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interesse dello Stato: dalla morale alla famiglia, dal tempo libero al lavoro. L'individuo -
privato di ogni punto di riferimento - si trovò da solo a sostenere la pressione enorme dello
Stato, e questa guerra interiore e psicologica fu nascosta abilmente dagli stuoli di superbe
bandiere rosse svettanti sul primo Stato comunista del mondo. Fu così che iniziò la lenta, ma
radicale trasformazione dell'uomo russo in homo sovieticus, trasformazione programmata
dall'alto, che nelle intenzioni doveva essere radicale e permanente, e doveva produrre un
essere "ontologicamente" nuovo e funzionale alla realtà politica. Fu negli anni '30, con la
leadership di Stalin, che il processo si ritenne sostanzialmente concluso con la creazione di un
singolare “nazionalismo ideologico” - sintesi di universalismo marxista-leninista e di
frammenti e momenti della storia russa – che poggiava su quel Superuomo collettivo, il
Partito, “in cui gli individui si perdono per esaltarsi, riscattando la loro responsabilità
personale in un’anonima responsabilità della Storia”
3
.
E’ dunque in questo contesto che si veniva forgiando il nuovo tipo di uomo, immediatamente
riconosciuto dal filosofo Berdjaev, come ipotetico lavoratore solerte, sorridente e rivolto
fiducioso all’avvenire, nella realtà individuo sospettoso, pauroso, spesso delatore, pronto a
soffrire privazioni e miserie in nome del “collettivo” a cui ormai suo malgrado doveva
appartenere. Apparve dunque chiaro ai più accorti che il rovello del potere per le correzioni
dell'apparato era inutile, perché incagliato nel divario tra l'astrattezza della sua utopia e la
concretezza invincibile della realtà, così diversa dal fanatico progetto iniziale di costruire ex
novo ogni cosa, utilizzando però i vecchi materiali della distruzione.
L’ideologia di partito aveva infatti creato un’immagine idealizzata del cittadino sovietico,
modello esemplare auspicabile per l’intera umanità, che - come si descriveva nei documenti
ufficiali - metteva gli interessi dello Stato al di sopra di tutto, era patriottico, orgoglioso,
lavoratore rispettoso, leale e socievole, combatteva il capitalismo, sosteneva la famiglia,
osservava le leggi e prendeva parte attivamente alla vita sociale. Ma questo simulacro di
uomo, capace di sottomettere istinti e pulsioni individuali alle attività pianificate dello Stato,
incontrò solide forme di resistenza morale tese a preservare, malgrado la repressione, preziosi
spazi di autonomia e unicità.
Molti intellettuali rifiutarono infatti il pericoloso innesto di pubblico e privato che trasformava
l’individuo in un contenitore di vetro senza angoli imperscrutabili all’occhio dello Stato. La
storia apriva gli occhi agli intellettuali accorti e Bulgakov vedeva in questa grande prova della
storia l’ennesimo crocevia del destino, dinanzi al quale gli intellettuali dovevano -
abbandonati i vecchi sogni - rifuggire la disperazione, nonché le lusinghe, delle nuove
3
Strada, V., URSS-Russia, Rizzoli, Milano 1985, p. 58.
3
illusioni “di sinistra”, le illusioni della creazione dell’ennesimo mito di un universo
splendente di giustizia sociale, del popolo insorto, della vittoria della democrazia, della
cultura proletaria.
L’inganno del sogno di un mondo finalmente pacificato e libero dalle ingiustizie, la
dimensione utopica dell’esistenza quale condizione essenziale per la ricerca della libertà e
dell’uguaglianza tra gli uomini fu tratteggiata da innumerevoli scrittori russi ostracizzati in
patria proprio per la loro refrattarietà all’auspicata omogeneizzazione culturale, in tempi in
cui, come dirà Dovlatov, “l’ inettitudine totale non era spendibile. Il talento era sospetto. La
genialità terrorizzava. La moneta più gradita era una moderata competenza letteraria"
4
.
Il travagliato processo di omologazione, che rappresentò un dramma insieme individuale e
collettivo, si rispecchiò in modo particolarmente lacerante nel destino di innumerevoli
intellettuali, tra i quali, negli anni Venti e Trenta del Novecento, troviamo tutte le sfumature
del compromesso, dal servilismo alla ribellione e finanche purtroppo al suicidio.
La rivoluzione del 1917 fu per Bulgakov, tra gli eventi traumaticamente epocali, il più intenso
e rilevante. Organicamente estraneo a quell’ideologia rivoluzionaria che fu il tragico credo di
Majakovskij, nei suoi primi scritti rievocò la distruzione del Vecchio mondo come un evento
catastrofico, epocale, apocalittico, la fine dei tempi, l’inizio di altri. La Russia appariva
sconvolta dalla tormenta, quella bufera di neve che soffiava e turbinava in tante pagine della
letteratura russa degli anni rivoluzionari, icona dello scatenarsi di energie elementari che solo
una superiore potenza saprà ingabbiare nella sua ferrea morsa.
Sin dal suo primo articolo, Future prospettive, dichiaratamente favorevole ai Bianchi ed edito
su un giornaletto locale della città di Groznyj, nel Caucaso settentrionale, il 26 novembre
1919, Bulgakov – non nascondendo le sue simpatie da belobandit, secondo la terminologia
corrente sovietica - aveva formulato predizioni assai cupe sulla nuova Russia sotto il regime
bolscevico, insieme al doloroso senso di costernazione al pensiero del futuro imminente e
remoto:
«In questo momento, mentre la nostra sventurata patria si trova al fondo estremo della
vergogna e della catastrofe in cui l’ha gettata la “Grande Rivoluzione Sociale”, nella mente di
molti di noi ricorre con sempre maggiore frequenza un unico pensiero. Un pensiero insistente,
buio e triste, nasce dentro di noi e chiede con insistenza una risposta. La domanda è semplice:
“Che cosa sarà di noi, adesso?”… Il presente è davanti a noi, e lo spettacolo è tale che
vorremmo chiudere gli occhi per non vederlo! Ci resta solo il futuro enigmatico e
sconosciuto.…Noi stiamo subendo, ora, un castigo. Attualmente per noi è impensabile
4
Dovlatov, S., Il libro invisibile, Sellerio, Palermo 2007, p. 164.
4
costruire alcunché…E tutti attendono con fervore la liberazione del nostro paese…Ma ci
toccherà lottare molto, e versare molto sangue, perché fino a quando dietro la funesta figura di
Trotskij si accalcheranno ancora, armi alla mano, quei folli che egli ha istupidito, non vi sarà
vita, ma potrà esservi soltanto una lotta mortale…Laggiù nell’Occidente si costruirà, si
indagherà, si pubblicherà, si studierà…E noi ci scanneremo.»
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L’autore continuava poi con rassegnata delusione ad analizzare i risvolti della diffusione di
questa “malattia maligna”, il comunismo, che nel presente faceva vacillare i capisaldi
dell’ordinamento esistente e in futuro avrebbe rinchiuso tutti, compreso lui stesso, tra “i
rappresentanti di una generazione sventurata” destinati a scomparire, macchiati della nomea
di “miserabili bancarottieri”.
Negli anni Venti Bulgakov aveva intinto la penna nel passato recente della Russia,
analizzando il senso e l’esito della rivoluzione, nei riguardi della quale non aveva mai nutrito
speranze. E per quanto si ingegnasse di adeguarsi alla nuova realtà sovietica che pur mostrava
qualche germoglio positivo, l’astio, il rancore, lo sdegno per i valori calpestati e dissacrati gli
urgevano dentro intensi. E’ interessante a tal proposito la lettera che scrisse al Nostro un certo
Viktor Viktorovič Myšlaevskij verso la metà degli anni Venti e che B. conservò poi sempre
nel proprio archivio personale:
“…Cominciai così a servire il nuovo regime, non per paura, ma per coscienza…Mi pareva
allora che soltanto i bolscevichi fossero un’autorità vera, forte della fede che il popolo nutriva
in essa, e che avrebbero perciò portato alla Russia la felicità e la prosperità, e avrebbero
trasformato i nostri piccoli borghesi e “portatori di Dio”, furbi di tre cotte, in cittadini onesti,
franchi e forti…vedevo tutto talmente in rosa che divenni un rosso anch’io, e ci mancò poco
che diventassi addirittura un comunista; mi ha salvato da ciò il mio passato, la mia nobiltà e la
mia dignità di ufficiale. Ma poi la luna di miele della rivoluzione è passata. C’è stata la
NEP…In me, come in molti altri, l’ardore è passato e gli occhiali color di rosa han cominciato
a prendere altri colori più scuri…Le riunioni generali sotto il vigile sguardo inquisitorio del
Mestkom. Le risoluzioni del partito e le dimostrazioni in piazza, sotto la minaccia delle
bastonate. E il Komsomol, lieto di qualsiasi occasione di far la spia…E i capi! Erano o ometti,
che si tenevano avvinghiati al loro potere e a un comfort che non avevano mai visto prima,
oppure fanatici rabbiosi, pronti a buttar giù ogni muro a testate…L’idea di per sé non sarebbe
stata neanche male, era abbastanza coerente, ma era assolutamente irrealizzabile nella pratica,
come lo è anche la dottrina di Cristo, con la differenza che quest’ultima è più comprensibile e
più bella…Che schifo vivere senza credere in niente. Sì, perché non credere più in niente e
5
Curtis, J.A.E., I manoscritti non bruciano. Michail Bulgakov: una vita in lettere e diari, Rizzoli, Milano 1992,
pp. 27-30.
5
non amare più niente, è il privilegio della generazione che seguirà alla nostra: dei
bezprizorniki, che ci daranno il cambio”
6
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Estremamente scettico sulla possibilità di costruire nel paese distrutto una società civile,
Bulgakov riteneva che l’ostacolo maggiore a ciò fosse la mancanza di cultura di ampi strati
del popolo russo, anzitutto degli operai e dei contadini, i quali - strappati bruscamente, con la
violenza, alla religione ortodossa, alle secolari tradizioni russe, e rimasti ormai privi di
un’autentica intelligentsija ormai emigrata – avrebbero potuto esser vittime, nel futuro ormai
alle porte, di vari esperimenti da parte di politici irresponsabili, con esiti che potevano
rivelarsi rovinosi sia per le cavie che per gli sperimentatori. Non si può interrompere il corso
naturale di un’evoluzione storica: è questa la convinzione fondamentale di Bulgakov.
La critica bulgakoviana del razionalismo e dello sperimentalismo sociale rivoluzionario si
basava infatti su quella “Grande Evoluzione” di cui lo scrittore parlava nella sua lettera del
1930 indirizzata ai dirigenti dell’URSS e sul sentimento di una sovrarealtà misteriosa, i cui
segni si manifestano nel mondo interiore dell’uomo e, in particolare, nell’arte. Tale riflessione
sull’arte, data l’epoca in cui lo scrittore visse e scrisse, non poteva non avere anche una
dimensione politica, oltre che etica e metafisica, riguardante la possibilità stessa dell’esistenza
della dimensione artistica in una situazione di estrema ostilità ad essa, come ad ogni altra
forma di libera attività spirituale. Sarà proprio la priorità da lui assegnata all’indipendenza
morale e intellettuale, più che alla partijnost’, a causargli una pericolosa “estraneità di classe”
e l’isolamento ideologico, vivendo egli nel mondo del suo tempo come esiliato in un
anacronismo costante, al pari di Maksudov, l’autobiografico protagonista di Romanzo
teatrale, estraneo ad un mondo a lui ostile e alieno.
Per Bulgakov infatti il “Governo”, a differenza che per il rivoluzionario Majakovskij, non era
un “compagno”, bensì l’inavvicinabile Potere, l’autorità di fatto, distante dai singoli cittadini e
tuttavia la sola a poter porre fine a una situazione ormai divenuta insopportabile. A questa
autorità egli si rivolse con ardita franchezza, delineando quello che nella lettera definì il suo
“ritratto letterario”, che è anche un “ritratto politico”, perchè, nonostante riconosca di essere
non “un politico ma un letterato”, mai come nella Russia di allora era diventato impossibile
separare in modo ragionevole queste due qualifiche. Nella parte centrale della lettera
Bulgakov, con grande sincerità e dignità, parlava di sé come scrittore e delineava l’idea del
suo lavoro letterario nella situazione storica in cui era venuto a trovarsi dopo la rivoluzione
bolscevica. A chi lo accusava di aver generato con la sua Isola purpurea “una pasquinata
contro la rivoluzione”, dichiarava che la commedia incriminata non poteva definirsi tale per
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Bulgakov, M.A., Il grande cancelliere e altri inediti, Leonardo, Milano, 1991, pp. 71-72, nota 1.
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l’eccezionalità stessa di un fenomeno comunque grandioso come la rivoluzione. E dopo un
appassionato encomio della “libertà di stampa” e della sua personale “lotta contro la censura”,
con amarezza dipingeva il panorama letterario sovietico, in cui era sufficiente rappresentare
una dignitosa “famiglia dell’intelligencija nobiliare” per bollare l’autore di simili opere come
“nemico” e quindi dichiararlo “un uomo finito”. E questo nonostante, scrive l’autore
chiarendo la sua posizione insieme letteraria e politica, “i grandi sforzi fatti per mettersi
spassionatamente al di sopra dei rossi e dei bianchi”, lui, “scrittore mistico” che mostrava
nelle sue pagine “un profondo scetticismo nei riguardi del processo rivoluzionario” in atto
nella sua patria “arretrata”, processo cui egli contrapponeva la “Grande Evoluzione”, da lui
“prediletta” perché in accordo con il corso naturale della Storia.
Di qui l’irrisione bulgakoviana dell’intento comunista di trasformazione della natura umana, il
cui risibile sapore millenaristico veniva delineato dal Nostro grazie alla sua capacità vivida di
descrivere il fantomatico Uomo Nuovo, pasciuto dallo Stato socialista, e tutte le declinazioni
possibili dell’umanità sotto un regime pervasivo, perlopiù ovattato ed ottuso. Fedele ai valori
dell’intelligencija liberale, egli osava difendere la libertà di coscienza e guardare con la
pericolosa lente dell’ironia la nuova Russia dalle antiche imperfezioni, sino a realizzare, nelle
Uova fatali, una splendida satira del progetto di trasformazione rivoluzionaria del mondo che
metteva alla berlina lo stesso Vladimir Lenin, la cui fisionomia e' visibile in filigrana nel
protagonista del romanzo, il professor Vladimir Persikov, inventore di un raggio portentoso
capace di accelerare la crescita degli embrioni di uova di gallina, nella realtà però applicato a
uova di serpente, e dunque responsabile di un’autentica proliferazione di mostri. In Cuore di
cane a fare le spese dell' immaginazione satirica bulgakoviana e' sempre la pretesa marxista-
leninista di creare una nuova umanità, ma anche la cecità storica di chi guarda alla massa
senza vederne l’eterogenea composizione di uomini che tuttavia rivelano tendenze analoghe:
non sono portati alla vita eroica, anzi desiderano star tranquilli; non mostrano alcuna
infatuazione del collettivo e del bene comune, ma piuttosto anelano a una propria area
invalicabile, materiale e spirituale; non sono accesi dall'odio di classe come unico e perpetuo
motore di sentimenti, né sono disposti al plauso e all'esecrazione ordinati dall'alto.
Come avrebbero potuto gli ideologi comunisti, allevatori di "uomini nuovi" e applicatori di
nefaste irradiazioni, tollerare un uomo libero della fatta di Michail Bulgakov, privo della
forma mentis sovietica in quanto “aveva capito e accettato poco della nuova realtà
rivoluzionaria” (Lakšin)? Egli affermava, sia pure in modo “esopico”, indiretto, che molte
sono le cose che vanno al di là della rivoluzione proletaria, del potere sovietico, della filosofia
marxista, che la Grande Evoluzione non coincideva con i piani quinquennali, che il giudizio
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storico sarebbe stato diverso da quello immediato, che il futuro era molto più ricco di quanto
la filosofia dominante nel presente non prevedesse.
Egli visse intensamente la grande epopea dell’Unione Sovietica degli anni Venti e Trenta, una
vicenda aspra, agitata da conflitti e anche da contraddizioni, ma il cui peccato peggiore ai suoi
occhi era proprio il “trionfalismo”, il perdurante tentativo di nascondere o minimizzare quelle
antinomie che portava in realtà a un loro permanere sotto mentite spoglie, a un loro risorgere e
cronicizzarsi.
Il grande dramma del Novecento è stato infatti sfiorato, o meglio, intuito da Bulgakov: è il
dramma della violenza sulle coscienze e della costrizione umana, che non mantengono alcuna
connotazione positiva, anche quando sono usate per il rinnovamento - utopico, imposto o
proclamato che sia - dell’umanità.
Grande Evoluzione o rapida rivoluzione, tempi lunghi o tempi corti: il contrasto di Bulgakov
con l’ottimismo sovietico diviene ora contrapposizione consapevole e leale, e sarà motivo
centrale di tutta la successiva produzione bulgakoviana. Si tratta di un contrasto dialettico, nel
quale la tesi rivoluzionaria dei tempi brevi e l’antitesi umanistico-religiosa dei tempi lunghi o
lunghissimi possono condurre a una sintesi superiore, non escludendosi radicalmente a
vicenda.
In un secolo come il Ventesimo che – in virtù delle scoperte scientifiche e delle sue
applicazioni tecnologiche – ha reso la vita febbrilmente dinamica, rendendo gli uomini più
sicuri, più padroni del creato non più misterioso e inviolabile, ma da dissuggellare con
prometeica superbia, Bulgakov si attardava ancora a cercare risposte a domande ultime, a
contemplare e vagliare le possibilità dello sviluppo umano, riscoprendo quei residui dell’”io”
autentico che l’ideologia disperdeva nella progressiva frantumazione dell’uomo, convinto che
solo una rivoluzione interiore, la metanoia, ovvero il cambiamento di sé, poteva colmare lo
iato esistente tra le tesi e le rigide direttive del partito e la nuda e flessibile realtà.
Nelle sue opere il momento satirico era quindi solitamente subordinato al momento
problematico, poiché egli non possedeva certezze dogmatiche, né era roso da un vuoto
nichilistico, ma tendeva a un mondo di valori che nessuna rivoluzione potev distruggere o
creare.
I due scienziati Persikov e Preobraženskij - creature del medico Bulgakov che, dopo
un’attenta diagnosi del proprio “io”, trovò la sua autentica strada nella letteratura - svolgono
non a caso esperimenti disastrosi non sul piano tecnico-scientifico, bensì su quello sociale.
Come lo scienziato crea mostri infelici e malvagi, così il politico - attraverso il sangue e la
violenza divenuta realtà naturale e metabolizzata come necessaria - cerca di costruire un
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mondo diverso, di “sperimentare” la validità di certe teorie e invece crea solo cumuli di
esasperazioni degli antichi vizi e difetti, poiché ognuno resta quel che è. Non si tratta certo di
idee ottimistiche sulle possibilità della scienza e sulle “magnifiche sorti e progressive”
dell’umanità.
Il risultato dell’aggressività degli animali toccati dal raggio rosso, nonché dell’incompetenza,
della distrazione, della vanità, del desiderio di meschino potere da parte di Rokk,
rappresentante dell’establishment sovietico, è l’infausta trasformazione in mani inesperte del
raggio della vita in raggio della morte, nelle tragiche mostruosità di un illuminismo
degenerato.
Come anche nel teatro, qui Bulgakov polemizzava con la rappresentazione pubblicistica, da
cartellone, dell’uomo del futuro, sottolineando l’identità sostanziale della coscienza umana
attraverso il tempo. Il futuro non riserva infatti una umanità vergine al pieno del suo
splendore, ma la medesima: “siamo ancora noi, solo purificati dall’invidia, dall’egoismo,
dall’avidità”. Progressista nel senso della scienza e della ragione, affascinato dal progresso
tecnologico e tuttavia ossessionato dall’enorme potenziale distruttivo in esso insito, lo
scrittore giunse alla lucida consapevolezza che una coscienza risvegliatasi troppo tardi dalla
superbia progressista, in pericolosa sintonia con il materialismo dialettico, produce orribili
visioni e reali deliri.
Il Persikov delle Uova fatali, ad esempio, è sì colpevolmente irresponsabile per essersi
esimato dalle conseguenze nefaste della sua “terribile scoperta”, ma Bulgakov dà ragione
anche al suo scetticismo: entrambi condividono una saggia cautela di approccio al progresso e
la convinzione che non sia possibile forzare i tempi della evoluzione, pretendere che il mondo
sia fatto progredire e quasi balzare in avanti da esseri che sono – come dirà lo scienziato di
Cuore di cane, Preobraženskij - “al più basso grado di sviluppo”, “che cominciano appena a
formarsi”, “intellettualmente deboli”. La “disorganizzazione”, alla quale si fa risalire la
responsabilità degli insuccessi, è un mito, afferma Filipp Filippovič: essa risiede in realtà
“nelle teste”. Gente che dovrebbe “pulire i ripostigli” non può pretendere di portare a buon
fine la rivoluzione socialista mondiale: “ è impossibile spazzare le rotaie del tram e nello
stesso tempo riassestare le sorti di non so bene quali straccioni spagnoli!”
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Questa letteratura del denudamento dissacrante non poteva che esser figlia della fine
dell’utopia comunista, macchia indelebile sull’immagine del “paradiso socialista” dai colori
più sbiaditi, ma genuini, del risorgere di quella realtà animale immutata nell’uomo, che
strappa il velo dell’inganno progettato dall’alto. Il tema dell’animale “umanizzato” in Cuore
7
Bulgakov, M.A., Racconti fantastici, Rizzoli, Milano 1991, p. 226.