Capitolo 1 "Aspetti clinici e storici della dialisi" 2
A seconda della patologia, viene effettuato un numero variabile di sedute, da uno a
tre o più alla settimana, in cui normalmente la durata di ciascun trattamento è compresa tra
le tre e le cinque ore. La terapia dialitica, per la modalità e la frequenza con cui è effettuata
nei casi di insufficienza renale cronica, causa a lungo andare sul paziente un numero di
inconvenienti, più o meno gravi, che si possono manifestare durante le sedute oppure
possono affliggere costantemente il paziente.
1.2 Problemi clinici comuni durante l'emodialisi [1]
Nonostante i notevoli progressi tecnologici che hanno migliorato la sicurezza del
trattamento dialitico, l'intervento non è mai privo di rischio e spesso è altamente
traumatico. In questo paragrafo saranno descritti i problemi più frequenti che si
manifestano come conseguenza della terapia dialitica.
1.2.1 Ipotensione
I liquidi in eccesso, che in condizioni normali sono espulsi dai reni sotto forma di
urina, vengono eliminati per ultrafiltrazione durante l'emodialisi. L'eliminazione di liquido
comporta un aumento della pressione oncotica nel sangue ed il conseguente richiamo di
liquido dallo spazio interstiziale (fenomeno definito "plasma refilling") il quale, a sua
volta, è riempito da liquido proveniente dallo spazio intracellulare. L'entità della
diminuzione del volume intravascolare influenza la gittata cardiaca tramite i suoi effetti sul
riempimento cardiaco. La riduzione del volume intravascolare stimola in via riflessa la
scarica del sistema simpatico, mitigando in tal modo l'ipotensione mediante aumento della
frequenza cardiaca e favorendo la vasocostrizione arteriosa.
Un'eccessiva ultrafiltrazione con inadeguato riempimento vascolare, unitamente ad
alterazioni delle risposte vasoattive o simpatiche e della riserva cardiaca, svolge un ruolo
fondamentale nell'ipotensione indotta dalla dialisi.
1.2.2 Crampi
I crampi muscolari indotti dall'emodialisi sono presumibilmente in relazione con le
variazioni della perfusione muscolare che avvengono in risposta all'ultrafiltrazione durante
la dialisi. Oltre agli effetti di riduzione del volume intravascolare sulla perfusione degli
arti, le risposte vasocostrittive compensatorie possono far passare il sangue centralmente
come "shunt" durante il trattamento e potrebbero svolgere un ruolo nel favorire i crampi
muscolari.
31.2.3 Reazioni febbrili
Le reazioni febbrili durante il corso del trattamento possono essere in relazione con
l'esposizione alle endotossine che provengono dal dializzatore o dal dialisato. Gli attacchi
di febbre che avvengono poco dopo il trattamento sono in genere tipiche di infiammazioni
sistemiche, ma il fenomeno potrebbe essere in relazione con l'eliminazione di sostanze
antipiretiche per effetto della dialisi.
1.2.4 Sindromi da primo impiego
Il termine di "sindrome da primo impiego" si riferisce a due condizioni cliniche: una
reazione di ipersensibilità immediata (che si nota in particolare con membrane di
cuprophan) che può manifestarsi con gravità variabile da un lieve malessere a un vero e
proprio shock anafilattico, e un complesso di sintomi di dolore aspecifico al torace e alla
schiena, con livelli variabili di nausea, prurito e vago malessere che si verificano
tipicamente nella prima mezz'ora di trattamento.
La biocompatibilità delle membrane semipermeabili utilizzate svolge un ruolo
importante nello scatenare i sintomi. Le membrane che provocano la minima attivazione
del complemento e produzione di citochine hanno la minima incidenza di sindromi da
primo impiego. Le membrane sintetiche, come quelle in polisolfone, in poliacrilonitrile e
in polimetilmetacrilato, producono minori sintomi da primo impiego rispetto alle
membrane di cellulosa.
1.2.5 Aritmie cardiache
I pazienti in emodialisi sono esposti al rischio di aritmia cardiaca per molte ragioni.
Le aritmie si possono manifestare prevalentemente durante il trattamento dialitico ma
anche nel periodo interdialitico. Malattie cardiovascolari ischemiche, ipertensive o
patologie come la pericardite sono frequentemente alla base di aritmie costanti o ricorrenti.
I pazienti con cardiopatia ischemica sono esposti al massimo rischio di aritmia, poiché
l'emodialisi è associata a fattori che possono aumentare il consumo di ossigeno del
miocardio (ad es. tachicardia) e contemporaneamente limitare l'apporto di ossigeno al
miocardio (ad es. ipossiemia, aumentata affinità dell'emoglobina per l'ossigeno,
ipotensione e tachicardia). I farmaci, in particolare la digitale, sono un'altra causa
importante di disturbo del ritmo cardiaco, in grado di provocare scompensi più seri di
quelli per cui erano stati somministrati originariamente. Infine, possono essere cause di
Capitolo 1 "Aspetti clinici e storici della dialisi" 4
aritmia alterazioni acute o croniche del bilancio dei liquidi, degli elettroliti e dell'omeostasi
acido-base.
1.2.6 Emolisi
Le cause dell'emolisi nei pazienti in dialisi sono diverse. Oltre a fattori specifici
relativi al paziente, l'uso di particolari medicinali e l'erogazione di una quantità di dialisi
insufficiente possono essere motivo di rottura dei globuli rossi. I medicinali possono
indurre emolisi mediante meccanismi immunologici oppure a causa di ipersensibilità ai
farmaci da parte dei pazienti. Il National Cooperative Dialysis Study (di cui parleremo
estesamente più avanti nel capitolo) ha messo invece in evidenza come i pazienti con
uremia grave mostrino quasi sempre segni di emolisi. Nei gruppi 2 e 4 dello studio (quelli
con livelli più elevati di azotemia prima della dialisi a metà settimana, trattati quindi con
una minore dose di dialisi), l'ematocrito è risultato significativamente inferiore rispetto ai
gruppi 1 e 3, sottoposti a un trattamento di emodialisi più intenso.
Apparecchiature e procedimenti di dialisi difettosi contribuiscono al fenomeno (uso
della formaldeide nella pulizia di dializzatori destinati al reimpiego, oppure
sovrariscaldamento e ipoosmolarità
2
del dialisato, ossia presenza di un numero
insufficiente di elettroliti nel bagno di dialisi). Più sovente, l'emolisi nei pazienti in dialisi è
provocata da metalli o da altre sostanze che contaminano l'acqua usata per comporre il
dialisato.
1.2.7 Ipossiemia da dialisi
Una caduta della pressione parziale dell'ossigeno nel sangue arterioso è una
complicanza frequente dell'emodialisi. L'ipossiemia si verifica nel 90 % dei pazienti,
risolvendosi entro 60-120 minuti dopo la sospensione del trattamento. Anche se una tipica
caduta della PO
2
arteriosa è pari all'85 % del valore predialitico, questo modesto grado di
ipossiemia può provocare una significativa morbilità in pazienti con stato cardiopolmonare
precedentemente compromesso e può generare ipotensione, nausea e crampi muscolari in
molti altri pazienti nel periodo interdialitico. Il fenomeno è frequente ma l'eziologia non è
ancora chiara: probabilmente le concause sono l'interazione tra sangue e membrana del
2
Per esprimere le proprietà osmotiche dei liquidi corporei, si usa generalmente il concetto di osmolarità. L'osmolarità di una soluzione è
la sua concentrazione molare (M= moli soluto/litro soluzione) riferita a tutte le particelle di soluto, ioni e molecole, che possono avere
effetto sull'osmosi.
5dializzatore (con l'attivazione del complemento e il successivo sequestro polmonare
temporaneo dei globuli bianchi) e la composizione del dialisato.
1.2.8 Amiloidosi da dialisi
L'amiloidosi è una patologia caratterizzata da accumulo di quantità più o meno
abbondanti di una sostanza, chiamata amiloide, così detta per la sua struttura simile ai
granuli dell'amido e in effetti contenente amido e proteine. Il principale costituente dei
depositi di amiloide, isolato in pazienti con malattie ossee o articolari, è la ß2-
microglobulina (ß2-M), e il livello sierico della ß2-M risulta significativamente alto in
quasi tutti i pazienti in emodialisi. L'ipotesi più probabile è che la membrana dialitica
svolga un ruolo importante nella genesi dell'amiloidosi da dialisi. Le membrane di
cuprophan e di acetato di cellulosa stimolano l'attivazione del complemento e la
produzione di interleuchina che sono responsabili dell'aumento della produzione di ß2-M
durante la dialisi. La ß2-M viene eliminata da membrane biocompatibili a elevata porosità,
normalmente utilizzate nella dialisi ad alto flusso (membrane di polisolfone e PMMA), ma
la produzione giornaliera della sostanza supera la quantità rimossa con la dialisi e non si
hanno progressive diminuzioni dei livelli predialitici di ß2-M. La manifestazione clinica
più evidente, solitamente la prima a comparire nell'amiloidosi associata alla terapia
dialitica, è la sindrome del tunnel carpale. Altre manifestazioni cliniche spesso presenti
sono dolore alle articolazioni medio-grandi (spalla, ginocchio, gomito e anca), rigidità
articolare, gonfiore dei tessuti molli e versamento. E' da notare che esiste un rapporto
diretto tra deposito di ß2-M nella pelle e tempo trascorso in dialisi.
1.3 L'approccio alla sindrome uremica ieri e oggi [2,3]
Il termine uremia definisce propriamente lo stato di intossicazione dovuto ad
accumulo di forti quantità di urea
3
nel sangue. Più estesamente, è possibile associare i
termini uremia o sindrome uremica all'insieme delle sintomatologie che caratterizzano il
manifestarsi dell'insufficienza renale cronica. Gli effetti più importanti di questa patologia
sono:
edema generalizzato dovuto alla ritenzione di acqua e sale;
acidosi dovuta all'incapacità dei reni di liberare l'organismo dalle scorie
acide;
3
L'urea (PM= 60,1) è una sostanza che rappresenta il prodotto terminale del metabolismo proteico. Si forma nel fegato e viene eliminata
dai reni. I valori dell'urea nel sangue (azotemia) del soggetto normale sono compresi tra 10 e 20 mg/dl e aumentano fisiologicamente in
rapporto all'età, all'attività fisica, alla dieta ricca di proteine. Un aumento patologico dell'urea è spesso indice di malattie renali.
Capitolo 1 "Aspetti clinici e storici della dialisi" 6
elevata concentrazione di sostanze azotate non proteiche (specialmente
urea, creatinina e acido urico) dovuta all'incapacità dell'organismo di
liberarsi dei prodotti terminali del metabolismo delle proteine;
elevata concentrazione di altri prodotti di ritenzione urinaria, tra cui fenoli,
basi guanidiche, solfati, fosfati e potassio;
anemia, principalmente in dipendenza dal fatto che i reni secernono
normalmente l'eritropoietina, un ormone glicoproteico che stimola il
midollo osseo a produrre i globuli rossi e che nei soggetti normali si forma
per l'80-90 % nei reni;
osteomalacia, una condizione caratterizzata dal riassorbimento parziale
delle ossa e un conseguente indebolimento delle stesse.
Se non si interviene con il trattamento dialitico, il coma uremico è una possibile
grave conseguenza dell'insufficienza renale.
1.3.1 Gli albori della terapia dialitica
Prima dell'inizio degli anni '40, i pazienti che sviluppavano un'insufficienza renale in
fase terminale erano destinati tutti, tranne poche eccezioni, alla morte entro alcuni giorni o
al massimo dopo qualche settimana. Da allora, l'introduzione dell'emodialisi (per opera
dell’olandese Willem Kolff, a metà degli anni ‘40), della dialisi peritoneale (fine anni '70)
e del trapianto di rene hanno permesso a questi pazienti di sopravvivere, a volte per anni,
permettendo la terapia di sostituzione in una grande popolazione di pazienti con nefropatia
terminale. Il trattamento di emodialisi cronica intermittente su lungo periodo, per pazienti
con insufficienza renale all'ultimo stadio (o ESRD, dal termine inglese end-stage renal
disease), nasce nel 1960 all'Università di Washington, dopo lo sviluppo da parte di
Quinton e Scribner di uno shunt esterno in grado di garantire un accesso vascolare ripetuto,
unito alla tecnologia evolutasi negli anni precedenti per la cura delle insufficienze renali
acute.
Quando l'emodialisi fu introdotta per il trattamento dell'ESRD, l'approccio al
paziente consisteva nella logica estensione della pratica clinica nell'era predialitica. I
medici seguivano con attenzione le concentrazioni di azoto ureico e creatinina
4
nel sangue,
osservando i pazienti alla ricerca dei sintomi dell'uremia e pronti a intervenire con
4
La creatinina (PM = 113.1) è presente nel soggetto normale in concentrazioni comprese tra 0.5 e 1.2 mg/dl. La sua formazione avviene
a livello muscolare in presenza di eccesso di creatina, che viene trasformato nella sua anidride ed eliminato attraverso i reni. Dal
momento che si tratta di una sostanza solo filtrata e non riassorbita a livello renale, la misura della sua clearance viene usata come indice
di filtrazione glomerulare.
7eventuali restrizioni proteiche nella dieta. Con alcune riserve, la creatinina rappresentava
un indicatore più affidabile dell'urea per la funzione renale residua (filtrazione
glomerulare), mentre l'urea era ritenuta più indicata per valutare l'accumulo delle tossine
uremiche al diminuire della funzione escretoria dei reni. Sebbene questi medici prestassero
molta più attenzione al controllo dietetico di quanto si faccia al giorno d'oggi, l'entità del
BUN (blood urea nitrogen, ossia azoto ureico) era normalmente ignorata a meno che non
concordasse con una certa gravità clinica dell'uremia.
I pionieri della terapia dialitica rimasero così impressionati dalla benefica azione di
sostenimento alle funzioni vitali esercitata dal dializzatore, che cominciarono a riferirsi ad
esso con il termine "rene artificiale". In realtà, il termine rene artificiale è quanto di più
improprio possa esistere per definire un dializzatore: il dializzatore infatti non ripristina le
funzioni di selezione e rimozione dei soluti possedute del rene originale, né è in grado di
rispondere alle variazioni del volume dei liquidi nel paziente. Il dializzatore si sostituisce
semplicemente al rene, svolgendo nell'arco di poche ore un controllo e un'azione di filtro
per i soluti e i liquidi corporei che, in condizioni normali, i reni compiono senza
interruzioni nel tempo e senza una sensibile oscillazione dei valori delle concentrazioni
medie di quegli stessi soluti.
Questo approccio, seppur altamente traumatico, ha comunque consentito la
sopravvivenza e una certa dose di benessere a centinaia di migliaia di persone negli ultimi
quarant'anni, la cui unica alternativa sarebbe stata un'inesorabile sottomissione ai sintomi
uremici.
Le osservazioni sopra compiute dovrebbero portare alla conclusione che le tossine
responsabili della sindrome uremica possano essere rimosse con successo mediante la
diffusione di soluti attraverso una membrana semipermeabile. Le prime membrane
utilizzate erano ottenute dalla semplice cellulosa (cellophane) ed escludevano il passaggio
di molecole di dimensioni superiori ai 10000 dalton
5
. Questo fatto contribuì a identificare
nell'accumulo di tossine di peso molecolare relativamente basso il principale pericolo per il
sostenimento delle funzioni vitali.
1.3.2 La dialisi prima del National Cooperative Dialysis Study
Fino ai primi anni '70, la reazione del corpo al trattamento dialitico rappresentò il
maggiore ostacolo alla quantità di dialisi che poteva essere erogata al paziente. Spesso la
5
Un dalton corrisponde a una unità di massa atomica, che corrisponde a 1.66x10
-24
grammi. Peso atomico è il termine più comunemente
usato dagli operatori scientifici per indicare la massa atomica di un elemento.
Capitolo 1 "Aspetti clinici e storici della dialisi" 8
seduta doveva essere interrotta prematuramente a causa di una reazione fisica avversa.
L'accumulo di fluidi tra due sedute consecutive e la conseguente ipotensione durante il
trattamento, insieme all'intolleranza all'acetato, richiedevano più attenzione dell'esigenza di
fornire a ogni paziente una dialisi che si potesse considerare "adeguata".
Queste reazioni ostili al trattamento dialitico contribuirono probabilmente
all'opinione che la dialisi fosse una terapia dalle potenzialità limitata che non poteva essere
migliorata aumentando le portate di sangue o del dialisato. Inoltre, diversi tentativi di
erogare in questo modo una maggiore quantità di dialisi condussero spesso all'insuccesso
per l'insorgenza di ipotensione, crampi e nausea durante la seduta e sintomi di spossatezza
che di norma seguivano il trattamento.
Da questi fallimenti, gli studiosi di cinetica dei soluti conclusero che le tossine
responsabili della sindrome uremica dovessero essere di dimensioni considerevolmente
maggiori dell'urea, quindi con una capacità limitata di diffondere attraverso le classiche
membrane di cellulosa. Altre evidenze diedero ulteriore supporto a questa ipotesi che prese
il nome di "Teoria delle Medie Molecole". I produttori di membrane per dialisi si
concentrarono sulla produzione di membrane con maggiore superficie di scambio, più
sottili e più permeabili ai composti con peso molecolare compreso tra 500 e 5000 (mentre
l'urea ha peso molecolare pari a 60). In ogni caso, la Teoria delle Medie Molecole non è
mai stata definitivamente confermata e nessuna delle cosiddette medie molecole è mai stata
individuata con assoluta precisione. Nel paragrafo 1.6 si avrà modo di esaminare più da
vicino, alla luce degli ultimi sviluppi, la Teoria delle Medie Molecole.
1.3.3 Il National Cooperative Dialysis Study (NCDS)
Il punto di svolta nell'approccio alla terapia dialitica è costituito dal National
Cooperative Dialysis Study, una commissione di studio istituita a metà degli anni '70 dal
National Institute of Health (NIH) statunitense. Scopo della commissione era quello di
verificare l'impatto delle medie molecole sugli esiti clinici dei pazienti sottoposti a dialisi,
esaminando allo stesso tempo i livelli di urea e creatinina nel siero come indici della
severità dell'uremia.
Lo studio compiuto dal NCDS fu progettato per confrontare le risultanze cliniche di
pazienti in cui era massimizzata la rimozione di soluti a basso peso molecolare con quelle
9di pazienti in cui era invece massimizzata la clearance
6
delle specie molecolari di media
grandezza. Poiché queste erano sostanze ipotetiche che, di conseguenza, non potevano
essere quantificate, la loro clearance sarebbe stata aumentata prolungando il tempo di
dialisi, mentre la rimozione dell'urea e degli altri piccoli soluti sarebbe stata favorita
incrementando le portate di sangue e dialisato con lo scopo di abbassare il livello del BUN.
La matrice delle possibili combinazioni di questi due diversi approcci fu completata
distribuendo casualmente 160 pazienti in una delle quattro possibili aree di trattamento,
indicate nella Figura 1.
Dopo 6 mesi di trattamento, lo studio pose in risalto le migliori condizioni fisiche dei
pazienti trattati con un basso valore del BUN, giudizio formulato sulla base dei tassi di
ospedalizzazione e degli abbandoni dalla terapia dialitica. I pazienti con BUN elevato
presentavano un maggiore tasso di insuccesso della terapia e anche, come fu poi rilevato da
approfondimenti ulteriori, un maggiore tasso di mortalità.
110-130
(mg/dl)
GRUPPO IV
GRUPPO II
(BUN alto)
BUN predialisi a
metà settimana
60-80
(mg/dl)
GRUPPO III
(tempo ridotto)
GRUPPO I
(terapia di controllo)
2.5-3.5 ORE 4.5-5 ORE
Assunzione proteica
tra 0.8 e 1.4 g/kg/giorno
Tempo di dialisi
Figura 1 Approccio sperimentale del National Cooperative Dialysis Study.
Il messaggio apparve abbastanza chiaro: la clearance delle medie molecole aveva un
impatto trascurabile sulla morbilità rispetto alla clearance dei piccoli soluti come l'urea.
L'importanza della rimozione delle medie molecole rimane a tutt'oggi un aspetto
controverso. Il tempo di dialisi, parametro con cui il NCDS aveva cercato di conseguire
una maggiore rimozione delle medie molecole (infatti, molecole più grandi richiedono un
tempo maggiore per essere dializzate), era risultato una variabile di significatività statistica
marginale come determinante degli esiti clinici dei pazienti in dialisi. La rimozione di
composti di peso molecolare compreso tra 200 e 2000 dalton, alcuni dei quali si
6
Questo termine si usa per indicare la capacità che i reni possiedono di depurare il plasma da varie sostanze. La clearance rappresenta il
volume di plasma depurato in un minuto dai reni relativamente a una certa sostanza. Le clearance fisiologiche di urea e creatinina sono
rispettivamente 70 ml/min e 140 ml/min.
Capitolo 1 "Aspetti clinici e storici della dialisi" 10
accumulano ad alti livelli nel corpo e sono scarsamente eliminati dalla dialisi
convenzionale (ad es. piccoli peptidi, poliammine e alcune ammine aromatiche), può
rivestire una certa importanza soprattutto nell'alleviare la cosiddetta "sindrome residua",
ossia quel malessere diffuso e invalidante che colpisce i pazienti in dialisi nonostante
l'eliminazione di quei soluti che rappresentano un chiaro pericolo per la loro immediata
sopravvivenza. Sicuramente studi futuri dovranno fare più luce sul contributo di queste
tossine di media grandezza alla morbilità a lungo termine della terapia dialitica.
Ciò che il NCDS stabilì fermamente fu l'importanza schiacciante della clearance
delle piccole molecole nella determinazione dei risultati della terapia dialitica, migliori in
presenza di un basso livello di azoto ureico nel sangue. Da quel momento, l'urea sarebbe
servita come indicatore per tutte le tossine uremiche responsabili della degenerazione dello
stato di salute dei pazienti in dialisi.
1.3.4 Protocollo e conclusioni del NCDS
Il NCDS rilevò anche che esiti clinici non soddisfacenti risultavano legati a un basso
tasso di catabolismo proteico (identificato dall'indice PCR, o protein catabolic rate, di cui
si avrà modo di parlare per esteso nel seguito). L'evidente effetto avverso conseguente a un
basso valore del PCR risultava sorprendente sulla base della consolidata convinzione che la
restrizione proteica, praticata nell'era precedente all'affermazione della terapia dialitica,
fosse in grado di garantire una migliore sopravvivenza. La logica estensione di questo
ragionamento era che una minore assunzione proteica implicasse un minore bisogno di
dialisi.
L'enfasi posta sull'accumulo di urea non aveva mai fatto distinzione tra i due diversi
modi di contenere l'azoto ureico nel sangue, ossia riducendo l'introduzione di proteine
oppure aumentando la dialisi erogata. Il National Cooperative Dialysis Study suggeriva
invece che non era sufficiente abbassare con l'emodialisi i livelli del BUN, ma che grande
importanza risiedeva anche nella modalità con cui questa riduzione era conseguita.
Confrontata con l'azione della dialisi, la riduzione di BUN ottenuta con la restrizione
dell'assunzione proteica attraverso la dieta (spesso associata con una ridotta assunzione
calorica) produceva un incremento nel tasso di insuccesso della terapia. La correlazione tra
bassi valori di PCR ed esiti clinici negativi era assai forte: il PCR risultava il secondo
indicatore più significativo di insuccesso della terapia, il primo essendo la concentrazione
media di urea nel sangue.
In seguito a un'ulteriore analisi meccanicistica dei dati dello studio, il NCDS
identificò una base più semplice e logica su cui fondare il trattamento, un nuovo concetto
11
che servisse a indicare in modo univoco la quantità di dialisi fornita al paziente: tutti i
pazienti sarebbero stati trattati con lo stesso valore di Kt/V
7
, o clearance frazionale (indice
adimensionale della dose di dialisi che sarà oggetto del prossimo capitolo), per tre volte la
settimana indipendentemente dal valore del BUN. Infatti, i risultati dello studio erano
lampanti: quando il valore di Kt/V scendeva sotto il valore di 0.9/dialisi, il tasso di
insuccesso della terapia subiva un netto incremento. Questo diede ai medici un obiettivo
terapeutico semplice (ossia, garantire ai pazienti un Kt/V=1 per ogni seduta) e un metodo
non solo per prescrivere la dialisi, ma anche per giudicare i risultati di quella stessa
prescrizione.
A vent'anni di distanza dalla definizione di Kt/V, bisogna rilevare che, nonostante il
NCDS abbia messo in evidenza un forte legame tra concentrazione media del BUN e
morbilità, la chiave per un approccio vincente alla terapia risiede nell'ignorare i livelli
assoluti del BUN per concentrarsi sulle variazioni del BUN indotte dall'azione del
dializzatore, ossia sul valore di Kt/V.
A questo punto vale la pena ricordare il protocollo utilizzato dal National
Cooperative Dialysis Study, rappresentato schematicamente in Figura 2.
Le variabili controllate erano il BUN e il tempo di dialisi. Il controllo della
concentrazione media dell'azoto ureico era ottenuto regolando la clearance del dializzatore,
operazione eseguita dallo staff medico in risposta a fluttuazioni del BUN dovute a
cambiamenti spontanei nel PCR, ossia nell'assunzione proteica. Come già sottolineato, gli
esiti clinici mostrarono una forte correlazione con i livelli dell'azoto ureico nel sangue.
Figura 2 Rappresentazione grafica del protocollo NCDS. Le variabili di controllo sono evidenziate in blu. I
segni posizionati a cavallo delle frecce rappresentano correlazione positiva o negativa tra le voci.
7
Con K si intende la clearance del dializzatore, con t il tempo di dialisi e con V il volume di distribuzione dell'urea.
BUN
(50 vs. 100 mg/dl)
Morbilità
Mortalità
+ +
Staff medico
+
Tempo di dialisi
(3.0 vs. 4.5 ore)
Assunzione proteica
(non controllata)
+ -
Capitolo 1 "Aspetti clinici e storici della dialisi" 12
Analizzata in retrospettiva, l'impostazione del NCDS può aver dato origine in alcuni
casi a un circolo vizioso che allora non poté essere identificato.
Figura 3 Interpretazione attuale delle cause e delle conseguenze delle fluttuazioni nel valore medio del BUN.
I segni posizionati a cavallo delle frecce rappresentano correlazione positiva o negativa tra le voci. La freccia
rossa in alto a destra indica il punto di genesi del possibile circolo vizioso (vedi testo per ulteriori
spiegazioni).
La Figura 3 mette in evidenza la complessa natura del BUN, includendo fattori
correlati e non correlati con l'uremia che influiscono sul valore dell'azoto ureico e
contemporaneamente contribuiscono a peggiorare lo stato di salute del paziente. Inoltre, è
possibile individuare l'insorgenza di un potenziale circolo vizioso, generato dalla
prescrizione del nefrologo in reazione ai valori assunti dal BUN. Se questi calano, il
medico potrebbe infatti ridurre la dose di dialisi, sulla base di un minore bisogno da parte
del paziente per effetto della riduzione del valore medio del BUN. Questa singola
decisione mette in moto un meccanismo perverso che conduce a un calo dell'appetito e
quindi, in ultima analisi, a un'ulteriore riduzione del BUN e della conseguente dose di
dialisi prescritta.
Il segreto per spezzare questo circolo vizioso è slegare la prescrizione dai valori del
BUN: ossia, non importa tanto focalizzarsi sui livelli assoluti del BUN predialisi, quanto
piuttosto assicurarsi che ogni paziente riceva una dose di dialisi (Kt/V) sufficiente. Questo
approccio è giustificato ancor più dal fatto che ogni concentrazione sanguigna è il risultato
Altre malattie
BUN
(50 vs. 100 mg/dl)
Morbilità
Mortalità
+ + Staff medico
+
Tempo di dialisi
(3.0 vs. 4.5 ore)
Assunzione proteica
(non controllata)
+ -
Altre tossine
--
Albumina
-
+
+
-
-
13
del rapporto tra tasso di produzione netto e tasso di rimozione di un certo soluto: per
esempio, il livello di creatinina può rimanere costante al diminuire della rimozione se
diminuisce contemporaneamente la massa muscolare. In modo del tutto simile, i livelli di
urea nel sangue possono restare invariati in presenza di una dialisi ridotta se diminuisce
l’assunzione proteica [4]. E' necessario tenere ben presente il pericolo che si corre
prescrivendo una dose di dialisi insufficiente, in particolare quando il PCR è basso. Poiché
uno degli effetti più evidenti della sindrome uremica (ma non solo, anche di una dialisi
insufficiente) è la soppressione dell'appetito, la dose di dialisi deve essere di entità
sufficiente per supportare e ottimizzare questo aspetto dello stato di salute dei pazienti.
Un tema centrale nella Figura 3 è l'assunzione proteica del paziente. L'introduzione
di proteine presenta una correlazione positiva col BUN e le siero-albumine, negativa con la
morbilità del paziente. Inoltre questa voce è influenzata negativamente dalle tossine
uremiche e da altre patologie concomitanti, in particolare quelle di tipo infiammatorio. La
presenza di concause patologiche, così come la nutrizione e la concentrazione delle
siero-albumine, hanno un effetto rilevante sull'esito clinico della terapia.
1.4 Sintesi delle evidenze del NCDS
Il soluto rimosso in quantità più rilevante dal dializzatore è l'urea, un prodotto finale
del metabolismo dell'azoto proteico. Per molti anni, soprattutto nelle fasi iniziali
dell'introduzione della dialisi come terapia per il trattamento dell'insufficienza renale,
l'importanza dell'urea fu sottovalutata. Alla fine degli anni '70, il National Cooperative
Dialysis Study mise in luce che i livelli di azoto ureico (BUN) nel sangue presentavano
un'alta correlazione con gli esiti clinici della terapia. Da allora, l'urea serve da indicatore
per tutte le altre tossine uremiche, presumibilmente con basso peso molecolare, facilmente
dializzabili e responsabili della maggior parte dei sintomi della sindrome uremica.
L'urea possiede altri requisiti che la identificano come indicatore privilegiato per
l'adeguatezza della dialisi. Essendo un prodotto di scarto del metabolismo delle proteine e
rappresentando la quasi totalità dell'azoto proteico eliminato, il suo accumulo rappresenta
una misura significativa del catabolismo proteico, il quale rappresenta il principale
determinante del bisogno di dialisi. Pertanto, la misura dell'urea accumulata nel periodo
interdialitico e il successivo calo nel periodo intradialitico producono due informazioni di
vitale importanza: da un lato la necessità di dialisi e dall'altro l'efficienza della terapia.
Capitolo 1 "Aspetti clinici e storici della dialisi" 14
L'assunzione proteica, o catabolismo proteico netto (PCR), risultò il secondo
parametro più significativo nei riguardi dell'esito clinico della terapia dialitica. Lo stato
nutrizionale del paziente in dialisi non doveva essere sottovalutato, come sottolineato
anche da studi successivi al NCDS in cui tassi di mortalità superiori alla norma sono stati
collegati sia a valori troppo alti (condizioni di sottodialisi) sia a valori troppo bassi del
BUN (condizioni di malnutrizione) [5].
Il NCDS formulò anche il concetto di Kt/V e sulla base dei risultati dello studio pose
uguale a 1 il valore di soglia della clearance frazionale sotto il quale non era garantito il
successo clinico della terapia dialitica, offrendo ai terapisti un semplice obiettivo da
perseguire costantemente nell'esecuzione del trattamento e uno strumento per valutarne
l'efficienza.
1.5 Limitazioni del NCDS [6]
Per poter discutere successivamente dell'applicazione del concetto di Kt/V alla
terapia dialitica, è necessario mettere in luce alcuni dei principali limiti o lacune dello
studio eseguito dal National Cooperative Dialysis Study.
Per quanto riguarda la scelta dei pazienti, la popolazione studiata presentava un'età
media di 51 anni, contro una media attuale di oltre 61
8
. I pazienti con condizioni
patologiche concomitanti furono esclusi dallo studio (patologie cardiopolmonari e
vascolari, infezioni ricorrenti, tumori) e questo non è assolutamente indicativo delle
normali caratteristiche della popolazione in dialisi. In effetti, come facilmente intuibile, le
concause patologiche hanno un peso rilevante sulla morbilità e sulla mortalità dei pazienti,
a parità di dose di dialisi amministrata. Nessun paziente diabetico fu inserito nello studio,
mentre oggi i pazienti con diabete rappresentano una percentuale significativa della
popolazione sotto dialisi. Alcuni studi hanno evidenziato la necessità di una dose di dialisi
maggiore, ossia un Kt/V più elevato, per i pazienti diabetici. Un altro aspetto del NCDS
che in genere non rappresenta le normali condizioni operative era l’assoluta collaborazione
dei pazienti: infatti, spesso i pazienti sono recalcitranti alla terapia e tendono a voler
"accorciare" la sessione di dialisi.
Per quanto riguarda invece il protocollo dello studio, furono presi in considerazione
tempi di dialisi compresi tra 2.5 e 5.5 ore e nessun dato è disponibile per tempi inferiori
8
Il dato è stato ricavato sulla base dell’Annual Data Report 1999 dell’USRDS (United States Renal Data System,), disponibile presso il
sito web dell’associazione (www.usrds.org). Con riferimento al Registro Lombardo Dialisi e Trapianti, l’età media dei pazienti in dialisi
era di 62 anni nel 1996, in crescita costante anno dopo anno a partire dai primi anni ’80, quando l’età media era di soli 50.7 anni (dati
disponibili sul sito Internet della Società Italiana di Nefrologia, www.sin-italia.org).
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alle 2.5 ore. Ne consegue che Kt/V non può confermare il ruolo dell'urea come indicatore
delle tossine uremiche quando il tempo di dialisi scende sotto un certo valore limite.
Poiché molecole più grandi richiedono un tempo maggiore per diffondere attraverso le
membrane semipermeabili del dializzatore, al di sotto di un certo tempo di dialisi (t
d
) l'urea
potrebbe non essere più in grado di predire la rimozione di altri sottoprodotti uremici e,
conseguentemente, la morbilità dei pazienti. Alcuni studi hanno inoltre suggerito che per t
d
inferiori, uguali esiti clinici si ottengono solo con dosi di dialisi maggiori. Il NCDS
considerò solo membrane di cellulosa con clearance non elevate e spiccata
bioincompatibilità. Oggi però sono in uso membrane sintetiche più biocompatibili che
potrebbero richiedere Kt/V diversi a pari risultanze cliniche e potrebbero far decadere il
ruolo dell'azoto ureico come marker rilevante per le tossine uremiche.
Infine, spendiamo qualche parola per l'esito clinico dei pazienti. Con riferimento alla
Figura 1 mostrata in precedenza, i risultati migliori furono ottenuti dai pazienti inclusi nei
gruppi I e III e sulla base di questi è stato poi formulato da Gotch e Sargent il concetto di
Kt/V. Non è possibile escludere l'ipotesi che i due gruppi potessero avere esiti migliori con
quantità di dialisi più elevate, ossia è probabile che anch'essi siano stati in qualche modo
sottodializzati. Infine, se il NCDS fosse stato progettato su una diversa scala temporale,
probabilmente gli esiti clinici dei gruppi I e III si sarebbero differenziati, ponendo in
rilievo l'importanza del tempo di dialisi come determinante del benessere clinico dei
pazienti.
Della popolazione attualmente sotto dialisi, è stato stimato che solamente il 20 %
rientrerebbe nei parametri indicati dal National Cooperative Dialysis Study. Le risposte che
ci attendiamo in futuro sono relative proprio a questo punto. Come è possibile applicare il
concetto di Kt/V a una popolazione non compresa nei termini del NCDS? Quale è il valore
ottimale di Kt/V? Quale ruolo gioca la membrana del dializzatore? Quando l'urea cessa di
essere una molecola rappresentativa delle tossine uremiche?
1.6 Cosa sappiamo oggi sulle medie molecole? [7, 8]
Come già accennato, fino alla pubblicazione dei risultati del NCDS, a metà degli
anni ’80, le “medie molecole” (MM), composti con peso molecolare compreso tra i 300 e i
12000 Dalton, erano ritenute responsabili della sindrome uremica, sulla base della teoria
formulata all'inizio degli anni '70 da Babb e Scribner. Per un certo periodo, la maggior
parte dei tentativi di caratterizzare le MM si è concentrata sul contenuto amminoacidico
dei peptidi: poi, è sembrato che le MM contenessero al loro interno frazioni di carboidrati.