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INTRODUZIONE
Io aspetto il gran giorno
in cui il Regno dell’Utile
sarà rinverdito dalla cultura,
dalle metafore, dall’intelligenza.
Leonardo Sinisgalli
Uomo e macchina divenne un binomio inscindibile fin dalla metà del XVIII
secolo, quando cominciò a operare la prima filatrice “Jannette”, questi due
elementi iniziarono così a vivere in simbiosi e in antagonismo. Le macchine,
sempre più evolute tecnologicamente, e in seguito la catena di montaggio
invasero l’Europa ed il resto del pianeta. I riflessi che la meccanizzazione portò
sui modi di produrre, sui lavoratori e nella vita in generale non tardarono a
manifestarsi palesando all’interno dei saperi una scissione crescente. Il fenomeno
era di portata mondiale tanto che nel 1959 Charles P. Snow pubblicò un celebre
pamphlet dal titolo Le due culture e la rivoluzione scientifica, ponendo
definitivamente in crisi l’idea di cultura unitaria. L’analisi di Snow – semplice e
tagliente – non lasciava scampo: scienziati e umanisti vivono in mondi separati.
Un fecondo contatto, dovuto alla commistione e innesto, fra arte e scienza
era però già in corso d’opera grazie alla politica culturale di alcune aziende, al
fiorire delle riviste di fabbrica e di prodotti editoriali aziendali, ben prima che le
tesi di Snow giungessero in Italia o che Elio Vittorini aprisse l’importante
dibattito culturale sulla letteratura industriale con il quarto numero de «Il
Menabò» nel 1961.
Proprio dall’inizio degli anni Cinquanta inizia a essere comune un
inserimento di uomini di cultura all’interno del mondo industriale, in
concomitanza con lo sviluppo di strutture integrative del nucleo aziendale, quali
le pubbliche relazioni, gli uffici stampa e di pubblicità e le riviste interne. Le
maggiori aziende italiane avevano visto nella stampa uno strumento
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fondamentale per una moderna comunicazione d’impresa. La valorizzazione del
fattore umano trovò spazio nelle più importanti teorie organizzative segnando un
vero e proprio boom della stampa aziendale, della pubblicità e delle pubbliche
relazioni. Nascono così, in quel periodo, riviste che hanno avuto una profonda
influenza nella società e sulla cultura italiana. Le industrie italiane culturalmente
più vivaci furono: l’Olivetti, la Pirelli e la Finmeccanica che pubblicarono
rispettivamente i seguenti house organs: «Comunità», «Pirelli» e «Civiltà delle
Macchine».
Come si avrà modo di vedere nel primo capitolo, ai beni di prima necessità
forniti nell’immediato dopoguerra, seguiva un nuovo orientamento dei consumi
mirato a beni diversi non più fondamentali ma rappresentativi di uno status
sociale. Il marketing, le analisi di mercato e gli studi sui consumatori entravano a
far parte dei bilanci e delle risorse delle aziende. I magazine pubblicati dalle
grandi aziende avevano come principale contenuto editoriale gli affari della
società stessa ed erano destinati ai clienti reali o potenziali, ai rivenditori e alle
persone interessate all’impresa. Il contenuto editoriale era generalmente
costituito da articoli relativi alla crescita della società, ai progressi tecnologici, al
prodotto sviluppato e a qualsiasi altra informazione che aiutasse a vendere
prodotti o i servizi dell’azienda. Lo scopo di queste pubblicazioni era ed è quello
di presentare un’immagine della società e delle sue operazioni al pubblico interno
o esterno all’azienda.
Durante il miracolo economico la stampa aziendale costituì dunque un
importante capitolo nell’evoluzione della cultura d’impresa. Fu con la rivista
«Civiltà delle Macchine» che si creò il più interessante incontro fra le due culture
di cui si accennava, tanto da rappresentare ancor oggi una sorta di manifesto del
pensiero sui saperi scientifici, tecnici ed estetici degli anni Cinquanta. Il
suggestivo e complicato rapporto fra uomo e macchina, nelle sue più diverse
manifestazioni, ha informato le pagine del bimestrale di Finmeccanica, dando
spazio con molto anticipo a dibattiti su problemi di non poco conto che la
meccanizzazione a tappe forzate della produzione e dell’agricoltura stava
portando all’umanità. «Civiltà delle Macchine» ha la sua storia speciale, perché
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ha inciso profondamente non solo nella cultura di un gruppo imprenditoriale, ma
addirittura del Paese. Compito di questo lavoro sarà tracciarne la genesi e gli
sviluppi seguendo la traiettoria storica dei suoi principali protagonisti: la
finanziaria Finmeccanica, il manager di alto profilo Giuseppe Eugenio Luraghi e
l’uomo che, prima ancora di raccogliere la sfida delle due culture, ne era il
portatore attivo Leonardo Sinisgalli, di cui si parlerà nel secondo capitolo.
Il primo numero della rivista vide la luce nel gennaio del 1953 per conto
della Finmeccanica. La Società Finanziaria Meccanica Finmeccanica era nata nel
marzo del 1948 per gestire le partecipazioni nell’industria meccanica e
cantieristica acquisite dall’Istituto per la Ricostruzione Industriale. Le attività
legate alla Finanziaria erano quelle che più avevano subito le devastazioni della
guerra e la loro ricostruzione e rapida conversione a impieghi civili non
presentavano prospettive incoraggianti. Molti settori dell’industria manifatturiera
erano sotto il controllo della Finmeccanica: aeronautica, applicazione, calcolo,
astronautica, metallurgia, chimica, cibernetica, cantieri navali, ferrovie, fisica,
matematica e automobilistica. Gli amministratori delle aziende del gruppo
avevano il compito di trovare nuovi mercati e nell’immediato diversificare i
prodotti per aziende che sarebbero rimaste al centro dell’economia italiana per
molti anni a venire: Ansaldo, Alfa Romeo, San Giorgio, Sant’Eustacchio,
Navalmeccanica, Cantieri Navali dell’Adriatico.
«Civiltà delle Macchine» nacque per espresso volere dell’allora Direttore
Generale Giuseppe Luraghi, già fondatore di «Pirelli» nel periodo in cui ricoprì il
ruolo di direttore centrale del Gruppo Gomma della società dal 1948 al 1952.
Nella rivista aziendale della Pirelli è possibile scorgere tematiche, esperimenti e
linee guida che saranno in seguito riprese e ampliate da «Civiltà delle
Macchine». La nascita del bimestrale di Finmeccanica ha quindi un illustre
antecedente. Le linee di continuità e discontinuità fra le due riviste aziendali
saranno analizzate nel terzo capitolo che ripercorrerà la nascita e gli sviluppi di
questi prodotti editoriali alla luce delle strategie di comunicazione e di politiche
culturali dei rispettivi gruppi industriali.
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Pur pressato da un lavoro manageriale complicato dalle ingerenze politiche,
Luraghi, come già aveva fatto presso la Pirelli, voleva affiancare al compito di
risanamento delle aziende una precisa identità pubblica di Finmeccanica. A
dirigere il nuovo progetto editoriale fu chiamato Leonardo Sinisgalli che ne
rimase direttore fino al secondo numero del 1958, anno in cui vi fu un
cambiamento di proprietà all’interno della Finmeccanica. Cinque anni in cui alla
rivista fu data una linea editoriale indelebile, tanto da potersi considerare
ampliamente slegata dal successivo ventennio di pubblicazione. In quegli anni,
infatti, il disegno programmatico di Luraghi e Sinisgalli viene sviluppato con la
massima coerenza, lasciando una traccia forte nella storia della cultura ma anche
dell’impresa.
Laureatosi nel 1932 in ingegneria industriale, Sinisgalli può essere
considerato un caso unico ed eccezionale, nel passato secolo, d’incontro fra
cultura umanistica e scientifica, fu autore di poesie e racconti e ricoprì incarichi
manageriali per molte delle maggiori aziende nazionali.
Proprio dall’ambivalenza e poliedricità del suo direttore «Civiltà delle
Macchine» trasse la peculiarità di essere a metà strada fra una rivista culturale e
un house organ. Innovativa sia dal punto di vista grafico che contenutistico la
rivista di Sinisgalli funzionò come una sorta di “tribuna”, sempre più prestigiosa
e ambita, in cui confluivano gli interventi di artisti, ingegneri, letterati, filosofi,
fisici, critici d’arte e scrittori riguardanti il rapporto fra l’uomo e la macchina, le
attività industriali, la pubblicità e il design. «Civiltà delle Macchine» nacque con
l’obiettivo di contribuire all’avvicinamento fra la cultura umanistica e quella
tecnologica, dimostrando come tra questi termini non vi sia contrasto e tanto
meno scontro, ma una complessa, difficile e tuttavia possibile, saldatura ricca e
stimolante. All’interno della rivista si possono trovare, negli anni di direzione
sinisgalliana, una quantità di temi così diversi da rendere particolarmente arduo
un’omologazione degli interventi.
Lo scopo di questo lavoro vuole essere un confronto con i testi, seguendo
alcune linee interpretative che mostrino la storia dell’imprenditoria di quegli
anni, in particolar modo il capitalismo illuminato e il ruolo culturale
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dell’industria, inteso quasi come una moderna responsabilità d’impresa. A uno
studio delle lettere al direttore che aprono i fascicoli, solitamente di uno scrittore
famoso (nel primo numero è presente quella di Giuseppe Ungaretti, un vero e
proprio manifesto della rivista), seguirà un’analisi delle “visite in fabbrica”. La
visita guidata presso cantieri e officine da parte di scrittori, poeti, pittori scultori
nasceva con il preciso scopo di mettere questi in confronto diretto con l’ambiente
industriale, idea dello stesso Sinisgalli. Anche questi articoli possono essere presi
in considerazione come documenti riguardanti l’industria, le macchine, le
trasformazioni della realtà produttiva, economica e sociale italiana alle soglie del
boom economico. A una consistente raccolta di saggi e articoli, dedicata alla
conoscenza diretta della realtà industriale ad opera di personaggi ben lontani da
quel mondo, come ad esempio le celebri iniziative di scuole elementari inviate
con i loro maestri all’interno di alcune fabbriche, faranno da contraltare le
precedenti visioni della macchina offerte dal Movimento Futurista promosso da
Marinetti. All’interno della rivista stessa è possibile rintracciare più di un articolo
incentrato sulle correnti letterarie d’inizio Novecento. La lunga storia delle
macchine costruite dall’uomo, però, trova un punto di riferimento unico nella
figura di Leonardo da Vinci, non a caso nume tutelare della rivista. Oltre a questi
aspetti nel quarto capitolo si cercherà di fare luce su una possibile dichiarazione
di poetica da parte della rivista, al di là degli stilemi rintracciabili nelle “visite in
fabbrica”. Fin da ora si può però certamente affermare che la posizione offerta da
«Civiltà delle Macchine» era in contrasto con una cultura ufficiale fossilizzata su
posizioni conservatrici, restia non solo ad accogliere l’idea di demolire la barriera
fra scienza e poesia, ma anche a tollerare l’attuazione di progetti basati su una
contaminazione reciproca tra queste due visioni del mondo.
Pur non avendo rubriche definite, ogni singolo scritto rispose all’intento
principale di portare una nuova e prestigiosa testimonianza di quelli che
sembravano cambiamenti esclusivamente positivi. Vi furono però anche altre
isolate chiavi di lettura di cui si terrà conto. Si cercherà inoltre di mettere per
quanto possibile a confronto il significato estetico delle macchine e le differenze
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interpretative della loro presenza che diede il bimestrale rispetto alla nascente
letteratura industriale.
A una parziale lettura sembra emergere un positivismo e un’accettazione
entusiastica del fatto tecnologico, dovuto non solo all’ovvia predisposizione al
progresso della società proprietaria della rivista, ma rispondente a un preciso
momento storico in cui sembrava che la macchina, dispensatrice di benessere,
fosse destinata a liberare l’uomo dalle sue fatiche. Nel volgere di una decade gli
scrittori antologizzati da Calvino e Vittorini all’interno del quarto numero della
rivista «Il Menabò» daranno del fatto tecnico, della macchina, del lavoro
industriale e del capitalismo di quegli anni un giudizio di tutt’altro segno.
Nell’ultimo capitolo si prederanno dunque in considerazione le discussioni
aperte dall’incendiario articolo dello scrittore siciliano dal titolo Industria e
letteratura e alcuni esempi di narrativa nata da intellettuali che erano entrati in
contatto con il mondo della grande azienda. La breve stagione della letteratura
industriale vide impegnati principalmente narratori cosiddetti “minori” e i
migliori esempi furono frutto d’intellettuali impiegati direttamente negli uffici
della Olivetti. La rappresentazione di una macchina nemica dell’uomo e il lavoro
di fabbrica – visto sempre più come alienante – furono i primi segnali di come la
realtà industriale, e la percezione che l’uomo aveva di questa, andavano
cambiando, come dimostrerà di lì a poco la crescente conflittualità sociale e
sindacale. Non è dunque un caso se durante la prima metà degli anni Cinquanta si
moltiplicarono i periodici aziendali, mentre, già alla fine del decennio, con la
crisi dell’esperimento delle Human relations, essi diminuirono rapidamente. Una
stagione che vide una veloce ascesa e altrettanto rapido declino dell’interesse che
l’intellighenzia italiana ebbe per questi temi, vittima di quell’acceleramento –
sottolineato nella lettera di Ungaretti – portato alla storia dalla macchina.
In quegli anni la comunicazione d’impresa in Italia mosse i suoi primi passi
e, pur lontana dall’attuale grado di specializzazione professionale, lo fece con
luminosissimi esempi, percorrendo approcci e strategie di grande interesse. Non
solo l’industria privata come la Pirelli e l’Olivetti, ma anche quella pubblica
intraprese la strada della propaganda, rivolgendosi ad artisti, designer e
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intellettuali. Nel breve volgere di un decennio giunsero anche in Italia gli influssi
delle tecniche e dei saperi che si andavano sperimentando e consolidando negli
Stati Uniti (erano gli anni di Madison Avenue) e in Germania. Si cercherà
dunque di ricostruire come le aziende di Finmeccanica avanzarono una proposta
per la creazione della loro immagine pubblica.
«Civiltà delle Macchine» oltre a essere considerata un piccolo campionario
del pensiero epocale e a costituire una sorta di summa del pensiero scientifico,
critico, sociologico, estetico quale appariva alla metà del secolo, come la definì
Gillo Dorfles
1
, è anche la rappresentazione di una stagione particolare del
rapporto tra impresa e cultura in Italia, una stagione che va esplorata criticamente
al di là di semplici slanci nostalgici o polverose celebrazioni. Negli anni del
“miracolo economico”, all’interno di alcune imprese italiane maturò una cultura
industriale in grado di fondere il progetto d’innovamento capitalista e un
raffinato gusto umanistico interdisciplinare. Si vide nell’industria un fattore
attivo nella diffusione dell’arte e della cultura considerata come autentico tessuto
connettivo della società. Gli stessi intellettuali assoldati dalla grande industria,
raccontarono con qualche anno di ritardo gli esiti del neocapitalismo illuminato.
1
Vanni Scheiwiller (a cura di), Civiltà delle Macchine. Antologia di una rivista 1937-1957, Milano, Scheiwiller, 1989,
p. XI.
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I – VERSO IL MIRACOLO ECONOMICO: LA
MODERNIZZAZIONE DELL’IMPRESA
Il decennio a cavallo tra gli anni 50’ e 60’ del secolo scorso fu
caratterizzato da un forte sviluppo dell’economia italiana. Diversi furono i fattori
che contribuirono al balzo in avanti. La produzione industriale rilanciata dalle
imprese pubbliche e private fu la protagonista di quest’epoca. I grandi gruppi
industriali furono gli attori principali di quel momento storico in cui si terminava
la ricostruzione e si cercava un nuovo rilancio della produzione. Alcuni dei
maggiori complessi industriali, inoltre, si fecero parte attiva della promozione
culturale. Diverse riviste aziendali avevano visto la luce prima e subito dopo il
secondo conflitto mondiale, nessuna però vantava la peculiarità di essere diretta
emanazione d’imprese controllate dallo Stato.
«Civiltà delle Macchine» nacque alla vigilia del miracolo economico come
organo aziendale della finanziaria di Stato Finmeccanica che raccoglieva ben 29
imprese che gravitavano nel comparto cantieristico e meccanico. Fu Giuseppe
Eugenio Luraghi, divenuto Direttore Generale del Gruppo il 30 novembre del
1951, a decidere di fondare un bimestrale capace di pubblicizzare le attività di
queste imprese dando ampio spazio alla cultura e ai dibattiti intellettuali del
tempo.
I.1. – L’economia di pace
Le distruzioni, i morti e la paralisi del processo produttivo causati dalla
seconda guerra mondiale superarono abbondantemente quelli del precedente
conflitto. La crisi dell’economia mondiale e l’instabilità politica che si erano
verificate dopo la Grande Guerra, al contrario, non ebbero nessuna ripercussione
nel secondo dopoguerra. Dopo una difficile ricostruzione, tutti i Paesi, non solo
quelli occidentali, furono spronati verso una crescita economica mai sperimentata
prima. Il secondo dopoguerra mondiale venne affrontato con una ferma volontà
di cooperazione economica da parte dei governanti dei maggiori Paesi, e
principalmente dagli Stati Uniti che optando definitivamente per un sistema di
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produzione di tipo capitalista trainarono la ripresa economica mondiale. Da un
punto di vista della produzione lo sviluppo toccò prima di tutto l’industria e più
lentamente anche l’agricoltura, entrambi i settori furono modernizzati. I passi in
avanti della scienza, della tecnica e la loro crescente applicazione alla produzione
e al sistema dei trasporti, portarono alla creazione di nuovi servizi, come la
motorizzazione privata e l’aviazione civile, contribuendo a un costante
miglioramento del tenore di vita dei cittadini.
La seconda rivoluzione industriale, che aveva segnato le ultime decadi del
XIX secolo, trovò nuovo slancio nel sistema tayloristico, nell’organizzazione
scientifica del lavoro e nella catena di montaggio. Tecnica e scienza dominavano
il sistema di produzione. La riconversione a un’economia di pace mise in moto
un impressionante aumento della produzione industriale. L’industrializzazione
prese il sopravvento sul settore agrario e la società tradizionale rurale e urbana fu
sconvolta dalle grandi trasformazioni sociali e culturali portate dai nuovi modelli
di produzione e consumo.
Gli anni immediatamente successivi alla conclusione del conflitto furono
caratterizzati dalla politica degli aiuti umanitari. Vennero soccorsi decine di
milioni di feriti, prigionieri e dispersi. Le nuove amministrazioni dei territori
liberati dall’invasione nazista ricevettero i primi soccorsi dagli eserciti alleati e
dall’organizzazione delle Nazioni Unite per l’Aiuto e la Ripresa (UNRRA,
United Nations Relief and Rehabilitation Administration). Buona parte dei Paesi
europei passarono per un’ulteriore fase di normalizzazione grazie alle libere
elezioni che si svolsero nel 1947. Solo un rilancio dell’economia europea e un
aumento delle relazioni commerciali avrebbero consentito all’apparato
industriale statunitense di poter marciare nel pieno delle sue aumentate capacità,
conservando così l’eccezionale livello delle esportazioni e di conseguenza,
dell’occupazione. Ad ogni modo i vantaggi furono reciproci, gli aiuti concessi da
Washington attraverso il Piano Marshall (giugno 1947) e i prestiti a basso tasso
d’interesse concordati con i singoli governi permisero di rimettere in sesto la
maggior parte delle economie europee nel volgere di alcuni anni. In quello stesso
1947 l’Europa occidentale non registrò peggioramenti nella sua situazione
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economica rispetto a un anno prima e al contrario diede incoraggianti segni di
recupero. Tra l’aprile del 1948 e il giugno del 1951 questi Paesi, ad eccezione di
Spagna e Finlandia, ricevettero da Washington aiuti per un ammontare di circa
13.000 milioni di dollari dell’epoca. L’obiettivo principale era quello di
finanziare le importazioni di cui più avevano bisogno i Paesi europei e che, in
quel momento, erano superiori alle loro capacità di pagamento. Dall’altra parte
l’Europa si impegnava, non appena possibile, a mettere in pratica gli accordi
raggiunti nel giugno del 1944 a Bretton Woods necessari per un graduale
processo di liberalizzazione del commercio.
Il criterio ispiratore delle politiche economiche nazionali fu l’ideologia
dello sviluppo, accreditato dal successo del New Deal e delle teorie keynesiane.
L’opinione pubblica auspicava che i governi promuovessero e garantissero la
stabilità politico-sociale e lo sviluppo. Per rispondere a queste attese di crescita
economica e benessere la maggior parte delle democrazie occidentali si orientò
verso un certo grado di programmazione economica, non coercitiva e tendente
alla piena occupazione, e verso un’estensione della proprietà pubblica, specie per
quanto riguarda le infrastrutture che andavano potenziate e le attività d’interesse
collettivo.
La ricostruzione dell’Europa occidentale fu dunque portata avanti dagli
Stati Uniti e dalle stesse democrazie europee. Agli obiettivi statunitensi si
sommarono la volontà dei singoli Paesi di un’espansione crescente del sistema di
sviluppo. Questi diedero un particolare connotato al sistema capitalista tale da
rappresentare un modello alternativo al collettivismo comunista.
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In Italia gli ultimi anni del conflitto e l’occupazione da parte delle forze
armate tedesche colpirono la popolazione con estrema durezza portando una vera
e propria ondata di devastazione che affettò in maniera particolare le
infrastrutture e il patrimonio abitativo. Gli impianti industriali collocati
principalmente nelle regioni nord-occidentali del Paese furono risparmiati dalla
distruzione militare.
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Valerio Castronovo, Storia economica d’Italia. Dall’Ottocento ai nostri giorni, Torino, Giulio Einaudi editore, 1995,
pp. 355-361.