanno spinto a chiedermi se le condizioni reali
in cui versa il servizio sociale nel sistema penitenziario non dovrebbero essere
migliorate per apportare una maggiore efficienza nel sistema delle misure al-
ternative e, soprattutto, come ogni assistente sociale vive questa condizione di
disagio. Per ottenere maggiori risposte ho svolto una ricerca quantitativa sulle
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attività e le funzioni del servizio sociale nel settore penitenziario tramite un
questionario somministrato ad un campione casuale a livello nazionale.
Il lavoro svolto mi ha dato la possibilità di comprendere che la vera riforma
penitenziaria alla quale dovremmo auspicare dovrebbe essere un lavoro di
cooperazione tra politica penale e politica sociale che non si limiti ad una bu-
rocratizzazione del sistema di trattamento, ma che guardi alla complessità della
persona.
Non volendo anticipare troppo, invito a leggere la trattazione con l’occhio
critico di chi, cimentandosi nel mondo del lavoro sociale, ha provato a cogliere
nella legislazione attuale l’intento di rispondere all’esigenze umane senza, pe-
rò, fornire gli strumenti adeguati a farlo.
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I Capitolo
La cultura della pena e le origini della giustizia alternativa
Sommario: 1.1 Le principali concezioni sociologiche della pena; 1.2 Il contri-
buto di Foucault; 1.3 Pericolosità e devianza; 1.4 Oltre la logica del sorve-
gliare e punire: la nascita delle misure alternative; 1.5 L’affidamento in prova
al servizio sociale;1.6 Genesi e ratio dell’istituto della messa alla prova.
1.1 Le principali concezioni sociologiche della pena
La nozione sociologica di pena tiene conto della sua natura afflittiva, re-
pressiva ed espressiva: la prima concerne una limitazione dei diritti del reo in
termini di soddisfacimento dei bisogni; la seconda è volta a far emergere un
nesso tra l’atto commesso e il reo; la terza mette in luce la dimensione simbo-
lica della relazione esistente tra il soggetto e l’autorità che decide.
Ciò che principalmente distingue l’approccio sociologico da quello filosofi-
co si riscontra nei quesiti che queste discipline si pongono: nel primo caso la
pena è indagata come un fenomeno sociale, nel secondo l’oggetto è dato dal
“dover essere” della condanna e avremo, dunque, prescrizioni o giustificazioni
connesse a determinate convinzioni sociali/valoriali, al fine di soddisfare
un’idea di giustizia meramente vendicativa. (Pavarini, 1996)
Se la sociologia vuole fornire un proprio contributo alle modalità di inter-
vento penale, non può limitarsi alla sola analisi della criminalità sia perché le
azioni intraprese in ambito penale sono il risultato di mediazioni di tipo politi-
co-economico, sia perché la pena è il prodotto storico-culturale di una società e
certamente risente dell’influenza di un determinato sistema politico-giuridico.
In sociologia, Durkheim è sicuramente colui che ha offerto una migliore in-
terpretazione della pena: nella visione durkheimiana, essa non è pensata solo in
termini di controllo della criminalità, ma ne viene mostrata la dimensione mo-
rale per la sua funzione di collante sociale.
Nell’opera “La divisione del lavoro sociale” abbiamo una relazione tra rea-
to e coscienza collettiva
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, in quanto il reato presuppone una condotta che in-
frange i valori fondanti di un gruppo sociale, tanto da rendere necessaria una
risposta punitiva.
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Con coscienza collettiva Durkheim intende l’insieme delle credenze e dei sentimenti comuni alla media dei
membri della stessa società.
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“In altri termini non bisogna dire che un atto urta la coscienza comune per-
ché è criminale, ma che è criminale perché urta la coscienza comune”. (Dur-
kheim, 1983)
Il reato, dunque, determina la pena direttamente dalla risposta che si ottiene
scuotendo i sentimenti collettivi. L’aspetto principale del pensiero di Dur-
kheim si riscontra nell’esistenza di un insieme di sentimenti condivisi come
condizione che accomuna ogni tipo di organizzazione sociale; mentre trova un
suo limite nella trascuratezza del grado di conflittualità che caratterizza inevi-
tabilmente qualsiasi tipo di società, infatti “sarebbe più appropriato parlare di
moralità dominante o di ordine morale dominante, che non di coscienza collet-
tiva”. (Garland, 1991, p. 133).
Il merito fondamentale della teoria durkheimiana, dunque, è quello di aver
promosso una lettura solidaristica dei fenomeni penali.
Un ulteriore contributo nella sociologia della pena, è stato dato George Ru-
sche e Otto Kirchheimer con “Pena e struttura sociale”.
Nell’opera il concetto di pena ruota intorno alla sua storicità, in quanto essa
non viene intesa come un’entità universale, ma come il prodotto di trasforma-
zioni storiche, intendendo per tali i mezzi di produzione. In particolare, gli au-
tori collegano le politiche penali con quelle sociali: le prime, infatti, consistono
in uno strumento proprio di controllo che si rafforza attraverso gli interessi
economici delle classi dominanti. Essi hanno, dunque, messo in evidenza che è
attraverso il mercato del lavoro che si verifica la variazione delle modalità pu-
nitive: quando nel mercato del lavoro la forza-lavoro è scarsa il suo valore au-
menta, la politica penale avrà interesse a preservare i soggetti puniti al fine di
destinarli al lavoro coatto; quando, invece, la forza-lavoro è elevata, non es-
sendovi alcun interesse in gioco, la politica penale non interviene. Il fulcro di
questo ragionamento si riscontra nella teoria della less eligibility, in base alla
quale “la situazione dei beneficiari dell’assistenza pubblica è meno desiderabi-
le della situazione del lavoratore libero dello strato più basso”.
Gli autori all’interno dell’opera analizzando il Novecento, si rendono conto
che il costante miglioramento delle condizioni di vita, comporta la diffusione
di tipologie di punizione del tutto nuove, quali la probation, l’ammenda e la
diversion. Con ciò sottolineano che le politiche penali non sono influenzate dal
tasso di criminalità di un determinato periodo storico, ma da fattori di natura
economica.
Rieducazione significa educazione ad un sistema di vita ordinata attraverso
una regolare attività lavorativa e quindi questo concetto si fonda sul presuppo-
sto che il modello comportamentale appreso in carcere dia al detenuto