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andare in un bar la domenica pomeriggio o il lunedì mattina per assistere al
dibattito, quello sì pubblico, sugli ultimi eventi sportivi per capire come non si
sia persa la voglia di discutere e ragionare, ma sia solo cambiato l’oggetto del
discorso.
La pubblicità del discorso politico, essendo all’origine della possibilità di
scelta dell’elettore, è un elemento imprescindibile in una democrazia, per questa
ragione il dibattito della cosa pubblica nel corso degli anni non è scomparso, ma
ha solo cambiato le sue regole.
Oggi si assiste ad una crescente critica alla “casta” politica sotto diversi
aspetti, dal dubitare sempre di più dell’onestà intellettuale del moderno retore,
fino alla messa in discussione del linguaggio usato, poco comprensibile ai più,
tanto che le sfide nelle piazze mediatiche prendono a volte la forma di un
articolatissimo dialogo tra sordi.
La sintesi e i tempi dei moderni mezzi di comunicazione impediscono la
comprensione approfondita delle tematiche messe in campo, fino a nasconderne i
frameworks teorici, i paradigmi che stanno all’origine delle diverse retoriche
politiche.
La logica della lotta20 tra paradigmi teorizzata dall’epistemologo T.S. Kuhn
[1962], inizialmente applicata alle discipline scientifiche è oggi utilizzata nelle
scienze sociali con significati non troppo distanti dalla tradizionale nozione
filosofica di ‹‹ideologia o [dalle] più recenti nozioni sociologiche di discorso e
regimi discorsivi.›› [Howlett e Ramesh, 2006: 196]. Pertanto possiamo dire che
ad un livello meno visibile un paradigma sociale
contiene un modo di percepire la natura umana, una definizione di forme di
relazioni sociali, fondamentali ed eque, tra uguali e tra coloro che si trovano in
20
Con l’idea di lotta adottiamo il processo innescato dalla scoperta e che Kuhn distingue tra
‹‹pensiero divergente›› e ‹‹convergente› [1959]. Mentre alcuni episodi scientifici possono
considerarsi cumulativi, cioè non mettono in discussione l’insieme di credenze preesistenti, nel caso
del pensiero divergente ad essere influenzato è anche, come afferma Kuhn, ‹‹ciò che precedentemente
era già noto, fornendo una visione di alcuni argomenti precedentemente familiari e
contemporaneamente mutando le modalità con le quali vengono praticate anche alcune parti
tradizionali della scienza›› [Kuhn, 1962; trad. it. 2006: 77].
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rapporto di gerarchia e una specificazione dei rapporti tra le istituzioni, nonché
la definizione dei ruoli di tali istituzioni [Jenson, 1989: 238-239].
La pervasività di un paradigma, soprattutto se egemone, è tale che porta il
policy maker che lo adotta a darlo per scontato, come se la realtà non potesse
essere diversamente da come è; questo è il meccanismo che ha determinato che
alla storicità e quindi criticabilità di un approccio economico si sia sostituita la
presunta neutralità della tecnica21. Se il paradigma, inteso come vera e propria
matrice disciplinare [Kuhn, 1970], agisce sulla percezione della realtà influenza
evidentemente anche il modo di rappresentarla, per questo riteniamo
particolarmente funzionale l’idea che ad un paradigma si accompagni
necessariamente una specifica retorica22.
I cambiamenti in atto nel mondo del lavoro e dei sistemi di welfare
rientrerebbero perfettamente nella lotta per l’egemonia di diversi paradigmi e
relative retoriche. Per Kuhn l’incremento di conoscenza, in una comunità
scientifica, raramente è cumulabile alle conoscenze preesistenti ‹‹poiché il
vecchio deve essere rivalutato – afferma Kuhn – e riordinato quando si sta
assimilando il nuovo, la scoperta e l’invenzione nelle scienze sono in generale
intrinsecamente rivoluzionarie›› [Kuhn, 1959 trad. it. 2006: 81]. Nell’ambito
delle politiche del lavoro, così come per le politiche pubbliche in generale, il
cambiamento di paradigma, a meno di cambiamenti davvero rivoluzionari o
violenti, non può essere così repentino. Quando l’impianto delle politiche
keynesiane di welfare ha iniziato ad entrare in crisi, anche per le dinamiche viste
precedentemente, non solo sono cambiate le politiche, ma anche il linguaggio.
Flessibilità, outsourcing, esternalizzazione, riduzione del deficit, deregulation,
21
In base a quanto specificato sull’applicazione della teoria delle ricoluzioni scientifiche di Kuhn, qui
per tecnica si intende quel complesso di conoscenze tecnico-scientifiche la cui presunta oggettività e
neutralità giustifica scelte in materia di politica economica etc. Si veda l’uso di espressioni quali
governo tecnico, dove le scelte politiche appaiono neutrali in base alla pervasività del paradigma
dominante di cui si è parlato nel testo.
22
Sul concetto di retorica risulta particolarmente adatto al nostro discroso l’articolazione proposta da
F. Battistelli quando afferma che ‹‹nell’ottica tradizionale, il concetto di retorica poteva essere usato
in senso tecnico come arte del comunicare in/al pubblico (ars bene dicendi). In senso atecnico […]
retorica ha significato una comunicazione specificatamente caratterizzata dalla sua direzione
top/down›› [Battistelli, 2004: 12].
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liberalizzazione, riduzione della pressione fiscale sono i contenuti della nuova
retorica delle politiche del lavoro dietro cui si nasconde una precisa visione
paradigmatica delle relazioni sociali ed economiche.
Da questo punto di vista non è accettabile l’idea che i provvedimenti in cui è
articolata l’idea di flessibilità siano considerati al di fuori delle dinamiche sociali,
come un fatto meramente tecnico e funzionale all’aumento della competitività
delle imprese, come se l’idea stessa della competitività nascesse in un platonico
mondo delle idee. L’opinione pubblica è comunque continuamente sottoposta a
pressioni retoriche di questo genere, pressioni facilitate dalla trasversalità delle
teorie liberiste, come ci ricorda questo estratto di un articolo di Marco Biagi,
pubblicato su Il Sole24ore il 6 gennaio 2001, anno del suo assassinio ad opera
delle nuove Brigate Rosse:
L'esperienza comparata dimostra che non esistono in astratto misure di
intervento nel mercato del lavoro catalogabili in termini ideologici. Qualche
riferimento alla Germania e alla Spagna
in cui politiche portate avanti da governi di sinistra vanno nella stessa
direzione di politiche portate avanti da governi di destra
è sufficiente per provare che politicizzare questa materia non ha senso.
[…] In realtà ragionare con questi schemi ideologici è del tutto fuorviante. La
verità è che in materia di flessibilità occorrerebbe ragionare in modo assai più
bipartisan, guardando alla sostanza dei problemi e agli effetti delle soluzioni
adottate. Di steccati ideologici in Italia non si sente davvero più il bisogno.
[Biagi, 2001]
Non deve sfuggire che in questo genere di riflessioni non compaia alcun
riferimento a quel concetto, che più avanti proveremo a definire e, che va sotto il
nome di precarietà; infatti come nota Rossana Guidi nella sua analisi comparata
tra diversi quotidiani italiani
trattando il fenomeno dal punto di vista dell’impresa, sottolineando
l’inevitabilità dei nuovi processi di europeizzazione e di globalizzazione e
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puntando l’attenzione su un nuovo tipo di libertà concorrenziale, l’analisi
specificatamente economica de Il Sole 24 Ore tende generalmente a trascurare
il punto di vista dell’individuo, spettatore passivo della rapida trasformazione
del mercato del lavoro e soggetto impreparato a una nuova ‘società
dell’incertezza’, che privilegia l’avvento di lavori sempre più atipici e causa la
scomparsa delle tradizionali sicurezze legate al lavoro a tempo indeterminato
(estensione del contratto e continuità retributiva) [Guidi 2007: 360]
3.3. Una definizione di precarietà.
Avendo già accennato al senso negativo di per sé implicito nel concetto di
precarietà del lavoro, risulta particolarmente difficile proporne una definizione
scevra da giudizi di valore. Tanto che alcuni autori vi hanno fatto riferimento
come ad uno stato d’animo umano, relegandola nella sfera delle percezioni23 e
negandone quindi l’appartenenza alla categoria dei fatti sociali24. Per quanto
questa impostazione possa risultare interessante non sembra coerente con
l’esistenza di oggettivi elementi di un disagio che colpisce alcuni più di altri. Si
prendano in considerazione in questo senso, i differenti trattamenti salariali e
contributivi, le diversificate condizioni di lavoro concentrate a volte anche
all’interno di una stessa unità produttiva, elementi questi direttamente
osservabili. Questi fenomeni sono fortemente connessi al concetto di flessibilità
del lavoro o dell’occupazione, riferendo questo termine a quelle occupazioni
‹‹che richiedono alla persona di adattare ripetutamente l’organizzazione della
propria esistenza - nell’arco della vita, dell’anno, sovente persino del mese o
della settimana - alle esigenze mutevoli della o delle organizzazioni produttive
23
In particolare facciamo riferimento a coloro che parlano della precarietà come di una ‹‹vaga
condizione mentale, quella di chi si sente instabile e insicuro perchè senza garanzie e prospettive per
il futuro›› [Sacconi e Tiraboschi, 2006: 125].
24
La letteratura sull’accettabilità del concetto di Fatto Sociale è copiosa, così come sulle definizioni
adottabili. Un lavoro di sintesi da questo punto di vista è stato svolto da Luciano Gallino nel
Dizionario di Sociologia, in cui si afferma che un fatto sociale si ‹‹costituisce da tutto ciò che nella
società - essendo parte intrinseca di questa, non riconducibile a fatti psicologici o biologici o fisici,
sul genere del costume, delle norme di legge, delle forme di insediamento - si presenta vuoi
all’esperienza dell’uomo comune, vuoi all’osservatore, come un ‘ dato’ esterno e indipendente, non
modificabile né dalla loro volontà né dal modo in cui lo interpretano›› [Gallino, 2004].
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che la occupano o si offrono di occuparla, private o pubbliche che siano››
[Gallino, 2007: 4]. A questo punto si può riflettere sulle ragioni della mancata
identità tra i due concetti.
Le differenze tra ciò che si intende per flessibilità e quello che intendiamo per
precarietà appartengono innanzitutto a diverse dimensioni, e tali da non
permetterne un confronto reale, sebbene alcune riflessioni possano essere
proposte. Innanzitutto la prima ha una connotazione neutrale, mentre come si è
più volte ripetuto la seconda è di segno negativo. In secondo luogo non c’è
coincidenza tra i campi semantici, quello della flessibilità è infatti legato al
fattore economico della produzione e del lavoro, mentre il concetto di precarietà
non solo non è mai riferito alla produzione, ma non è quasi mai riferito al solo
aspetto lavorativo dell’individuo, a meno che non sia utilizzato nel suo
significato di senso comune, dove i significanti in oggetto sono sovrapponibili.
Potremmo quindi dire che al contrario della flessibilità, quello di precarietà è un
concetto tentacolare, riferibile a molteplici sfere della vita umana. In ultimo
esistono evidenti differenze per quel che riguarda la loro osservabilità: abbiamo
visto come la flessibilità del lavoro si componga per lo più di elementi
direttamente osservabili, mentre lo stesso non può dirsi per il concetto di
precarietà, che si presenta come fortemente multidimensionale e con alcuni
elementi di soggettività legati alla sfera delle percezioni.
In realtà la fonte del legame tra i due concetti è da cercarsi non nella loro
somiglianza, ma in un ipotetico rapporto di causalità, che vedrebbe la flessibilità
come condizione principale del verificarsi della precarietà. Si è detto infatti come
le politiche keynesiane di welfare siano nate nell’ottica che lo Stato avrebbe
dovuto mitigare i costi sociali dell’economia capitalista. Abbiamo anche detto
come i sistemi di welfare si siano evoluti diversamente da cultura a cultura e di
come in Italia e negli altri paesi dell’Europa meridionale si possa parlare di un
regime di welfare conservatore basato sulla famiglia e sul rapporto tipico di
lavoro. Pertanto possiamo ragionevolmente dire che la flessibilizzzazione del
mercato del lavoro, senza adeguamenti delle politiche di protezione sociale,
abbia determinato una diversificazione delle condizioni di vita tra nuovi e vecchi
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lavoratori, come abbiamo detto nel paragrafo precedente, stratificando le tutele
anche per quei rischi che definiremmo democratici25. Ovviamente quando si
parla di condizioni di vita non necessariamente si fa riferimento alla sola sfera
lavorativa, al contrario in questo ambito vanno considerate anche quegli aspetti
oggettivi non legati alla scelta dell’individuo come l'origine sociale, il sesso e
l'età, elementi che come vedremo influiscono sull'agibilità individuale nel
mercato del lavoro.
Vedremo più avanti alcune specificità di queste e di alcune altre variabili. Per
ora questi semplici esempi bastano per comprendere come parlare di precarietà
significa parlare di una condizione che può assumere diversi gradi di intensità.
A questo punto possiamo dire che intendiamo per precarietà il rischio in cui
incorre un individuo di essere escluso da un’adeguata protezione sociale, di
qualsiasi origine, che sappia tutelarne la persona e la libertà di scelta
dall’asservimento alle esigenze della singola azienda o a quelle del sistema
produttivo generale. Questa definizione è solo una proposta che pensiamo possa
essere utile per affrontare l’individuazione del chi e perché possa definirsi più
precario di altri partendo dal concetto di esclusione del singolo individuo dalle
protezioni sociali di cui a lungo si è parlato. Quali debbano essere i sistemi di
protezione non sta a noi definirlo, hic et nunc possiamo far riferimento al regime
di welfare, ma nessuno vieta che, altrove o in un altro momento, come sistema di
protezione possano essere adottati provvedimenti diversi; di conseguenza anche
l’origine del provvedimento stesso, pubblica, privata o mista che sia, costituisce
un punto di analisi che non può essere affrontato in questa sede. Con
l’asservimento al sistema produttivo della persona e della sua possibilità di scelta
si intende ammettere la possibilità, che privato di un’adeguata protezione sociale,
le libertà individuali, la possibilità dell’autorealizzazione del sé, ma anche
l’incolumità fisica dell’individuo possano essere subordinate alle esigenze della
configurazione economica storicamente determinatasi, concetto questo affatto
25
‹‹Alcuni rischi, per esempio la mancanza di autosufficienza nella vecchiaia, possono essere definiti
definiti democratici: non risparmiano nessuno›› [Esping-Andersen; 1999: 69]
37
distante da quello che è possibile contrapporre all’idea di demercificazione cui
abbiamo fatto riferimento nel capitolo precedente.
In conclusione, secondo l’ottica assunta, la precarietà del lavoro diventa un
elemento in parte sovrapponibile al concetto di vulnerabilità sociale degli
individui proposto da Ranci [2002]. Mauro Migliavacca [2002] prima di
addentrarsi nell’analisi della condizione lavorativa delle famiglie, sintetizza così
le posizioni di alcuni autori, che non sembrano essere troppo distanti da quella da
noi proposta:
Il degrado della società salariale costituisce, secondo Castel [1995], uno dei
principali elementi che determinano le nuove forme di disuguaglianza. Ciò che
Beck [1999] descrive come il passaggio dalla società del lavoro alla società del
rischio è la realtà con la quale occorrerà misurarsi nei prossimi anni; una realtà
che porterà ad un cambiamento sempre più radicale nel modo di guardare al
lavoro come elemento di garanzia e stabilità. L’aumento dell’instabilità
lavorativa sta infatti modificando progressivamente la composizione sociale
della popolazione vulnerabile. Il passaggio dalla dimensione della sicurezza
salariale a quella della instabilità e della precarietà pone un numero crescente di
famiglie di fronte ad un cambiamento radicale di prospettiva. Se nel regime
salariale la protezione familiare è garantita dalla presenza di almeno un
lavoratore stabile (bread winner regime), nel nuovo regime della precarietà
questa condizione rischia di non essere più sufficiente, perché la presenza di
instabilità rende necessario l’accumulo di più posizioni precarie al fine di
raggiungere il reddito minimo necessario alla sussistenza [Migliavacca, 2002:
141-142]
In ultimo, ancora sul concetto di precarietà e di rischio, risulta molto
interessante la riflessione fornita da Joseph Stiglitz alla prefazione di Schiavi
Moderni [Grillo, 2007], dove si paragona il rischio cui si espongono i lavoratori
flessibili nel mercato del lavoro italiano, a quello cui ci si espone acquistando
bond particolari nel mercato monetario. Il Nobel per l’economia (2001)
sottolinea come solo nel secondo caso il rischio sia altamente remunerato con le
rendite degli interessi, cosa che non avviene nel mercato del lavoro italiano.
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Infatti ‹‹perfino l’economia liberista insegna che se proprio volete comprare un
bond ad alto rischio (tipo quelli argentini o Parmalat, ad alto rischio che si
trasformi in carta straccia), vi devono pagare interessi molto alti. I salari pagati
ai lavoratori flessibili devono essere più alti e non più bassi, proprio perché più
alta è la loro probabilità di licenziamento›› [Grillo, 2007; p. 5].