INTRODUZIONE
Il presente lavoro intende indagare le cause e le conseguenze di quello che è stato
interpretato come sentimento di inferiorità da diversi autori che hanno dedicato le proprie
energie speculative alla domanda circa l’identità del messicano, e in particolare da Samuel
Ramos. Questo sentimento, per la cui analisi non sono mancati i riferimenti alla psicologia di
Adler, viene fatto risalire alle prime fasi della Conquista. Evento, questo, oltremodo
traumatico, non solo per le violenze fisiche, culturali e morali inferte ai popoli americani – e
per averne un’idea basta sfogliare La conquista dell’America di Todorov – ma per una
questione squisitamente esistenziale qual è l’esser stati “gettati” nella storia. Eppure, con ciò
non ci si imbatte solo in una ripresa più o meno suggestiva di un tema di stampo
heideggeriano, bensì nella concreta configurazione che assume l’inautenticità qualora diventa
tratto comune e storico di un intero popolo che si mostra incapace di dar vita ad una propria
cultura: un popolo mimetico, inautentico, condannato a vivere nel “labirinto della solitudine”,
per usare il noto sintagma che Octavio Paz scelse come titolo di una delle sue opere più
significative quanto alla questione dell’identità. Un popolo tradito che mai perdonerà la scelta
della Malinche, l’interprete trilingue (conosceva il maya, il náhuatl e lo spagnolo) che, nel
darsi, nell’aprirsi al condottiero spagnolo ha facilitato l’addomesticamento della sua stessa
cultura.
Ma oltre alla Malinche, bisogna fare riferimento alla figura del pelado cui Samuel
Ramos dedica alcune delle pagine più intense de El perfil del hombre y la cultura en
México,non mancando di studiare ogni sua forma di espressione, il più delle volte decaduta e
decadente, in quanto è nel modo di parlare, nel lessico e nel tono impiegati, che trovano sfogo
il pessimismo, la povertà e l’emarginazione sociale che caratterizzano questo “tipo
antropologico”. Che la tipologia venga sapientemente coniugata con la storia, lo dimostra il
fatto che Ramos si spinge, nella sua fenomenologia del complesso di inferiorità, anche
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all’analisi dell’epoca dell’Indipendenza, in cui rileva l’incapacità di questo popolo di muovere
i primi passi verso un’identità propria, optando per un atteggiamento verso l’altro che è nel
contempo ostile e mimetico. La mancanza di fiducia, la perdita di identità, l’insicurezza
personale, insomma, tutti quei tratti che ruotano intorno al complesso d’inferiorità, saranno
oggetto di studio del primo capitolo.
Nel secondo capitolo si cercherà di rintracciare tale inferiorità sul piano linguistico,
analizzando i risultati dello scontro tra il náhuatl e lo spagnolo. In particolare, si incentrerà
l’attenzione sull’ambito rituale della cultura náhuatl e sul suo principale espediente stilistico,
vale a dire, il difrasismo. Tramite un processo di associazione analogica, ciò che viene
considerato come coppia lessicale si riversa in un’unica unità semantica. In base a quanto
afferma Garibay, le diverse convergenze semantiche permetteranno di raggruppare i vari
difrasismi in nuclei concettuali. È così che il difrasismo in tlilli in tlapalli, riferendosi alla
conoscenza, alla tradizione, potrà essere inserito all’interno del nucleo concettuale del mito.
La lettura delle opere di Octavio Paz renderà poi agevole il passaggio verso una
classificazione di un determinato numero di difrasismi,così come appaiono in molti dei suoi
scritti, sin dal titolo,e verso una esposizione dei problemi traduttivi, dettati da una non sempre
chiara corrispondenza tra LO e LM.
Infine, nel terzo capitolo, si realizzerà un’analisi contrastiva dello spagnolo iberico e di
quello americano, con particolare attenzione alla variante messicana. A partire dalla variante
andalusa, sostenuta con fermezza da Peter Boyd-Bowman, che vedeva una predominanza
meridionale dei missionari spagnoli, è possibile delineare alcuni dei tratti fondamentali dello
spagnolo americano, quali: defonologizzazione della laterale /l/ a favore della /y/, tendenza ad
addolcire la /j/, perdita della /-r/ e /-l/ implosive e desonorizzazione delle sibilanti sonore /ẑ/,
/-ż-/ e /ž/ a favore delle corrispondenti sorde /ŝ/, /-ṡ-/ e /š/. Ma oggetto d’esame saranno anche
le principali caratteristiche fonetiche e morfosintattiche: presenza del seseo, ossia,
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realizzazione di c e z come /s/; yeísmo, che consiste nella defonologizzazione dell’opposizione
/y/ - /ʎ/ a favore del primo fonema; assorbimento del pronome vos a discapito di quello
personale tú; sostituzione del pronome personale di seconda persona plurale vosotros con
quello di terza persona plurale ustedes.
Spostando il raggio d’azione sulla variante messicana, Max Leopold Wagner spiega
come lo spagnolo che arrivò in America fu quello dell’epoca della Conquista, e, dunque, uno
spagnolo preclassico, arcaico, che veniva fatto risalire alla natura medievale dei primi
conquistadores. E in proposito, particolare attenzione meriterà il concetto di arcaicità –
erroneo, secondo Lope Blanch, in quanto, con esso, venne operata un’identificazione della
norma madrilena con quella spagnola – e il concetto di influenza indigena, che ha portato,
secondo lo stesso linguista, ad una situazione di bilinguismo. Verranno dunque esaminati i
tratti peculiari dello spagnolo parlato in Messico, tra i quali annoveriamo: indebolimento delle
vocali atone, denominate vocali caedizas, con possibile elisione delle stesse; conservazione
della consonante /-s/ in posizione finale di parola; riduzione del paradigma verbale
“accademico”, così definito da Lope Blanch; mancanza della desinenza –ré indicante il
futuro; pluralizzazione del pronome lo; abbondante uso di diminutivi, definiti da Reynoso
Noveron come “attrezzi discorsivi” a disposizione dei parlanti, utilizzati per la costruzione
della propria concezione dell’evento linguistico, e presenza di termini di origine náhuatl,
provenienti dal substrato indigeno.
Infine, verrà proposta una lettura dell’opera di Juan Rulfo, El llano en llamas, a cui
verrà affiancata l’analisi della traduzione italiana ad opera di Maria Nicola. Verranno quindi
rintracciati tutti quei tratti tipicamente messicani presenti nel testo primario, per portare alla
luce possibili difficoltà traduttive riscontrate dalla traduttrice italiana. Da quest’analisi
contrastiva emergerà non solo la difficoltà del compito del traduttore, in bilico tra il criterio
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dell’adeguatezza e dell’accettabilità, ma anche la sfida intellettuale ed etica che esso comporta
in quanto vera e propria prova di sé e dell’estraneo.
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CAPITOLO 1
IL TIPO MESSICANO
Esistono buone ragioni per proporre quale oggetto di studio e punto di partenza per l’analisi
della cultura messicana la figura del pelado
1
. Si tratta di un vero e proprio tipo antropologico
che indica un uomo virile e scettico, pessimista e passionale che – secondo alcuni autori ai
quali qui si farà riferimento – ha impedito che potesse esistere una cultura messicana
autentica, nel senso di “propria”. In un mondo dove la forza e il coraggio arrivano a sostituire
la cultura e la scienza, dove l’assimilazione e il mimetismo prevalgono sul potere del tempo;
in un mondo che chiude le porte alla speranza, esiste un uomo. Un uomo che fa di se stesso
nessuno, perché sa che tutti siamo nessuno e che dunque non esiste nessuno di noi; un Don
Nadie
2
.
In questa ricerca, o meglio consapevolezza del nulla, l’uomo messicano non è libero di
fare una sospensione, una messa fuori gioco temporanea dalla vita, dal mondo. Ma – secondo
quanto afferma Ortega y Gasset in una lezione intitolata Ensimismamiento y alteración
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, è
proprio qui che risiede la differenza tra uomo e animale: nella possibilità di sospendere il
proprio stare al mondo per stare dentro se stessi. L’uomo dovrebbe entrare in un luogo
proprio, distogliere l’attenzione da ciò che lo circonda, raccogliersi in se stesso. E ciò nella
consapevolezza che non si tratta di un privilegio ma una necessità. La necessità di una cultura
che dovrebbe trattenere il respiro per ripresentarsi al mondo con un progetto, una speranza.
1
S. Ramos, El Perfil del Hombre y La Cultura en México, México, Espasa-Calpe Mexicana, S.A., 1982, p. 52.
2
O. Paz, El laberinto de la soledad, Postdata, Vuelta al laberinto de la soledad, México, Fondo de Cultura
Económica, 1994, p. 16.
3
J. Ortega y Gasset, Ensimismamiento y alteración. Meditación de la técnica, Buenos Aires, Espasa-Calpe,
1939. In questo saggio vengono affrontate problematiche inerenti all’interiorità dell’uomo, analizzando tre
momenti nella vita dell’uomo strettamente connessi tra di loro: l’uomo si sente perduto, naufrago tra le cose: è
l’alterazione; poi riesce a immergersi in se stesso, per farsi un’idea sul possibile controllo delle cose: è
l’ensimismamiento; poi torna nel mondo per agire conformemente al piano concepito: è l’azione o vita attiva. (G.
Ferracuti, José Ortega y Gasset: esperienza religiosa e crisi della modernità, Trieste, Mediterranea, 2013, p. 85.)
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1.1Un Messico mimetico
La cultura messicana è stata da sempre caratterizzata da un alto indice di inautenticità, sia per
l’influenza di altre culture, principalmente quella spagnola, ma anche francese e statunitense,
sia per dei contesti storici nei quali il popolo messicano è stato letteralmente lanciato, gettato
4
.
Ed è così che, nel tracciare il profilo di questa cultura, si ricorrerà a una accezione soggettiva
della cultura stessa, proprio in ragione dell’assenza di una cultura originale, e dunque
oggettiva
5
.
“Mimetismo” è stata la parola d’ordine del popolo messicano che, in un clima di
instabilità e di disordini politici, all’ombra di un avvenimento importante quale
l’Indipendenza
6
, non può attuare quell’ensimismamiento, e dunque non può dar vita ad una
nuova cultura. Altrettanto inafferrabile sembra la possibilità di un’assimilazione, in quanto
quel qualcosa da trasformare, quegli ingredienti da assimilare, erano stati resi amari dalla
conquista spagnola; i messicani assimilarono qualcosa, perdendo il loro carattere originale,
attuando così una assimilazione traumatica. D’altronde, uno dei motivi per i quali si imita è la
necessità di raggiungere un obiettivo nel minor tempo possibile. È proprio in questa
4
Quella che è stata definita come una condizione di “gettatezza” del popolo messicano è da ricondurre ad un
concetto cardine di un’opera che ben conoscevano gli “hiperiones”, vale a dire, il gruppo di studiosi che si
raccolse attorno alla figura di José Gaos. Ci si riferisce qui al capolavoro di Martin Heidegger del 1927 intitolato
Sein und Zeit. E non è un caso che la traduzione spagnola ad opera di José Gaos fu una delle prime a vedere la
luce. Cfr. M. Heidegger, El ser y el tiempo, trad. di J. Gaos, México, FCE, 1951, § 38, pp. 195 e ss: “La ‘caída’ y
‘el estado de yecto’”. Cfr. M. Heidegger, Essere e tempo, a cura di P. Chiodi, Milano, Longanesi, 1976, § 38, pp.
221 e ss: “Deiezione ed esser-gettato”.
5
Samuel Ramos nella sua opera El perfil del hombre y la cultura en México, México, Espasa-Calpe Mexicana,
S.A., 1982, opera una distinzione tra accezione oggettiva e soggettiva della cultura. Per ciò che riguarda il
Messico si può utilizzare un’accezione soggettiva proprio perché non si tratta di una cultura originale, propria di
questo paese, ma di un risultato dei vari processi di assimilazione e di imitazione della cultura europea e degli
Stati Uniti.
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L’Indipendenza messicana (1810-1821) ebbe inizio da alcune rivoluzioni contadine di meticci e indios contro i
signori coloniali che, stanchi della dominazione spagnola, con a capo don Miguel Hidalgo y Costilla, mossero
alla conquista del paese. Catturato e fucilato, a Hidalgo successe José María Morelos y Pavón che riuscì ad
elaborare un programma politico che, oltre all’Indipendenza, prevedeva la soppressione delle differenze di casta
e rivendicava la sovranità di Ferdinando VII sulla Spagna. Il 14 settembre 1813 ebbe luogo a Chilpancingo il
primo Congresso costituente che proclamò l’Indipendenza nazionale. Sconfitto Morelos, gli indipendentisti
vennero bloccati, ma gli animi si accesero di nuovo quando alla rivoluzione parteciparono anche i creoli. Grazie
alla presenza di Vicente Guerrero e all’intermediario Agustín de Iturbide, il 24 febbraio 1821 venne proclamato
il Plan de Iguala. Tale piano prevedeva: l’indipendenza del Messico dalla Spagna; la religione cattolica come
unica religione; l'unione degli eserciti che lottavano nella guerra d'indipendenza. In base a questo piano, il
governo avrebbe accettato il Messico come nazione indipendente governata da una monarchia moderata.
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