5
paese ha adottato per il non profit. Una tecnica normativa per il terzo
settore che sino ad oggi è stata “parcelizzata”
1
, costituita da norme
riferite a singoli soggetti, distinti prevalentemente sulla base delle
caratteristiche organizzative piuttosto che delle finalità perseguite, come
ad esempio il volontariato, le cooperative sociali, le organizzazioni non
governative. La legge delega sull’impresa sociale contribuisce quindi in
primo luogo a sanare questo quadro normativo confuso, talvolta
contraddittorio, di difficile applicazione e, sicuramente non limpido per
quello che riguarda lo svolgimento di attività economicamente rilevanti
da parte delle organizzazioni senza scopo di lucro. Si sono così poste le
basi per una sistemazione organica del variegato mondo delle
organizzazioni con scopi non di lucro, offrendo diverse ed ulteriori
possibilità di articolazione al mondo non profit.
Il Terzo settore, negli ultimi anni, ha subito una vera e propria
“esplosione” nella maggior parte dei paesi europei, ed ha contribuito allo
sviluppo di un nuovo tipo di imprenditorialità che riveste un ruolo
importante non soltanto per le implicazioni sociali, ma anche per le
ricadute occupazionali ed economiche. Una realtà, questa, fortemente
variegata, che comprende soggetti con differenti connotazioni giuridiche,
la cui attività si colloca al di fuori della logica del profitto, propria del
mercato. Sotto la medesima dizione viene, quindi, ricompreso un
insieme estremamente articolato e differenziato di enti e di
organizzazioni, di cui è difficile rintracciare caratteri comuni.
Le varie leggi di settore - si pensi alla legge quadro sul volontariato
(266/91), alla legge sulla cooperazione sociale (381/90), alla legge
sull’associazionismo di promozione sociale (383/2000), alla legge
quadro sui servizi sociosanitari (328/2000), al decreto legislativo sulle
1
“Arriva l’impresa sociale”, Gian Paolo Barbetta, Impresa sociale, 74 (2), 2005, pp 193-197.
6
Onlus (460/97)- hanno contribuito non poco a modificare lo scenario
delle politiche sociali, facilitando e promuovendo la crescita di
importanza del terzo settore nella promozione dei servizi sociali.
Lo Stato, che non è più così sicuro del suo ruolo e che non ha più la
visione che ha caratterizzato le riforme sociali degli anni sessanta e
settanta, proclama in pratica l’esistenza di un cittadino attivo, di un
sistema in cui la pubblica utilità non significa necessariamente gestione
statale. Il concetto di impresa sociale si inserisce perfettamente in tale
sistema in quanto costituita da un assetto organizzativo in grado di
realizzare un equilibrio sostenibile tra l’essere impresa e il perseguire
finalità a carattere solidaristico, in grado di oltrepassare un sistema di
Welfare state e di condurre verso quella dimensione concettuale e storica
in cui pubblico e privato vengono chiamati all’etica della responsabilità.
Con l’introduzione nel nostro ordinamento di una disciplina ad hoc
sull’impresa sociale si è voluto riconoscere l’importante ruolo
dell’imprenditoria sociale all’interno del nostro sistema di welfare,
consapevoli della capacità di determinati soggetti del non profit di
produrre beni sociali in una logica imprenditoriale e della loro capacità
di concorrere allo sviluppo economico e sociale del Paese.
Il presente lavoro illustrerà la disciplina prevista dal legislatore con il
decreto legislativo del 24 marzo 2006, n. 115, non prima però di aver
delineato il percorso che ha portato alla nascita del concetto di impresa
sociale.
Nel primo capitolo si fornisce infatti una definizione di terzo settore, del
settore nel quale rientra l’impresa sociale e di cui ne costituisce una
specie, una particolare categoria normativa nell’ambito delle
organizzazioni senza scopo di lucro. L’impresa sociale non è infatti
semplicemente e genericamente un’organizzazione del terzo settore,
7
perché a quest’ultima categoria si è soliti ascrivere anche le
organizzazioni non imprenditoriali, cioè quelle che non svolgono attività
di impresa. Parimenti l’impresa sociale non è neanche semplicemente e
genericamente un organizzazione non lucrativa, perché rispetto a
quest’ultima è vincolata al perseguimento di particolari finalità, allo
svolgimento di determinate attività ed al rispetto di specifiche regole
organizzative.
La nuova norma definisce le imprese sociali come quelle
“organizzazioni private senza scopo di lucro che esercitano in via stabile
e principale un’attività economica di produzione e di scambio di beni e
servizi di utilità sociale, diretta a realizzare finalità di interesse
generale” (art.1 del D.Lgs.155/2006), in determinati settori di attività
(art.2 del D.Lgs.155/2006). La delimitazione dell’ambito di applicazione
della qualifica di impresa sociale investe quindi sia un profilo soggettivo
che oggettivo, cosi come sarà specificato nel secondo capitolo del
presente lavoro, dove saranno dettagliatamente delineati i requisiti
richiesti dal decreto legislativo n. 155/2006 necessari per poter avvalersi
della qualifica di impresa sociale.
Nel terzo capitolo si riporta la disciplina prevista dallo stesso decreto n.
155 del 2006 per le organizzazioni che decidono di acquisire la qualifica
di impresa sociale, in riferimento alla forma dell’atto costitutivo, alle
procedure concorsuali, alla disciplina della trasformazione, fusione e
scissione, all’esclusione ed ammissione dei soci, alla struttura dei gruppi
di imprese sociali, all’attività di monitoraggio e di controllo.
8
La disciplina dell’impresa sociale è una disciplina dal carattere
trasversale. La stessa Relazione
2
al disegno di legge ha evidenziato che
con tale iniziativa legislativa si è voluto superare la rigida distinzione
prevista dal codice civile del 1942 tra enti del libro I, senza fini di lucro e
destinati al perseguimento di finalità etiche e/o ideali, ed enti del libro V,
finalizzati invece alla produzione in funzione meramente lucrativa o di
mutualità interna di beni e servizi. La nuova disciplina sull’impresa
sociale ha fornito una soluzione organica e traversale ancora mancante
nel nostro ordinamento, ovvero ha permesso di slegare il concetto di
impresa dal quello di profitto, riconoscendo la presenza di imprese che
perseguono finalità diverse dal lucro ed ammettendo quindi la possibilità
per gli enti del primo libro del codice civile di svolgere un’attività
imprenditoriale.
L’art. 1, comma 1 del Decreto legislativo n. 155 del 2006 stabilisce che
“possono acquisire la qualifica di impresa sociale tutte le
organizzazioni private, ivi compresi gli enti di cui al libro V del codice
civile”. L’estensione della qualifica di impresa sociale alle società ha di
fatto ammesso la presenza nell’ordinamento italiano di forme societarie
non lucrative. Sulla scorta di quanto già avviene in altri paesi, nel nostro
ordinamento sembra essere stato accolto il cosiddetto principio della
neutralità delle forme giuridiche, ossia la possibilità per gli operatori
economici di perseguire qualsiasi scopo avvalendosi di qualsiasi forma
giuridica predisposta dal codice civile, non importa se nel primo libro o
nel quinto (capitolo 4).
2
Relazione di accompagnamento dello Schema di decreto legislativo recante: "Disciplina dell'impresa
sociale, a norma della legge 13 giugno 2005, n. 118", presentata al Consiglio dei Ministri nella seduta
del 2.12.2005.
9
Grazie a questa legge “lo svolgimento di attività di impresa non conosce
più steccati e preclusioni quanto a forma giuridica adottata. Del che ha
preso atto anche in questa occasione il legislatore, spingendosi anzi fino
al punto di infrangere la tradizionale cesura tra enti non lucrativi e
società”
3
.
3
“Riflessioni problematiche sulla disciplina dell’impresa sociale”,Andrea Bucelli in “Non profit”
2006.
10
CAPITOLO 1
EVOLUZIONE DEL TERZO SETTORE
1.1 DEFINIZIONE
L’istituto di impresa sociale, quale nuovo soggetto giuridico, è
l’indice più evidente di una concreta emancipazione del “terzo settore”
in un’ ottica di economia civile evoluta.
Espressioni come “terzo settore”, “terzo sistema”, “terza
dimensione”, “non profit”, “privato sociale”, “economia sociale” e
“economia civile” spesso vengono utilizzate ed interscambiate per
descrivere lo stesso fenomeno. La preferenza di una definizione è dettata
dalla scelta di identificarne una specificità, di metterne in risalto un
aspetto, di sottolinearne una tendenza che viene segnalata a seconda
dell’ottica con la quale si affronta il problema, ovvero etico-religiosa,
sociologica, economica o giuridica.
La difficoltà di trovare una definizione “unica” è innanzitutto il
segnale della dinamicità e magmaticità di una realtà che è fatta di diverse
caratteristiche e componenti.
Il Terzo Settore, negli ultimi anni, ha subito una vera e propria
esplosione nella maggior parte dei paesi europei, ed ha contribuito allo
sviluppo di un nuovo tipo di imprenditorialità che riveste un ruolo
importante per le implicazioni sociali, per le ricadute economiche ed
occupazionali. Una realtà che comprende soggetti con differenti
connotazioni giuridiche, la cui attività si colloca al di fuori della logica
del profitto, propria del mercato.
11
Sotto la medesima dizione viene ricompreso un insieme
eterogeneo di organizzazioni caratterizzate da un intento altruistico che
induce i soggetti che ne fanno parte a conferire volontariamente risorse
produttive per dare una risposta a bisogni collettivi non adeguatamene
soddisfatti dal mercato e dall’azione pubblica.
Tale terzo settore si aggiunge ad altri due, quello del mercato e
quello dello Stato, della sfera economica privata e della sfera economica
pubblica. Talvolta li sfiora, ne ripercorre certe logiche, li usa,
mantenendo sempre una sua identità.
4
A tale proposito si è anche
utilizzato in passato, ed anche oggi, una sorta di ossimoro, il “privato
sociale”, volto ad indicare una realtà che ha natura privatistica e nello
stesso tempo persegue obiettivi di natura sociale, o meglio solidaristica,
di risposta ai bisogni della comunità e della società, a cui viene
contrapposta una visione di “pubblico sociale”.
Del cosiddetto Terzo Settore non esiste una definizione normativa
vincolante, ed è per questo che si possono seguire percorsi diversi per
arrivare ad una sua definizione.
Secondo l’Istat e le norme di contabilità nazionale riconosciute a
livello mondiale, rientrano nel settore non profit tutte le organizzazioni
private che sono sottoposte al vincolo della non distribuzione degli utili.
Il settore, così determinato, viene poi distinto in attività market e non
market, a seconda che i proventi derivanti da attività di vendita di beni e
servizi superino o no il 50% delle spese di organizzazione. Tale
definizione non include le cooperative sociali.
Una definizione più articolata e dettagliata del terzo settore è
quella fornita dalle ricerche di tipo socio-economico. Essa, basandosi
4
“ L’ABC DEL TERZO SETTORE: lavoro/ progettazione/ finanziamenti/ leggi/ comunicazione”.
Lunaria, Edizioni lavoro, 2001, pp 12.
12
sulle caratteristiche operative- funzionali delle imprese sociali, esclude
dal terzo settore quelle organizzazioni troppo paramercato (associazioni
di categoria, professionali, ecc.) o para-stato, o con vocazione
eccessivamente corporativa e non solidaristica (partiti politici, sindacati,
ecc.). Allo stesso tempo, ponendo l’accento sui modelli operativi e le
forme produttive, estende l’universo anche a quelle organizzazioni che,
pur avendo la possibilità di distribuire utili, sono riconducibili al settore:
è il caso delle cooperative sociali. Tale definizione si basa su tre criteri
piuttosto semplici: le organizzazioni non profit sono costruite
formalmente, private e soggette ad un vincolo di non distribuzione dei
profitti.
5
L’insieme così definito comprende organizzazioni assai diverse
tra loro, ma risulta più utile della definizione adottata dalla contabilità
nazionale perché più vicina a quello che comunemente si intende per
terzo settore.
Ulteriori analisi, essenzialmente basate sullo studio del potenziale
occupazionale del settore, hanno evidenziato come solo quei modelli che
realmente si discostano dalle forme produttive profit possono dare un
contributo innovativo alla creazione di nuova occupazione; si è costruita
così una definizione di Terzo Settore in cui presenza del volontariato,
democrazia interna, partecipazione ai processi decisionali, legame col
territorio e attenzione ai nuovi bisogni sono caratteristiche
imprescindibili.
Tali definizioni permettono di individuare alcune caratteristiche
fondamentali a cui le organizzazioni del terzo settore dovrebbero
rispondere, ovvero essere formalmente costituite, essere di natura
privata, essere autogovernate, non distribuire tra i propri membri
5
“ IL SETTORE NON PROFIT ITALIANO. Occupazione, welfare, finanziamento e regolazione”;
Gian Paolo Barbetta; Il Mulino – 2000.
13
eventuali profitti derivanti dalle attività, avere una presenza significativa
di volontariato, avere finalità di utilità sociale ed avere una struttura
democratica.
Nonostante non vi sia una definizione legislativa di terzo settore,
la formula “terzo settore” compare invero nella legge 8 novembre del
2000, n. 328, “Legge quadro per la realizzazione del sistema integrato
di interventi e servizi sociali”, la cosiddetta legge quadro sull’assistenza.
Al terzo settore è infatti dedicato l’art. 5 della legge che, al comma
1, impone ad enti locali, regioni e stato di promuovere azioni per il
sostegno e la qualificazione dei soggetti operanti nel terzo settore per
favorire l’attuazione del principio di sussidiarietà. La legge 328 non
definisce direttamente i “soggetti operanti nel terzo settore”, ma in modo
indiretto allorché all’ art. 1, comma 4, fa riferimento agli “organismi non
lucrativi di utilità sociale, agli organismi della cooperazione, alle
associazioni e agli enti di promozione sociale, alle fondazioni e agli enti
di patronato, alle organizzazioni di volontariato, agli enti riconosciuti
delle confessioni religiose con le quali lo Stato ha stipulato patti,
accordi o intese operanti, quali soggetti il cui ruolo nella
programmazione, nella organizzazione e nella gestione del sistema
integrato di interventi e servizi sociali gli enti locali, le regioni e lo stato
sono tenuti a riconoscere ed ad agevolare”. Diverso invece il disposto
dell’art. 1, comma 5, dove si afferma che “alla gestione ed all’offerta dei
servizi provvedono soggetti pubblici nonché, in qualità di soggetti attivi
nella progettazione e nella realizzazione concertata degli interventi,
organismi non lucrativi di utilità sociale, organismi della cooperazione,
organizzazioni di volontariato, associazioni ed enti di promozione
sociale, fondazioni, enti di patronato e altri soggetti privati”; diverso in
quanto compare un’elencazione conclusa con la clausola di apertura
14
“altri soggetti privati”, che potrebbe dilatare eccessivamente i confini
del terzo settore o meglio metterne nel nulla la stessa categoria. Tale
diversità tra i commi 4 e 5 dell’art. 1 non permette di individuare in
modo univoco da quali organismi debba essere composto il terzo settore,
se da quelli elencati in entrambi i comma di cui sopra o dall’elenco di
uno dei due.
Probabilmente il comma 5 non fa riferimento a quei soggetti del
terzo settore che ai sensi dell’art. 5 e dell’art. 1 comma 4, devono essere
riconosciuti ed agevolati, ma semplicemente ai soggetti che possono
realizzare interventi e servizi sociali, e dunque, inevitabilmente, a tutti i
soggetti privati, posta la libertà di assistenza privata ai sensi dell’articolo
38, comma 5, della Costituzione. Pertanto è il comma 4 dell’articolo 1,
in combinazione con l’articolo 5, che fornisce la nozione di
organizzazioni di terzo settore ai sensi della legge 328
6
.
In conclusione quella di terzo settore è innanzitutto una nozione
stipulativa mediante la quale si fa riferimento a tutte le i) organizzazioni
ii) private iii) senza scopo di lucro iv) che forniscono beni e/o servizi di
utilità sociale ovvero che perseguono finalità collettive o che agiscono
nell’interesse generale. Il carattere “privato” e “non lucrativo” è alla base
della stessa denominazione del settore, là dove “terzietà” è data dal
giustapporsi al settore pubblico da un lato e a quello lucrativo dall’altro.
6
“La legge delega sull’impresa sociale e i futuri scenari per il terzo settore” , Antonio Fici in
Impresa Sociale, 74 (2), 2005.