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Introduzione
Oggetto di questa tesi di laurea è lo studio di come la struttura delle opportunità
economiche, istituzionali e sociali presente nel territorio della Provincia di Milano
influisca sulla nascita e sullo sviluppo di imprese gestite da immigrati.
La scelta di questa tematica è nata al termine del percorso formativo in “Società,
territorio e ambiente” che mi ha portato a riflettere sulla società e sulle sue
esigenze di sopravvivenza e sviluppo legate ad aspetti sociali, culturali, economici
e ambientali e che mi ha spinto ad interrogarmi su quanto un’integrazione
economica di successo coincida con un’integrazione di tipo sociale all’interno di un
contesto specifico come quello della Provincia di Milano. Inoltre questo studio,
prosegue il mio personale interesse riguardo alle società multietniche (com’è
quella milanese) che ho approfondito anche durante la laurea triennale; ed anche
si affianca al mio percorso lavorativo che dal 2008 al 2012 mi ha visto impegnato
presso un’azienda speciale della Camera di Commercio di Milano a supporto e
sostegno delle imprese.
Lo studio della propensione all’imprenditoria da parte di immigrati, in particolare
provenienti da paesi a forte pressione migratoria è un ambito di ricerca sociologica
ed economica che, rispetto al mondo anglosassone, dove tale fenomeno è più
definito e presente, in Italia è studiato massicciamente solo da pochi anni per via
della storia immigratoria del Paese nettamente più recente.
Questo aspetto della presenza immigrata sul territorio nazionale risulta, però,
essere particolarmente interessante in quanto gli imprenditori di origine straniera
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in Italia sono, nel 2010, l’8% del totale degli immigrati presenti sul territorio
nazionale.
In particolare, in Provincia di Milano tale fenomeno assume ancor più rilevanza in
virtù del trend di crescita delle imprese immigrate negli ultimi 10 anni. Come si
evince facilmente dal grafico sotto riportato, per quanto riguarda le ditte individuali
gestite da cittadini stranieri in Provincia di Milano, si può notare come il loro
numero sia triplicato nell’ultimo decennio a fronte di un andamento di segno
opposto di quelle avviate da imprenditori italiani.
Allo stesso modo, osservando le cariche ricoperte nelle imprese da persone
provenienti da paesi a forte pressione migratoria, pur tenendo conto che un
soggetto può essere titolare di più cariche contemporaneamente, negli ultimi 10
anni si è assistito ad una crescita complessiva del 75%, così che nel 2011 le
cariche assunte da stranieri risultano essere 56.935 (pari al 10,2% del totale
provinciale) con una preponderanza significativa di cittadini provenienti da paesi a
forte pressione migratoria pari al 69,3%.
0
50
100
150
200
250
300
350
2000 2001 2002 2003 2004 2005 2006 2007 2008 2009 2010
Grafico 1 - Tassi di crescita delle ditte individuali in Provincia di Milano con
titolari stranieri e italiani
[Fonte: elaborazioni su dati dell'Annuario Statistico Provinciale]
Totale Italiani Stranieri
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A partire da queste osservazioni che mostrano come questo fenomeno acquisisca
sempre più maggiore importanza e consapevole che la partecipazione socio-
economica degli immigrati è frutto di un processo interattivo reciproco con il
contesto locale, ho cercato di comprendere le motivazioni di questa crescita
costante interrogandomi su quanto le condizioni del contesto milanese fossero
favorevoli o sfavorevoli all’avvio di impresa da parte di cittadini non italiani e
cercando di cogliere, attraverso delle interviste ad imprenditori stranieri, quali sono
state le strategie impiegate nel loro percorso imprenditoriale.
Il disegno della ricerca è dunque così delineato: nel primo capitolo ho approfondito
i principali approcci teorici sull’imprenditoria immigrata, scegliendo come punto di
vista da utilizzare per il lavoro di tesi quello proposto da Kloosterman e Rath,
inerente il concetto di mixed embeddedness, ritenendolo come quello più
interessante per un analisi empirica. Infatti, questi autori, all’inizio degli anni 2000,
hanno tentato di integrare le spiegazioni basate sull’offerta e sulla domanda di
imprenditorialità collegando la struttura delle opportunità a disposizione
dell’aspirante imprenditore con le risorse sociali e culturali che questi riesce a
mettere in gioco. Seguendo questo approccio ho quindi analizzato, nel secondo
capitolo, la struttura delle opportunità nel territorio della Provincia di Milano dal
punto di vista economico e politico istituzionale mentre, nel terzo capitolo, ho
analizzato le risorse sociali e culturali che possono essere sfruttate dagli
imprenditori stranieri.
Ho poi approfondito sul campo quanto delineato, attraverso interviste ad
imprenditori immigrati della Provincia di Milano con attività nei settori principali per
l’economia del territorio (come l’ICT o il design) in modo da evidenziare ancor
8
meglio la struttura delle opportunità ed analizzare nuovi ambiti settoriali rispetto a
quelli tipici finora approfonditi, come la ristorazione, l’edilizia ed il commercio dove
l’imprenditoria di origine immigrata è più presente. Tramite le interviste ho cercato
di capire come un imprenditore straniero agisce concretamente rispetto alla
struttura delle opportunità offerta dal territorio e come impiega le proprie risorse
sociali e culturali.
Importante è stato a livello teorico chiarire la definizione di “imprenditore” e quindi
la corretta identificazione dell’unità di analisi di questa tesi di laurea: a fronte delle
diverse evidenze empiriche che difficilmente si avvicinano alla sintesi di
Schumpeter che descrive l’imprenditore come portatore di innovazione, in questo
lavoro si è scelto di definirlo, come «colui che ha fondato e/o ereditato e/o
acquisito un’attività economica che conduce in prima persona» (Codagnone, 2003
pag. 34) seguendo quanto già proposto da Codagnone in una ricerca sul
medesimo tema.
Nel complesso la tesi evidenzia che la lettura della realtà dell’imprenditoria
immigrata attraverso l’analisi della struttura delle opportunità permette di avere
una visione più ampia rispetto ad altre interpretazioni del fenomeno e viene
confermato come gli aspetti economici, istituzionali e sociali presenti sul territorio,
e che gli imprenditori immigrati sono chiamati ad utilizzare, determinino la loro
capacità di avvio e di crescita dell’impresa; inoltre, emerge come tali attori siano
fortemente integrati e radicati nel contesto locale partecipando così in modo attivo
al suo sviluppo.
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Capitolo 1
Il dibattito scientifico
La prospettiva teorica sull’imprenditoria immigrata
1.1 Introduzione
Questo primo capitolo ha lo scopo di illustrare come sia stato affrontato il tema
dell’imprenditoria di origine immigrata all’interno del dibattito sociologico. Tale
approfondimento, oltre che offrire una panoramica generale sui diversi approcci,
ha l’obiettivo di definire quale sia il contributo alla base di questa tesi di laurea,
facendone emergere le richieste all’analisi empirica e le modalità di
operativizzazione dei concetti descritti.
Innanzitutto, lo studio dell’imprenditoria di origine immigrata rientra nell’alveo più
ampio dello studio dell’imprenditoria in senso lato andando a riprendere alcuni
concetti e ipotesi di base. La sociologia al riguardo ha individuato varie tematiche,
come l’origine sociale degli imprenditori, i caratteri psicologici e gli atteggiamenti
sociali che li contraddistinguono (Bagnasco, Barbagli, Cavalli, 1997).
I primi studiosi che hanno affrontato questo argomento sono stati Weber e
Schumpeter. Il primo, ne “L’etica protestante e lo spirito del capitalismo” (1904)
pone al centro della sua visione culturalista il concetto di ascetismo mondano degli
imprenditori calvinisti: il successo imprenditoriale è segno concreto della salvezza
divina. Il secondo, nella sua opera “Teoria dello sviluppo economico” del 1911, ha
visto nell’imprenditore il vero innovatore: egli infatti è colui in grado di introdurre
nella società nuovi beni, nuovi metodi di produzione, nuovi modelli organizzativi e
10
nuove fonti di materie prime (Bagnasco, Barbagli, Cavalli, 1997).
Successivamente, altri studiosi hanno affrontato il tema, sottolineando come fa
Kirzner le qualità personali dell’imprenditore, capace di individuare e cogliere
prima degli altri le opportunità di beneficio, oppure evidenziando gli aspetti legati ai
gruppi sociali come hanno fatto Hagen, Hoselitz e Young
1
: per il primo
l’imprenditorialità è favorita dalla scarsa mobilità sociale del gruppo di riferimento,
per il secondo deriva, invece, dall’apertura del sistema sociale mentre Young
considera la marginalità del gruppo come un vantaggio sociale per l’aspirante
imprenditore (Codagnone, 2003).
Come suggerito da Codagnone (2003), nel percorso di riflessione
sull’imprenditoria, si possono dunque evidenziare quattro dicotomie:
1. La prima riguarda l’imprenditore studiato o come attore sociale singolo o come
parte di un gruppo sociale.
2. La seconda dicotomia riguarda, invece, le variabili che vengono prese in
considerazione: di carattere culturale – sovraculturale (come la marginalità
culturale) oppure di carattere posizionale – strutturale (come la mobilità
sociale).
3. Un terzo aspetto è quello dell’ambito di analisi degli studi: da una parte quelli
che analizzano il lato della domanda, dall’altra quelli che analizzano il lato
dell’offerta.
4. Infine, la metodologia: studi di tipo qualitativo ed etnografico oppure ricerche a
campione.
1
Si veda Codagnone, 2003
11
Dentro quest’ambito, quindi, lo studio dell’imprenditoria immigrata comincia a farsi
spazio, in particolare, per quanto riguarda l’ambito di studi europeo
2
, a partire dagli
anni Ottanta fino a diventare oggi un campo di ricerca a se stante. Questo, a
motivo dei cambiamenti nel mercato del lavoro dovuti alla diffusione di sistemi di
tipo post-fordista dagli anni Settanta. Se prima, infatti, nei paesi del nord Europa
l’immigrazione era inquadrata quasi esclusivamente nel lavoro dipendente, a
partire dagli anni Ottanta la riconversione e la ristrutturazione nell’industria hanno
drasticamente diminuito la domanda di manodopera non qualificata di origine
immigrata e hanno portato ad un’ondata di disoccupazione tra gli immigrati e alla
progressiva chiusura delle frontiere. Allo stesso tempo, l’affermazione della
segmentazione della produzione e lo sviluppo del terziario hanno aperto nuovi
spazi per le attività di lavoro autonomo degli immigrati che quindi tendono in
maniera sempre più accentuata verso la scelta per questa tipologia
occupazionale, come dimostra la crescita del tasso di lavoro autonomo degli
immigrati che, negli ultimi anni, è aumentato più di quello degli autoctoni, in
particolare nei grandi agglomerati urbani (Codagnone, 2003).
Rispetto alla letteratura sull’imprenditorialità in generale, per quanto concerne
l’imprenditoria immigrata mancano analisi che si concentrino esclusivamente sulla
dimensione individuale perché quest’ambito di studio «si fonda sul presupposto
che l’appartenere ad un gruppo etnico sia condizione determinante, e quindi
l’attenzione non si rivolge al singolo imprenditore, bensì al gruppo imprenditoriale
e alla sua posizione nel contesto macrosociale» (Codagnone, 2003 pag. 54).
Questo perché l’attenzione del ricercatore è centrata sullo svantaggio economico -
2
Negli Stati Uniti, infatti, il lavoro autonomo degli immigrata ha una lunga tradizione e il tema era
già studiato da tempo.
12
sociale e si ritiene che difficilmente tra gli imprenditori immigrati si possa trovare la
figura dell’innovatore schumpeteriano.
Un elemento di continuità, invece, è il ricorso alla marginalità culturale e sociale
come fattore che favorirebbe l’imprenditoria degli immigrati in termini di spinta in
risposta ad una mobilità sociale bloccata, in termini motivazionali e di capitale
sociale prodotto dai vincoli di solidarietà interna.
In questo senso, lo studio dell’imprenditoria di origine immigrata è perciò
riconducibile a questo quesito: gli imprenditori immigrati riescono nella loro attività
perché hanno la giusta mentalità e cultura insieme con risorse di gruppo (capitale
sociale) a cui attingere o perché invece si inseriscono in una struttura delle
opportunità favorevole? (Codagnone, 2003)
Ritorna quindi la dicotomia supply side/demand side a cui sarà legata
l’esposizione dei diversi approcci che da una parte si sono concentrati sull’offerta
di imprenditorialità e sulle risorse di gruppo e dall’altra hanno focalizzato le
condizioni che determinano la domanda di imprenditorialità da parte della società
ospitante. Verranno poi presentati anche i principali approcci intermedi che
puntano ad integrare supply side e demand side ed investigarne l’interazione
reciproca.
1.2 Il versante dell’offerta
Fanno parte di questo gruppo quegli approcci che hanno cercato di spiegare
l’imprenditoria immigrata concentrandosi in modo particolare sulle dotazioni
culturali (o variabili psicologiche) dell’imprenditore.
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I primi contributi al riguardo hanno, infatti, spiegato questo fenomeno collegandolo
al retroterra psicologico, religioso, professionale, socioculturale di alcuni gruppi
etnici che li renderebbe più propensi di altri alle attività commerciali e al lavoro
autonomo in generale in virtù di una forte adesione a valori come l’indipendenza,
l’autodisciplina, la frugalità, la propensione al rischio, l’applicazione sul lavoro,
come anche mostrato da Weber attraverso la sua teoria sulle origini religiose del
capitalismo e come può suggerire l’osservazione di alcuni gruppi particolari, come
gli ebrei, i giapponesi e i cinesi, i quali hanno trovato nei loro valori (come il
puritanesimo ebraico, o la tradizione religiosa confuciana) motivi ispiratori per
comportamenti funzionali all’imprenditorialità (Ambrosini, 2004). Con i fattori
culturali vengono sottolineati i “vantaggi etnici”, rappresentati dalla disponibilità di
lavoro coetnico affidabile e poco costoso, dalle norme morali interne alle
collettività immigrate che regolano i rapporti tra imprenditori e dipendenti e dalle
forme di supporto e assistenza che i connazionali possono fornire, sotto forma di
accesso al capitale e di informazioni utili (Ambrosini e Boccagni, 2004).
In merito a questa prima visione è possibile sottolineare che, seppur
ridimensionato, questo aspetto rimane sempre presente in molta parte della
letteratura sull’argomento. Riguardo, poi, all’idea di etnicità, si ritiene che essa
venga creata a contatto con la società ricevente, più che importata e trapiantata
integralmente dall’estero: viene, dunque, prodotta e riprodotta nell’interazione,
decostruita e ricostruita, allo scopo di sfruttare a pieno i vantaggi che può fornire e
di agevolare l’adattamento ai vincoli strutturali che l’immigrato incontra nel paese
di arrivo.
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Un secondo filone di contributi è quello definibile come “teoria dello svantaggio”, le
cui prime formulazioni vengono attribuite a Newcomer e Collins
3
. «In questa
visione, la scelta del lavoro autonomo costituirebbe una risposta reattiva alle
difficoltà di inserimento sociale, e in special modo alla disoccupazione» (Ambrosini
e Boccagni, 2004 pag. 14). Le minoranze che hanno scarsa padronanza della
lingua e basso capitale educativo con relativa difficoltà di inserimento nel mondo
del lavoro, tenderebbero a rifugiarsi in attività indipendenti che richiedono ridotti
investimenti, ma che sono perlopiù marginali e poco remunerative. «La difficoltà
dell’accesso al lavoro dipendente, specialmente alle occupazioni stabili,
qualificate, ben retribuite, spiegherebbe dunque la diffusione del lavoro autonomo
in minoranze immigrate socialmente svantaggiate» (Ambrosini e Boccagni, 2004,
pag. 14).
Jones e McEvoy, a partire dal loro studio sulle attività indipendenti degli immigrati
asiatici nel Regno Unito e in Canada, individuano proprio nell’autoimprenditorialità
una soluzione di ripiego contro le difficoltà di inserimento nel mercato del lavoro
classico. E, anche per questi autori, tali attività si concentrerebbero in settori e
spazi marginali dell’economia, e sarebbero caratterizzate da una sopravvivenza
precaria, orari prolungati e lavoro pesante e intensivo.
Jones e Ram, hanno successivamente riconfermato e aggiornato questa visione:
questo tipo di imprenditorialità immigrata è una strategia di precaria sopravvivenza
a fronte del mancato accesso ai lavori manuali per cui gli immigrati erano stati
essenzialmente reclutati.
Logan, Alba e McNulty, inoltre, hanno trovato una conferma alla teoria dello
svantaggio, mostrando, in uno studio sulle attività economiche delle minoranze
3
Si veda Ambrosini e Boccagni, 2004.
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etniche in 17 aree metropolitane americane, che le imprese create da immigrati si
concentrano in pochi settori, caratterizzati da bassi salari, bassi livelli di
sindacalizzazione e alte percentuali di occupazione femminile.
In Italia, alla fine degli anni Novanta, Reyneri ha condiviso una visione
pessimistica del fenomeno indicando che l’imprenditorialità di origine immigrata
non è legata al successo economico e sociale, quanto piuttosto alla
precarizzazione degli immigrati all’interno del mercato del lavoro.
Emerge, quindi, da questo punto di vista che l’imprenditoria immigrata non è
motivo di integrazione né sociale, né economica, ma piuttosto il proliferare di tali
percorsi professionali da parte delle popolazioni immigrate enfatizza una
situazione problematica per la stabilizzazione degli stranieri che si ritrovano
obbligati ad avventurarsi in un’attività imprenditoriale anche senza avere, in questa
direzione, risorse a propria disposizione. Questi autori, infatti, sostengono che tali
tipi di attività sono molto carenti sia di capitali che di tecnologie oltre che difettare
di conoscenze imprenditoriali, credibilità e fiducia (Ambrosini, 2004).
Una variante della teoria dello svantaggio è quella della “mobilità bloccata”:
ovvero, gli immigrati intraprenderebbero percorsi relativi al lavoro indipendente
perché nel mercato del lavoro dipendente non riescono ad avanzare in misura
corrispondente alle loro credenziali educative, capacità e aspirazioni.
La propensione all’imprenditorialità sarebbe, dunque, la risposta alla
discriminazione incontrata non tanto al momento dell’accesso al mercato del
lavoro – come indicato, invece, dalla teoria dello svantaggio –, quanto piuttosto a
quello della crescita professionale.