7
lecito che l’ente sovranazionale comunitario, pensato per 6 membri,
vada ripensato in profondità. Intendo dire che il sistema stesso su cui la
Comunità si è sviluppata, in base al metodo funzionalista di Monnet,
potrebbe rivelarsi insufficiente per la gestione e l’effettiva funzionalità
dell’Europa allargata. La reazione a questa constatazione può però essere
duplice:
1. di tipo più radicale, basata sulla convinzione che sia l’assetto stesso
dell’Unione a dover essere cambiato fino ad approdare a un vero
modello di Stato federale europeo (elementi di federalismo
imperniano ormai svariati ambiti di competenza della Comunità e
dell’Unione);
2. di tipo gradualista, che vede nel mantenimento e nel rafforzamento
del “Metodo Comunitario” sopraccitato, basato sull’equilibrio
esistente tra Commissione, Parlamento e Consiglio la via per
garantire l’efficiente ed efficace gestione di un ambito sempre più
vasto di compiti demandati all’Unione europea allargata.
Tra queste due visioni si colloca una molteplicità di approcci alla
dinamica comunitaria, ben rappresentata, come rilevo nel mio lavoro, dal
complesso degli Stati che fanno parte dell’Unione: in momenti cruciali
gli Stati-nazione hanno esternato quanto il loro sentire propenda, anche
parzialmente, per la prima soluzione, oppure per la difesa dell’ approccio
intergovernativo, fino ad assumere qualche eccesso nazionalistico: il
Consiglio europeo di Nizza del dicembre 2000 ne ha offerto un esempio
emblematico.
L’ampiezza e la complessità delle problematiche trattate hanno
condizionato anche la struttura del mio lavoro, che si basa sullo sviluppo
di tre “riflessioni” principali (come a me piace definirle) corrispondenti
ai tre capitoli di cui si compone. La prima riguarda lo sviluppo delle
relazioni instauratesi tra la Comunità europea e i c.d. PECO (Paesi
8
dell’Europa Centrale ed Orientale) e avviatesi ben prima dello
sconvolgimento politico prodotto dalla caduta del muro di Berlino (9
novembre 1989). La seconda, attraverso un’analisi puntuale dei
principali tentativi di riforma istituzionale attuati in previsione
dell’ampliamento a Est, cerca di capirne i limiti e di argomentare le
alternative in discussione nel vivo dibattito in corso in Europa. La terza
riflessione è nata dalla mia curiosità di “cambiare prospettiva”, cioè di
abbandonare il punto di vista occidentale del problema dell’allargamento
e di avere qualche elemento per intendere in cosa sia consistito il
percorso di adeguamento dei PECO, nel caso specifico della Polonia, a
certi parametri. In estrema sintesi, riporto il contenuto dell’elaborato.
Dalla difficile fase di contrapposizione, dovuta all’impedimento
esercitato dal COMECON agli Stati aderenti di intrattenere relazioni
commerciali con la Comunità europea, si perviene alla Dichiarazione di
Lussemburgo (25 giugno 1988), che ha aperto la strada ad alcune
relazioni diplomatiche formali tra la CE e i Paesi del COMECON
(compresa l’Unione Sovietica) ed è stata il presupposto dei primi
Accordi, comunemente definiti “di prima generazione”. La connotazione
squisitamente commerciale ad essi sottesa ha lasciato il passo agli
“Accordi commerciali e di cooperazione”, pure definiti “di seconda
generazione”. Nel ripercorrere tappe tanto significative rileva
evidenziare la responsabilità avvertita dalla CE nell’interazione con le
nascenti democrazie dell’Europa Centrale e Orientale. Essa ha avuto
concreta manifestazione, in primis, con il PHARE, Programma di Aiuti
alla Ricostruzione economica originariamente destinato alla Polonia e
all’Ungheria, successivamente esteso a tutti gli altri Paesi dell’Europa
centro-orientale e non solo ad essi. Gli accordi di commercio e
cooperazione commerciale e economica conclusi dalla Comunità si
rivelarono poco dopo insufficienti e inadeguati per facilitare la
9
transizione verso economie di mercato e democrazie stabili e, in ultima
istanza, per far fronte all’obiettivo di incorporare i Paesi dell’Est europeo
coinvolti al processo di integrazione europea. L’ulteriore evoluzione
dell’interrelazione in parola sono stati gli Accordi di Associazione,
chiamati Accordi Europei, che hanno istituzionalizzato il dialogo
politico come mezzo per consolidare l’avvicinamento dell’UE ai Paesi
associati e per costituire vincoli di solidarietà e cooperazione nuovi.
Poiché i PECO avevano ottenuto che nel Preambolo di tutti gli Accordi
si menzionasse espressamente che l’obiettivo finale di ognuno degli Stati
Associati fosse arrivare a essere membro della Comunità e che la
associazione li aiutasse a conseguire detto obiettivo, gli Accordi di
Associazione sono diventati strumenti di preadesione. La “pietra miliare”
che ha riorientato le relazioni tra la CE e i PECO, delimitando il
cammino verso l’ampliamento, è stato il Consiglio europeo di
Copenaghen (21/22 giugno 1993), che stabilì i Criteri imprescindibili
che ogni Stato candidato all’adesione avrebbe dovuto soddisfare, in
termini politici, economici e di ricezione nel sistema giuridico interno
dell’acquis comunitario. Tutto questo ha preceduto la fase del vero e
proprio negoziato tra l’Ue e i paesi candidati all’adesione, avviatasi dal
1998 e conclusasi nel dicembre 2002, in occasione del Consiglio europeo
di Copenaghen, con la chiusura, come è stato detto, di un “circolo
Copenaghen-Copenaghen”.
Il secondo capitolo entra nel vivo della problematica istituzionale già
introdotta, in un discorso più generale, nella prima parte del lavoro. La
trattazione diventa più tecnica perché è l’analisi delle norme di diritto
primario comunitario, come novellate dai Trattati di Amsterdam e di
Nizza ad offrire la base più appropriata per valutare l’entità e
l’adeguatezza delle riforme istituzionali introdotte. L’analisi si concentra
essenzialmente sulle principali istituzioni comunitarie e sulle rispettive
10
innovazioni da esse subite, accompagnate da osservazioni sistematiche
sulle ragioni che le hanno motivate e sulle auspicabili, ulteriori,
variazioni di cui potrebbero essere suscettibili. Tre punti chiave sono
stati oggetto di valutazione nell’ “agenda comunitaria” degli ultimi anni:
1. Come riformare il sistema di voto a maggioranza bilanciata all’interno
del Consiglio dei Ministri di un’Unione europea allargata.
2. Stabilire se ogni Stato dell’Unione europea abbia la necessità di avere
almeno un Commissario a Bruxelles;
3. Di quanto vadano ridotti i settori soggetti al voto all’unanimità in
favore del voto a maggioranza.
Ma la trattazione di questi punti cruciali è stata spunto per tante
considerazioni, attinenti alla gestione di certe politiche comunitarie e alla
ripartizione delle competenze in un’Europa di dimensioni notevolmente
accresciute. Ampio spazio è, inoltre, dedicato alla disciplina delle
cooperazioni rafforzate, per la valorizzazione che esse potrebbero avere
nel funzionamento di un’Unione quanto mai diversificata.
E’ stato, poi, doveroso e pertinente considerare alcuni aspetti del processo
costituzionale europeo in corso, di cui la Convenzione sul futuro
dell’Europa è stata, fino ad oggi, il momento topico, chiamata a disegnare
le architetture istituzionali che dovranno costituire un Trattato
costituzionale. Il Progetto di Trattato che istituisce una Costituzione per
l’Europa è già stato elaborato e presentato ufficialmente il 18 luglio del
2003. Sulla stesura finale pubblicata ho elaborato un commento
certamente non analitico e diverso dall’analisi sviluppata sulle norme del
Trattato CE e del Trattato sull’Ue come novellate dal Trattato di Nizza.
La duplice ragione di questa scelta è stata da una parte legata
all’evenienza non improbabile che il risultato conseguito dai
convenzionali possa subire delle modifiche (più o meno incisive) ad opera
della Conferenza Intergovernativa di prossima apertura. D’altra parte ho
11
valutato che la base giuridica certa a cui possiamo riferirci (il Trattato di
Nizza è entrato in vigore il 1° febbraio 2003) è attualmente rappresentata
dai vigenti Trattato istitutivo della Comunità europea e Trattato
sull’Unione europea, delle cui disposizioni in parola ho comunque
evidenziato i limiti oggettivi.
12
Capitolo I
RIUNIFICARE L’EUROPA: LA UE E I PAESI PECO
1.1 Le relazioni tra l’Unione europea e i Paesi dell’Europa Centrale
e Orientale
Dal 1945, la fine della seconda guerra mondiale, al 1989, con la caduta
del muro di Berlino, il continente europeo rimase diviso in zone di
influenza, risultato della situazione militare che si delineò dopo la
sconfitta della Germania nazista e gli accordi diplomatici della
Conferenza di Yalta e Potsdam
2
. Due sistemi di alleanze, la NATO- che
raggruppava le “democrazie occidentali”- e il Patto di Varsavia- che
riuniva le “democrazie popolari” e gli Stati “socialisti” ripartivano
l’Europa in due blocchi contrapposti dal Baltico all’Adriatico
3
.
2
Così Augustìn Maraver, “El Equilibrio de poderes europeo en la Paz Frìa”, in Cuadernos
del Este, N. 15, 1995, Universidad Complutense de Madrid – Instituto de Europa Oriental.
Nel febbraio del 1945, a Yalta, erano stati i “tre grandi” Stalin, Roosvelt e Churchill a
decidere dell’attacco finale alla Germania, che comportò la fine della seconda guerra
mondiale in Europa, mentre nel luglio dello stesso anno spettò a Truman, succeduto a
Roosvelt, e al leader laburista Clement Attlee, che aveva battuto Churchill nelle elezioni
politiche, rappresentare gli Stati Uniti e il Regno Unito nella Conferenza di Postdam, che
decise il disarmo e la “denazificazione” della Germania. Cfr. G. De Rosa, Età
Contemporanea, Minerva Italica, Bergamo, 1992.
3
In particolare, il Patto Atlantico (1949) ribadiva i legami politici tra l’Europa Occidentale e
gli Stati Uniti, mentre quelli militari venivano confermati dall’organizzazione tra i Paesi
firmatari del patto, la NATO (North Atlantic Treaty Organization, organizzazione del
Trattato Nord Atlantico), costituita a scopo di difesa militare dell’Occidente. Questa
Alleanza difensiva fu stipulata da Stati Uniti, Canada, Gran Bretagna, Belgio, Danimarca,
Francia, Islanda, Italia, Lussemburgo, Norvegia, Paesi Bassi, Portogallo (la Spagna aderì al
Patto Atlantico e alla NATO nel 1982). Il Patto di Varsavia nacque invece dall’intesa degli
otto Paesi del c.d. blocco orientale europeo (Unione Sovietica, Polonia, Cecoslovacchia,
Ungheria, Romania, Bulgaria, Albania, Repubblica Democratica Tedesca), scaturita da una
conferenza tenuta tra l’11 e il 14 maggio 1955 a Varsavia. Sigillo formale di una coalizione
politico-militare già consolidatasi in numerosi patti bilaterali, il trattato di “amicizia,
collaborazione e assistenza reciproca” era diretto da un consiglio politico di consultazione e
da uno stato maggiore generale con sede a Mosca. L’Albania, in rotta con il Cremlino a
causa dell’invasione della Cecoslovacchia da parte dell’U.R.S.S., nel 1968 uscì dal Patto di
Varsavia. Cfr. A.Camera, R.Fabietti, L’età contemporanea, Zanichelli, Bologna 1992.
13
La configurazione dell’Europa fu inoltre il risultato dell’adozione da
parte di diversi stati europei della proposta di ricostruzione americana
che conosciamo come Piano Marshall. L’unificazione dei mercati, la
libera circolazione dei capitali e la cooperazione economica erano le
condizioni dell’aiuto alla ricostruzione. Queste erano inaccettabili per
l’URSS che, se avesse permesso la loro estensione all’Europa dell’Est,
avrebbe visto la dissoluzione di una zona di influenza conquistata
militarmente nel secondo conflitto mondiale.
La contrapposizione ideologica si convertì in divisione economica del
nostro continente: il 16 aprile del 1948 si firmò a Parigi la Convenzione
che istituiva la Organizzazione Europea di Cooperazione Economica
(OECE) a cui aderirono 16 stati europei (Austria, Belgio, Danimarca,
Francia, Gran Bretagna, Grecia, Irlanda, Islanda, Italia, Lussemburgo,
Norvegia, Olanda, Portogallo, Spagna, Svezia, Svizzera, Germania
Occidentale, Territorio libero di Trieste e Turchia)
4
. L’URSS e le
democrazie popolari declinarono l’invito a parteciparvi e costituirono il
Consiglio di Mutua Assistenza Economica (COMECON)
5
, il 25 gennaio
1949.
4
Dotato di un’amministrazione autonoma dal Dipartimento di Stato, l’Economic
Cooperation Administration (ECA), con sede a Washington, il Piano Marshall aveva tre
compiti essenziali: 1) esaminare le necessità più pressanti e le richieste avanzate dai singoli
Paesi uniti nell’ Organizzazione europea per la cooperazione economica (OECE), con sede
ufficiale a Parigi; 2) formulare programmi comuni in vista della ricostruzione; 3) curare di
farli concretamente eseguire sotto un adeguato controllo. L’aiuto effettivo veniva stabilito
con accordi bilaterali tra i singoli Paesi e l’ECA e si concretizzava soprattutto in prodotti
americani, che venivano in parte donati, in parte venduti. Cfr. A. Brancati, Popoli e civiltà,
vol. 3, La Nuova Italia, 1990, p. 745.
5
Nel corso della 45° sessione dell’organizzazione, tenutasi a Sofia il 9 e 10 gennaio del
1990, il COMECON comprendeva: Bulgaria, Cuba, Cecoslovacchia, Mongolia, Polonia,
Repubblica Democratica Tedesca (RDT), Romania, Ungheria, Unione Sovietica e Vietnam.
La struttura organizzativa prevedeva un Consiglio, che si riuniva una volta l’anno in una
delle capitali degli Stati membri, il Comitato esecutivo, il principale organo decisionale,
composto dai viceministri degli Stati membri, e quattro comitati (pianificazione,
cooperazione tecnico scientifica, risorse tecniche e materiali, ingegneria). Cfr. Schiamone, Il
Comecon, Padova, 1967.
14
I due blocchi ideologici e economici, separati dalla “cortina di ferro”
6
, si
giustapposero, concorrendo per la produttività. Il funzionamento del
COMECON si reggeva, teoricamente, sui principi dell’internazionalismo
socialista, il rispetto della sovranità statale, l’indipendenza e gli interessi
nazionali degli stati membri.
Infatti, secondo lo Statuto adottato nel 1959, il compito principale di
questa istituzione era quello di favorire la cooperazione economica,
scientifica e tecnica tra i Paesi membri, al fine di sviluppare
“l’integrazione economica socialista”.
Dal 1971 fu prevista una più stretta collaborazione tra i Paesi membri
nella fase di preparazione e di messa in opera dei piani economici
nazionali, per favorire lo sforzo di industrializzazione dei Paesi più
arretrati del gruppo
7
.
Tuttavia lo sviluppo delle economie socialiste al margine della dinamica
economica internazionale, la non convertibilità delle monete e il
carattere artificiale dei prezzi finirono per provocare la crisi interna
6
“Da Stettino, nel Baltico, a Trieste, nell’Adriatico, un sipario di ferro è calato sul
continente. Dietro ad esso si trovano tutte le capitali degli antichi Stati dell’Europa centrale
ed orientale. Varsavia, Berlino, Praga, Vienna, Budapest, Belgrado, Bucarest e Sofia, tutte
queste famose città e le popolazioni intorno ad esse si trovano in quella che debbo chiamare
la sfera sovietica, e tutte sono soggette, in una forma o nell’altra, non solo all’influenza
sovietica ma ad un’altissima e in molti casi crescenti misura di controllo da Mosca”. W.
Churchill, dal “Discorso di Fulton” del 5 marzo 1946, in La seconda guerra mondiale, VI,
Milano, Mondatori, 1963.
7
Secondo l’opinione di Marie Lavigne, il coordinamento dei piani economici nazionali non
ha mai avuto luogo. Ma non sarebbe neanche corretta la comune percezione occidentale che
ritiene che l’Unione Sovietica fosse in grado di orientare i processi di pianificazione dei vari
Stati membri, in modo da raggiungere un unico piano economico sovranazionale. Si
potrebbe invece parlare di una oggettiva difficoltà di integrare le economie dei Paesi
partecipanti, nonostante gli sforzi compiuti. La principale forma di integrazione era legata al
commercio, in quanto la gran parte degli scambi commerciali dei paesi socialisti avveniva
con altri membri del COMECON. I rapporti commerciali avevano però prevalentemente
carattere bilaterale, sulla base di protocolli annuali o a più lungo termine, in cui venivano
specificati quantità, natura e prezzo delle merci scambiate (bilateralismo strutturale). Cfr.
M. Lavigne, The Economics of Transition: From Socialist Economy to Market Economy,
Macmillan Press, 1995
15
dell’organizzazione
8
. L’assenza di relazioni tra il COMECON e la
Comunità Europea
9
fino al 1972 fu conseguenza diretta dell’ostilità
sovietica alla CE che arrivò a proibire ai suoi soci di stabilire contatti
bilaterali individuali, tanto diplomatici come commerciali. L’URSS
contestava l’unità politica e il trasferimento di competenze che gli stati
membri concedevano alla CE: le relazioni nell’Europa divisa dalla
guerra fredda non potevano aver luogo tra le organizzazioni di
cooperazione economica, a cui non veniva riconosciuto alcun potere. Nel
1962 l’Istituto per l’economia mondiale e le relazioni internazionali di
Mosca aveva pubblicato le c.d. trentadue Tesi sull’integrazione
capitalistica del mondo occidentale, definendo il Mercato Comune
8
Così R. Daviddi e E. Espa, “L’Europa centrorientale: dissoluzione del COMECON e
multilateralismo”, in Europa 1992 – le nuove frontiere della CEE, CeSPI, 1992, pp. 186-
205. Gli autori, riportando i dati della Commissione economica per l’Europa dell’ONU
registrati nel 1990, riconducono la forte contrazione del commercio all’interno dell’area
COMECON a tre cause principali:
1. il rallentamento dell’attività produttiva interna, determinata in alcuni Paesi da politiche di
aggiustamento macroeconomico (Polonia, Ungheria), in altri, invece, da fattori strutturali;
2. la restrizione dell’offerta in alcuni settori chiave (energia, materie prime e trasporti) in Unione
Sovietica;
3. le difficoltà nei meccanismi di pagamento all’interno del COMECON acuite dalla decisione di
passare all’uso di valute convertibili.
9
E’ opportuno chiarire alcune differenze salienti intercorrenti tra le due organizzazioni
internazionali: COMECON e CEE. La CE nacque nel 1958, dopo che la fase più acuta della
Guerra fredda era terminata, come una associazione volontaria di sei Stati con caratteristiche
affini che desideravano incrementare il commercio tra di loro, rimuovendo le tariffe interne
ed erigendo barriere tariffarie esterne. Per questa impostazione e alcuni intenti dichiarati, la
CEE può essere descritta come un’organizzazione sovranazionale. Al contempo la rinuncia
ai propri poteri sovrani non risultava illimitata, perché rimanevano ampie aree in cui le
imprese private, nazionali e multinazionali, operavano (e operano) abbastanza liberamente.
Le origini del COMECON furono piuttosto diverse, poiché risalgono al periodo della Guerra
Fredda, come risultato della pressione di un Paese molto vasto su un gruppo di Stati più
piccoli. In un certo senso questi ultimi hanno rinunciato completamente alla loro sovranità e
sono stati più volte sollecitati a tenerlo a mente dall’intervento militare dell’Unione
Sovietica. In più ogni Stato del COMECON determinava la propria politica economica
interna, poiché, in teoria, tutti i membri condividevano gli stessi obiettivi economici e
avevano sistemi politici e sociali identici. Però i loro livelli di sviluppo economico
rimanevano differenziati e le culture politiche differivano considerevolmente: ognuno di essi
preparava il proprio piano quinquennale sulla base di proprie esigenze e bisogni. Ciò che
soprattutto rileva è che le relazioni economiche tra i diversi Paesi del COMECON erano su
basi preminentemente bilaterali e non multilaterali.S i potrebbe concludere che la natura del
COMECON fosse sovranazionale dal punto di vista politico, ma quella di un’organizzazione
ampiamente autarchica dal punto di vista economico. Si veda la comparazione effettuata da
W. V. Fallace, R. A. Clarke, “Comecon and the Common Market”, in Comecon Trade and
West, Frances Pinter (publishers), London, 1986, pp. 67-77.
16
contrario al modello sovietico di sviluppo degli scambi commerciali
10
.
La CE, invece, già dal 1963 aveva manifestato la propria volontà di
aprirsi al blocco socialista, attraverso la “normalizzazione” dei rapporti
reciproci, come espresso dalla Commissione nel suo Memorandum
rivolto all’URSS
11
. Inoltre, la Commissione permise ai suoi stati membri
di concludere accordi bilaterali con i Paesi dell’Est sin dalla metà degli
anni sessanta, scontrandosi con la volontà del COMECON di condurre il
negoziato commerciale direttamente con la Comunità, in sostituzione dei
propri membri, ma anche ovviando al disposto dell’articolo 113-3 del
Trattato di Roma sulla politica commerciale comune, che per questo
esigeva l’approvazione della Commissione
12
. Una differenza sostanziale
tra lo Statuto del COMECON e quanto stabilito per la CE nel Trattato di
Roma era data dal fatto che il primo non prevedesse l’attuazione di una
politica commerciale comune nei confronti dei Paesi terzi, mentre questo
obiettivo ha sempre avuto centralità assoluta nell’integrazione
comunitaria
13
.
Nel 1972 si produsse un mutamento nella posizione dei dirigenti
sovietici e Brezhnev manifestò il suo interesse a stabilire relazioni con la
10
Come sottolinea L. Marini le Trentadue Tesi erano una revisione della posizione già
palesata dall’Istituto di Mosca nel 1957 (le c.d. Diciassette tesi, in Kommunist, n. 9/1957), in
cui il mercato comune era definito “aggressivo, neocolonialista e base economica della
presenza militare americana in Europa”. Cfr. Luca Marini, “I rapporti tra la Comunità
Europea e i Paesi dell’Europa Centro-Orientale nella prospettiva dell’adesione”, in La
Comunità Internazionale, 1998, fasc. 2 (giugno), pp. 327-342.
11
Cfr. Commissione delle Comunità Europee, Background Brief. EC-Eastern Europe
Relations, Lussemburgo, 1990, 10.
12
Nel 1969 era terminato il periodo transitorio previsto per l’instaurazione del mercato
comune e, conformemente al disposto del citato art. 113 del Trattato di Roma, la competenza
a stipulare accordi commerciali si era trasferita dalle autorità degli Stati membri alle
istituzioni comunitarie. Con la Decisione n. 69/494 del 16 dicembre 1969 (in Guce n. L326
del 29/12/1969) il Consiglio dei Ministri aveva subordinato la proroga di detti accordi
bilaterali conclusi tra i membri della Comunità e gli Stati terzi ad un proprio atto, da adottarsi
su proposta della Commissione. Cfr. L. Marini, op.cit.
13
Cfr. l’art. 3 dello Statuto del COMECON, entrato in vigore il 13 aprile 1960 e la diversa
predisposizione dell’art. 2 del Trattato di Roma, che prefigura la realizzazione del mercato
comune come lo strumento, insieme al graduale avvicinamento delle politiche economiche
degli Stati membri, atto a promuovere lo sviluppo armonioso delle attività economiche
all’interno della Comunità e perseguire i compiti della Comunità enunciati nello stesso art. 2.
Cfr. W. V. Wallace, R. A. Clarke, op. cit
17
CE. Queste si svilupperanno con un quadro di accordi tra i blocchi
economici, però escludendo ancora la possibilità di stabilire accordi
bilaterali individuali tra la CE e i Paesi appartenenti al COMECON. La
posizione della Comunità fu quella di affermare che fosse responsabilità
individuale dei Paesi dell’Europa dell’Est e non del COMECON la
politica del commercio: la Commissione palesava in questo modo di non
riconoscere competenza commerciale estera al COMECON.
1.1.2 Gli Accordi di prima e seconda generazione tra la CE e i Paesi
dell’Europa dell’Est
La nuova politica estera della Germania federale sostenuta da Willy
Brandt (nota come Ostpolitik) segnò nel 1969 un passo decisivo nelle
relazioni tra l’Europa Occidentale e l’Europa dell’Est. Suo obiettivo
precipuo era favorire la distensione e la normalizzazione delle relazioni
con la Repubblica Democratica Tedesca, cercando al contempo la
riconciliazione con Polonia e Cecoslovacchia. Questa normalizzazione,
ben vista da Mosca, permise la firma di vari accordi commerciali della
RFT con l’URSS, la Polonia e la RDT
14
. L’avvicinamento tra la CE e i
Paesi dell’Europa dell’Est si concretizzò con gli accordi con Yugoslavia
e Romania, chiamati di prima generazione
15
.
La CE firmò un Accordo non preferenziale con la Yugoslavia nel 1970,
tentando di convertire le sue relazioni bilaterali con Belgrado in un
14
Il primo degli accordi bilaterali di cooperazione settoriale consisteva nella concessione di
una linea di credito quinquennale e fu concluso tra Regno Unito e Unione Sovietica nel
1964. Tra gli altri accordi merita di essere ricordato l’Accordo di cooperazione stipulato a
Mosca nel 1970 tra la Repubblica Federale di Germania e l’URSS, frutto della sopraccitata
Ostpolitik avviata dal cancelliere tedesco Brandt. Un’analisi di questi accordi di “primo
periodo” è effettuata da Dumesnil, “Le relations entre la CEE e les pays de l’Est”, in Revue
du marchè commun, 1975, p. 61 e ss.
15
Così li definisce anche C. Campos, alla cui analisi ho fatto riferimento nel testo,
evidenziando che la differenza saliente tra la prima e la seconda fase delle relazioni tra la
CEE e i PECO sia stata nel passaggio dalla relazione prettamente economica e commerciale
a quella, più matura, di carattere anche politico. Cfr. C. Campos, “Reunificar Europa: la UE
y los PECO”, in Cuadernos del Este, n. 15, 1995, Universidad Complutense de Madrid –
Istituto de Europa Oriental.
18
esempio per gli Stati dell’Europa dell’Est, membri del COMECON.
Dieci anni più tardi, nel febbraio del 1980, fu firmato un Accordo di
Cooperazione.
Anche la Romania, nonostante il regime dittatoriale di Ceaucescu, ebbe
trattamento di favore da parte della CE e, nel 1974, si stabilirono
relazioni commerciali bilaterali, che includevano i vantaggi del Sistema
di Preferenza Generalizzata, concepito per i Paesi in via di sviluppo. Due
anni più tardi si firmò un Accordo sui prodotti tessili e un altro
sull’acciaio. In seguito, nel 1980, la Romania negoziò con la CE un
Accordo di Cooperazione in cui si stabilivano certe concessioni
commerciali sotto la forma di liberalizzazione o sospensione di certe
restrizioni quantitative.
Fu l’arrivo di Gorbaciov che produsse un cambio radicale nelle relazioni
del COMECON con la CE, poiché egli promosse lo stabilimento di
relazioni economiche tra le due organizzazioni “in una maniera
vantaggiosa”
16
. Dal 1986 fu avviata una nuova fase di negoziati tra la
Comunità Europea e il COMECON, che regolava i rapporti tra i membri
delle due Organizzazioni, fino alla firma, il 25 giugno 1988, della
Dichiarazione di Lussemburgo che aprì la strada ad alcune relazioni
diplomatiche formali tra la CE e i Paesi del COMECON, compresa
l’Unione Sovietica (che stabilì un’ambasciata a Bruxelles nel 1989).
16
Già nel maggio del 1985 il premier sovietico, nel discorso di benvenuto pronunciato in
occasione della visita a Mosca del Presidente di turno del Consiglio dei ministri comunitario
(riportato dalla Pravda del 29 maggio 1985) aveva espresso l’esigenza di ricercare un
“linguaggio comune” tra la Comunità Europea e l’Unione sovietica nelle materie dove i
membri della CEE agissero come “un’entità politica”. Cfr. L. Marini, op. cit.
Sono, invece, di qualche hanno successivo (1989) le seguenti affermazioni: “Il modello di
avvicinamento economico tra Europa orientale e occidentale sarà determinato in misura non
trascurabile dai rapporti tra le organizzazioni regionali della CEE e dell’Efta con il
COMECON. (…) Non intendiamo sottovalutare la nascita nei prossimi anni di un mercato
europeo unico. (…) I ritmi delle trasformazioni interne al COMECON determineranno in
larga misura che cosa si svilupperà più rapidamente nei prossimi anni, se i rapporti tra
COMECON e Cee nel loro insieme, o tra i singoli Paesi socialisti e la Cee”. M. Gorbaciov,
“Appello all’Europa: dall’Atlantico agli Urali”, Discorso al Consiglio d’Europa, Strasburgo,
6 luglio 1989, in La Casa Comune Europea, AME, Milano, 1989.
19
A seguito di essa la Comunità concluse accordi commerciali e di
cooperazione economica con tutti i Paesi dell’Est europeo e con la stessa
Unione Sovietica
17
. Tuttavia, il crollo dei regimi socialisti dell’Europa
dell’Est e la dissoluzione graduale del COMECON e del patto di
Varsavia, comportarono il mutamento delle ragioni che l’avevano
prodotta, tanto che, già nel 1990, la Dichiarazione di Bonn aprì una
nuova fase (la “seconda generazione”), consacrando l’impegno
dell’URSS e dei PECO di realizzare gli obiettivi tipici dell’economia di
mercato
18
.
La CE aprì le delegazioni a Varsavia e a Budapest nel 1990: dette inizio
alle negoziazioni tanto di accordi bilaterali di commercio come di
accordi di commercio e Cooperazione, chiamati di “seconda
generazione”. Sulla base degli articoli 113 e 235 del Trattato di Roma
accordi di questo genere vennero conclusi il 16 dicembre 1991 con
Ungheria, Polonia e Cecoslovacchia. In date successive seguirono quelli
con il resto dei Paesi di quest’area e della zona baltica: Romania, il 1
febbraio 1993; Bulgaria, l’8 marzo 1993; Estonia, Lettonia e Lituania, il
12 giugno 1995 e Slovenia, il 19 giugno del 1996. In seguito alla
divisione della Cecoslovacchia, il 1 dicembre 1993, si rinegoziarono
17
Tali accordi sono stati conclusi con l’Ungheria il 26 settembre del 1988, con la Polonia il
19 settembre del 1989, con l’URSS il 18 dicembre 1989, con la Cecoslovacchia il 7 maggio
del 1990, con la Bulgaria l’8 maggio del 1990, con la Romania il 22 ottobre del 1990. Il
contenuto degli accordi, che hanno avuto portata ridotta a causa dei mutamenti radicali
avvenuti dopo breve tempo in Europa, è contenuto in vari contributi. Tra essi può vedersi P.
Gowan, “The European Community and East-Central Europe 1989-1991”, Labour Focus on
Eastern Europe, 1992; Lequesne, “Les accords de commerce et de coopèration Communautè
europèenne – Pays d’Europe de l’Est », in Gautron (a cura di), Les relations Communautè
europèenne - Europe de l’Est, Parigi, 1991.
18
La Dichiarazione di Bonn fu adottata nell’aprile del 1990 dalla prima Conferenza sulla
Cooperazione economica organizzata dalla CSCE, Conferenza sulla Sicurezza e la
Cooperazione in Europa, che si è trasformata in Organizzazione per la Sicurezza e la
Cooperazione economica in Europa (OSCE). All’Organizzazione hanno aderito l’Albania, le
Repubbliche Baltiche, la Croazia e la Slovenia, la Bosnia Erzegovina, la FYROM e le
repubbliche della Comunità degli Stati indipendenti (CSI). Questa trasformazione, che si
colloca nel percorso di riavvicinamento dei PECO all’Europa, ha sancito l’importanza di
tutelare la pace e il consolidamento della democrazia generalmente avvertita nell’intero
continente. Si veda Barberini, Dalla CSCE all’OSCE, Napoli, 1995, p.265 e ss.
20
rispettivi Accordi Europei con Repubblica Ceca e Slovacchia sottoscritti
il 4 ottobre 1993. Parliamo di “seconda generazione” alludendo al fatto
che i nuovi accordi risultarono più avanzati e con un chiaro componente
politico oltre ad accentuare l’obiettivo di liberalizzare progressivamente
gli interscambi commerciali e facilitare la Cooperazione. Tra il settembre
del 1988 e l’ottobre del 1990 si negoziano e firmano sette Accordi
bilaterali e un Accordo globale, con gli Stati dell’Europa dell’Est
19
.
Si delinea una nuova situazione europea nelle relazioni Est-Ovest che
porta i membri della CE ad affrontare due preoccupazioni:
1. la sua responsabilità nell’interazione con le nascenti democrazie
dell’Europa Centrale e Orientale;
2. il superamento della divisione continentale nel quadro giuridico e di
garanzie della Conferenza di Sicurezza e Cooperazione Europea
(CSCE)
20
.
Poco tempo prima del collasso finale del sistema del socialismo reale in
tutta la zona, la coscienza di tale responsabilità ha preso concretamente
forma nel ruolo assunto dalla Comunità nel sostegno fornito
dall’Occidente alle riforme avviate nei Paesi dell’Est. A questo proposito
fu cruciale il summit dei Capi di Stato e di Governo delle sette principali
nazioni industrializzate (G-7) che, durante il vertice tenutosi nel luglio
1989, delegò alle Comunità Europee il coordinamento del programma
19
Così S. Munos Albarran, “Las relaciones entre la UE y la Europa Central y Oriental”, in
Cuadernos del Este, n. 15, 1995.
20
Leggiamo nelle conclusioni del Consiglio Europeo di Madrid del giugno del 1989: “Il
Consiglio europeo riafferma la sua convinzione che l’avanzamento in materia di controllo di
armamenti e disarmo, il rispetto dei diritti umani e la libera circolazione delle idee,
dell’informazione e delle persone continuano a essere elementi necessari per il
miglioramento delle relazioni Est-Ovest”. Cfr. Consiglio Europeo di Madrid, Conclusioni
della Presidenza, 1989.