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rilevanza politica di un fenomeno primariamente economico. Questi
studiosi, basandosi sull’assunto che per comprendere i problemi
commerciali, monetari e dello sviluppo economico occorra
l’integrazione fra le prospettive teoriche della scienza economica e
quelle della scienza politica, hanno visto le imprese multinazionali
non tanto come attori transnazionali politicamente neutrali, quanto
come agenti dell’espansionismo economico americano prima,
giapponese poi.
1
Secondo questa prospettiva è infatti possibile
stabilire un parallelo fra il ruolo svolto dalla Gran Bretagna nella
diffusione del liberalismo economico e del libero scambio nel XIX
secolo, il periodo cioè della Pax Britannica, e l’esperienza statunitense
del secondo dopoguerra, quando l’emergere della potenza americana
ha rappresentato la cornice politica entro cui agivano le multinazionali
americane, in rapida espansione nell’allora Mercato Comune
Europeo.
2
Le conseguenze politiche di tale ampia presenza sono ad
esempio rappresentate dalle rigide prese di posizione di personaggi del
calibro di De Gaulle e di altri nazionalisti dell’Europa Occidentale, del
Canada e del Terzo Mondo che vedevano appunto queste grandi
imprese come agenti dell’imperialismo americano, secondo
un’opinione assai diffusa negli anni Sessanta ed esemplificata
dall’esortazione dello scrittore francese Servan-Schreiber a
fronteggiare la «sfida americana». Negli anni Ottanta, tuttavia, nei
paesi avanzati posizioni critiche di tale natura sono scomparse.
L’espansione all’estero delle multinazionali americane è rallentata ed
un flusso inverso di investimenti giapponesi ed europei negli Stati
1
Cfr. R. Gilpin, Politica ed economia delle relazioni internazionali, Bologna, il Mulino, 1990, p. 10. Qui si
può trovare una visione di come le relazioni internazionali si siano trasformate negli ultimi decenni in virtù
dell’interazione fra stato e mercato ed in particolare un’analisi di fattori prettamente economici come gli
scambi commerciali, i problemi monetari e gli investimenti esteri realizzata dal punto di vista della political
economy.
2
Bisogna tuttavia distinguere fra prospettiva liberale da una parte e prospettiva marxista e nazionalista
dall’altra. La prima, come nel XIX secolo aveva visto con favore il commercio in quanto forza di pace,
ritiene ora che i vincoli produttivi, di formazione relativamente recente, fra Stati e grandi imprese di diverse
nazionalità creino legami di mutuo interesse che ammortizzano la tendenza storica che porta allo sviluppo
ineguale delle singole economie nazionali e quindi ai conflitti economici. Coloro che seguono la tradizione
leninista e quella nazionalista sono più scettici ed al contrario sono dell’avviso che queste alleanze fra Stati e
grandi imprese frammenterà l’economia mondiale in blocchi e raggruppamenti rivali. Le imprese
multinazionali sono quindi viste, da un punto di vista politico, alternativamente come strumento di
cooperazione economica o di conflitto fra i capitalisti. Cfr. R. Gilpin, op. cit., pp. 350-351.
6
Uniti ha cominciato a produrre un incrocio di investimenti diretti tra
queste economie avanzate. In realtà è cresciuta l’apprensione per la
crescita degli investimenti giapponesi negli Stati Uniti ed in Europa
Occidentale, particolarmente pronunciata durante la seconda metà
degli anni Ottanta e concentrata soprattutto nei settori ad alto
contenuto tecnologico e ad elevato tasso di sviluppo.
3
Precisamente si è parlato a questo proposito di
neomultinazionalismo,
4
intendendo con questa espressione quella
situazione in cui l’egemonia americana è stata soppiantata durante gli
anni Ottanta da una posizione di forza posseduta, questa volta, dalle
imprese multinazionali giapponesi. In questo nuovo scenario alcuni
cambiamenti fondamentali si sono delineati: in primo luogo alla
proprietà e controllo completi delle proprie consociate le imprese
americane hanno preferito una grande varietà di accordi negoziati:
concessioni reciproche di licenze fra imprese di diversa nazionalità,
joint ventures, intese per la disciplina del mercato, produzione
all’estero di componenti, partecipazioni azionarie incrociate.
5
Negli
Stati Uniti anche l’atteggiamento verso gli investimenti all’estero ha
cominciato a cambiare; anche se l’opinione pubblica ha continuato ad
essere favorevole alle multinazionali, sempre più spesso si sono messi
in discussione gli investimenti esteri diretti, soprattutto in quegli
3
Dopo il picco raggiunto nel 1990 dai flussi di investimenti esteri diretti in uscita dal Giappone (48 miliardi
di dollari statunitensi), l’aumento fatto registrare di recente, nel 1995, rimane comunque di entità molto
inferiore, essendo stato raggiunto un livello di soli 22 miliardi. Il calo fatto registrare durante i primi anni
Novanta dagli investimenti realizzati all’estero dal Giappone deve essere imputato in gran parte ad una
contrazione sia delle operazioni attuate da banche e compagnie di assicurazione che degli acquisti di beni
immobili esteri. Anche gli investimenti nel settore produttivo sono diminuiti in questo periodo pur in misura
inferiore rispetto al settore dei servizi e solo in relazione a determinate localizzazioni: in primo luogo
l’Europa e poi gli Stati Uniti, ai quali a partire dal 1989 è stata preferita l’Asia. Cfr. OECD, Recent Trends in
Foreign Direct Investment, in «Financial Market Trends», LXIV, giugno 1996, p. 40.
4
Cfr. R. Gilpin, op. cit., pp. 338 e ss.
5
Nonostante le differenze terminologiche riscontrate fra i vari autori, da un punto di vista giuridico si
distingue fra costituzione all’estero di sedi secondarie (branches) da un lato e di società controllate dall’altro.
Nel primo caso un’impresa crea propri organi dotati di stabile organizzazione, ad esempio uffici, facenti parte
integrante dell’impresa stessa; essendo quindi semplici emanazioni dell’impresa, le sedi secondarie sono
prive di autonoma personalità giuridica. Al contrario le società controllate sono persone giuridiche a se dal
punto di vista formale, avendo un proprio capitale, propri organi, propri amministratori e così via. Cfr. M.
Arato, La collaborazione fra imprese nel commercio internazionale, pp. 451 e ss. in A. Frignani (a cura di), Il
diritto del commercio internazionale, Milano, IPSOA, 1990. A loro volta le società controllate, definite
affiliate (affiliates), possono essere distinte in consociate (subsidiaries), se la partecipazione azionaria della
casa madre è piuttosto rilevante, normalmente non inferiore al 25%, ed associate (associates) se la
partecipazione è minore, comunque almeno del 10%. Cfr. N. Acocella, Imprese multinazionali e investimenti
diretti, Milano, Giuffrè Editore, 1975, p. 5, nota 6. Fatta questa precisazione, in seguito tali termini potranno
essere utilizzati come sinonimi.
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ambienti maggiormente coinvolti nel declino dei settori tradizionali e
più afflitti da tassi di disoccupazione. Si è osservato come il capitale,
al pari della forza lavoro degli altri paesi, ottenga benefici dagli
investimenti all’estero, ma come la forza lavoro americana venga
danneggiata dall’esportazione di capitali senza riceverne alcun effetto
compensativo. In risposta a questo mutamento, le multinazionali
americane hanno fatto qualche piccolo passo verso la riduzione della
produzione all’estero e l’aumento dell’esportazione di prodotti
fabbricati negli Stati Uniti.
Una preoccupazione a più lunga scadenza consisteva nel
cosiddetto effetto boomerang. Secondo queste posizioni critiche
l’aumento del ricorso alle subforniture e alle importazioni di
componenti avrebbe costituito sì a breve termine un modo per
contrastare la concorrenza straniera, ma successivamente
l’importazione di queste merci avrebbe indebolito l’industria
americana e accelerato la diffusione verso i potenziali concorrenti
stranieri di tecnologie e di competenze americane. Se infatti nei primi
anni del dopoguerra gli investimenti esteri diretti erano stati utilizzati
per la realizzazione di prodotti maturi per i quali gli Stati Uniti non
possedevano più vantaggi comparati, negli anni Ottanta le
multinazionali americane stavano producendo in misura sempre
maggiore i loro prodotti più nuovi all’estero per importarli
successivamente negli Stati Uniti. A lungo termine questa strategia
fondata sull’aumento della dipendenza dai fabbricanti stranieri di
componenti avrebbe intensificato la pressione della concorrenza
sull’economia americana.
Senza alcun dubbio tuttavia il processo più importante
avvenuto nei primi anni Ottanta è stato rappresentato, come già
accennato, dalla crescente multinazionalizzazione dell’economia
giapponese. In questo periodo l’espansione verso l’estero delle
multinazionali giapponesi è stata veramente notevole. Per quanto a
livello mondiale rappresentasse solo il 7% circa degli investimenti
esteri diretti, essa era particolarmente concentrata nell’industria di
base e nei settori sempre più importanti dell’alta tecnologia e dei
servizi.
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Come reazione alla crisi del petrolio e alla crescita del costo
del lavoro all’interno, le imprese giapponesi, in un primo tempo,
hanno cominciato ad investire nei paesi meno sviluppati per poter
acquisire prodotti semilavorati ad alto contenuto di energia e per
trasferire verso altri paesi asiatici quelle industrie in cui il Giappone
non deteneva più vantaggi comparati. I beni prodotti in questi sistemi
economici a bassa tecnologia sono stati destinati al consumo locale o
all’esportazione verso paesi terzi. Si sono registrati scarsi effetti
boomerang, ovvero l’esportazione di questi prodotti verso lo stesso
Giappone è stata contenuta. In un secondo momento la creazione di
barriere doganali da un lato e l’apprezzamento dello yen dall’altro,
avvenuti a metà degli anni Ottanta, hanno costretto i giapponesi ad
accelerare la produzione estera nei paesi sviluppati cui erano destinati
i prodotti finali. Questo tipo di investimenti esteri diretti è diventato
così importante, sia nel caso del mercato americano che in quello del
mercato europeo, anche se in misura inferiore, tanto da far parlare di
«sfida giapponese». Come le imprese americane durante gli anni
Cinquanta e Sessanta, così anche quelle giapponesi hanno realizzato la
loro internazionalizzazione sfruttando le posizioni di forza da queste
possedute dal punto di vista tecnologico ed organizzativo, anche se in
seguito, come già detto, è stato proprio il Giappone a far registrare
negli anni 1991 e 1992 il maggior calo negli investimenti diretti
realizzati all’estero.
6
Le conseguenze di tutto ciò si sono ripercosse soprattutto negli
Stati Uniti; qui infatti gli investimenti diretti di provenienza straniera
sono aumentati tre volte più rapidamente degli stessi investimenti
esteri realizzati dalle imprese americane. Come evidenzia la tabella 1-
1, nel 1989 gli investimenti esteri diretti in entrata negli Stati Uniti
avevano raggiunto l’entità di quelli realizzati all’estero dalle imprese
americane. Il secondo aspetto di questo declino è rappresentato inoltre
dalla perdita di competitività delle esportazioni americane rispecchiata
da una parte dalla comparsa del deficit sulla bilancia commerciale e
6
La diminuita crescita economica, una minore profittabilità e difficoltà nei mercati finanziari hanno infatti
determinato un’erosione del capitale destinato agli investimenti esteri diretti. Cfr. United Nations Conference
on Trade and Developement (UNCTAD), World Investment Report 1993: Transnational Corporations and
Integrated International Production, New York, Nazioni Unite, 1993, pp. 39-42.
9
dall’altra dalle pressanti richieste di protezione commerciale avanzate
dalle imprese statunitensi, proprio in quelle industrie simbolo della
competitività americana: acciaio, auto ed elettronica. La forte presenza
giapponese qui registrata durante gli anni Ottanta mostrerà invece un
netto calo nel decennio successivo.
Tabella 1-1: Valore d’inventario degli investimenti esteri diretti
(percentuali)
Citato in R. Z. Aliber, The Multinational Paradigm, Cambridge, Massachusetts, The MIT Press, 1993, p. 3.
Qual’è allora l’entità concreta di tali flussi di investimenti?
Nell’ultimo decennio questi hanno fatto registrare un’ulteriore
crescita, in particolare è stato calcolato che durante il periodo 1983-
1989 i flussi di investimenti esteri diretti mondiali siano aumentati ad
un tasso del 28,9% circa, quando invece durante lo stesso arco
temporale le entrate mondiali ed il commercio internazionale, pur
abbondantemente crescenti, facevano registrare aumenti molto più
contenuti, rispettivamente del 7,8% e del 9,4%.
7
Inoltre la portata di
questo trend, accentuatosi a partire dal 1986 come mostra la figura 1-
1, risulta ancora più evidente se si considera che esso segue un
periodo, gli anni Settanta ed i primi anni Ottanta, di sostanziale
stabilizzazione; durante quegli anni da un lato il tasso di crescita
7
Cfr. E. M. Graham, P. R. Krugman, The Surge in Foreign Direct Investment in the 1980s, pp. 13 e ss., in K.
A. Froot (a cura di), Foreign Direct Investment, Chicago, The University of Chicago Press, 1993.
10
realizzato dalle imprese statunitensi in Europa non era superiore a
quello fatto registrare dall’economia europea in generale e dall’altro i
paesi in via di sviluppo, avendo la possibilità di accedere ai prestiti
bancari internazionali come alternativa fonte di finanziamento,
aumentavano le restrizioni agli investimenti diretti delle
multinazionali.
Figura 1-1: OCSE, flussi in entrata e in uscita, 1973-95
Citato in OECD, Recent Trends in Foreign Direct Investment, in «Financial Market Trends», LXIV, 1996,
p.43.
Per quanto riguarda i flussi geografici specifici relativi agli
investimenti sopra descritti, delineatisi nella seconda metà degli anni
Ottanta e confermati anche da dati più recenti, due elementi
fondamentali devono essere messi in evidenza oltre a quanto già detto
in relazione al Giappone, dove la rapida crescita degli investimenti
realizzati all’estero ha sostituito quelli di portafoglio di più breve
durata, precedentemente preferiti ai primi, ed agli Stati Uniti che sono
emersi come il principale paese destinatario di investimenti,
divenendo in alcuni anni importatori netti di capitali. In primo luogo
questo trend di crescita ha interessato soprattutto i paesi
industrializzati, dotati di livelli simili di sviluppo, trattandosi quindi
esclusivamente di un rapporto del tipo Nord-Nord. Ed inoltre la Gran
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Bretagna si è confermata, in termini percentuali rispetto al PNL
(Prodotto Nazionale Lordo), come uno dei paesi più coinvolti nel
processo di globalizzazione, sia in quanto paese investitore che
destinatario di investimenti esteri.
Come già detto queste tendenze sono confermate dai più
recenti dati del 1995, anno in cui gli investimenti diretti all’estero
sono aumentati per la terza volta consecutiva, raggiungendo così un
nuovo record storico. In particolare i flussi in entrata di investimenti
registrati nei paesi dell’OCSE ( Organizzazione per la Cooperazione e
lo Sviluppo Economico) sono aumentati nel 1995 del 50% rispetto
all’anno precedente, mentre gli investimenti da questi realizzati
all’estero hanno mostrato un incremento del 40%, grazie soprattutto
ad una rinnovata vitalità da parte delle imprese statunitensi, inglesi e
tedesche.
8
Questi elementi confermano il ruolo degli investimenti esteri
diretti come uno dei principali strumenti di integrazione economica
internazionale. Un numero crescente di imprese vede infatti
l’espansione all’estero attraverso questi come una necessità, allo scopo
di ottenere un migliore accesso a quei mercati dove si è scarsamente
presenti. A ciò si aggiunge una competizione fra i vari paesi per
attirare sul proprio territorio nazionale gli investimenti esteri,
attitudine tanto nuova quanto di fondamentale importanza nella
determinazione delle tendenze sopra descritte. In particolare i benefici
potenziali che i paesi destinatari possono da questi trarre vanno dal
trasferimento di tecnologie e abilità di vario tipo, ad un migliore
accesso ai mercati esteri dei beni domestici, all’aumentata
competizione all’interno dei mercati nazionali, in modo particolare nel
settore dei servizi ed in tutti quelli che mostrano una struttura di tipo
monopolistico, ed a tutta una serie di effetti positivi sulla produttività
di lungo periodo dell’economia locale. L’importanza assunta dagli
investimenti internazionali è dimostrata anche dai recenti tentativi
attuati dai ministri dei paesi membri dell’OCSE per arrivare alla
stesura di un Accordo Multilaterale sugli Investimenti, al fine di
8
Cfr. OECD, Recent Trends in Foreign Direct Investment, cit., p. 37.
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eliminare le barriere, i trattamenti discriminatori e le incertezze
giuridiche circa gli investimenti esteri.
9
Quali sono allora le cause delle recenti tendenze da questi
mostrate? Se da un lato la crescita degli investimenti esteri diretti può
essere interpretata come un’espansione delle dimensioni delle imprese
multinazionali, dimensioni determinate dalla tensione fra i costi delle
transazioni regolate dal mercato e quelli determinati dalle rigidità delle
multinazionali in quanto istituzioni, dall’altro questa visione, da sola,
non basta a spiegare gli avvenimenti concreti sopra descritti. Ed
ancora se i nuovi miglioramenti nella comunicazione e nella
tecnologia dell’informazione hanno permesso una maggiore
flessibilità delle multinazionali, favorendo così nuovi investimenti
esteri, al tempo stesso essi hanno contribuito a ridurre i costi delle
transazioni di mercato, facendo prevedere al contrario una contrazione
nell’attività delle multinazionali.
In questo studio, la prima parte sarà dedicata all’attività di
produzione internazionale realizzata dalle imprese multinazionali; qui
dopo aver definito nel primo capitolo le principali unità di analisi ed
aver approfondito la definizione di impresa multinazionale in quanto
gruppo di imprese che produce e distribuisce beni in almeno una
nazione straniera, attraverso l’attuazione di investimenti esteri diretti,
si affronteranno nel secondo capitolo le ragioni che hanno indotto ed
inducono tuttora le imprese ad investire all’estero. Verranno così
proposte quattro tipologie fondamentali di attività realizzate dalle
imprese multinazionali: la ricerca di risorse naturali, l’accesso a nuovi
mercati, il miglioramento dell’efficienza ed infine l’acquisizione di
attività o capacità strategiche. Nel terzo capitolo, di tipo prettamente
teorico, saranno invece analizzate le varie ipotesi circa le determinanti
della produzione internazionale. L’argomento è divenuto di così
grande interesse soprattutto a partire dagli anni Settanta-Ottanta che
vede oggi la compresenza di schemi teorici sia complementari che
confliggenti tra loro. Verrà proposta perciò una suddivisione di tali
9
Questo accordo dovrebbe contenere la clausola del “trattamento nazionale”, in virtù della quale l’investitore
straniero deve ricevere gli stessi trattamenti e vantaggi riservati alle società nazionali. Si veda a tale proposito
W. H. Witherell, An Agreement on Investment, in «The OECD Observer», CCII, ottobre-novembre 1996, p.
6.
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teorie in quattro principali raggruppamenti: il primo comprende tutte
le ipotesi che si basano sull’assunzione di concorrenza perfetta nel
mercato dei fattori e/o in quello dei beni. Questo primo gruppo include
in particolare, oltre alle ipotesi delle vendite e delle dimensioni del
mercato, quelle spiegazioni fondate sul movimento internazionale dei
capitali che, in sostanza, collegano gli investimenti esteri diretti
semplicemente alla presenza all’estero di più alti saggi di profitto. Nel
secondo raggruppamento troviamo invece quelle ipotesi che assumono
l’esistenza di imperfezioni dei mercati di tipo sia strutturale che
naturale, rappresentate rispettivamente da una parte dall’approccio
dell’organizzazione industriale, dall’ipotesi del ciclo del prodotto e
dalle ipotesi sulle reazioni oligopolistiche derivanti da quest’ultima e
dall’altra dall’ipotesi di internalizzazione. A tali quattro schemi teorici
è stato poi aggiunto il paradigma eclettico della produzione
internazionale, nonostante esso sia, nelle stesse intenzioni del suo
autore, un paradigma di tipo generale messo a punto per offrire uno
schema analitico cui fare riferimento in occasione di analisi empiriche
particolari. E’ stato comunque analizzato in questo punto della
trattazione vista la sua vicinanza con alcune delle teorie sopra citate. Il
terzo gruppo comprende invece tre ipotesi sulla propensione delle
imprese o dei paesi ad investire all’estero: si tratta dell’ipotesi di
liquidità, di quella delle aree valutarie ed infine di quella proposta
recentemente da K. A. Froot e J. C. Stein. Da ultimo verranno
analizzati due fattori in grado di influenzare radicalmente la
distribuzione degli investimenti esteri diretti: la politica fiscale e le
varie misure adottate dai singoli governi nazionali per disincentivare
o, nella maggior parte dei casi, favorire la presenza di consociate di
imprese multinazionali estere sul proprio territorio.
La seconda parte è stata invece dedicata ad uno studio di tipo
prevalentemente empirico. Nel quarto capitolo sono stati infatti
esaminati gli effetti dell’integrazione economica regionale sugli
investimenti esteri diretti ed a questo proposito ci si è basati sulla
duplice esperienza della creazione in Europa di un’unione doganale
prima e di un mercato interno propriamente detto poi.