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momento in cui è nata la rete Internet, la possibilità di venire in contatto con altri utenti è tanto
cresciuta quanto cambiata, rendendo di fatto aperto lo scambio globale di informazioni. Queste
comunità sono essenzialmente siti web appositi, ove utenti di tutto il mondo possono parteciparvi e
condividere idee, proponendo e ricevendo da altri soluzioni per risolvere problemi specifici,
fornendo assistenza e collaborazione.
Abbiamo detto come nel modello comune aziendale tutte le novità del prodotto siano il risultato del
lavoro fornito dal team di ricerca e sviluppo, cercando spesso di preservare le proprie invenzioni
avvalendosi di brevetti o copyright, rendendo i consumatori di fatto impossibilitati a diffondere il
prodotto da loro modificato.
Nel susseguirsi dei prossimi capitoli si farà invece riferimento ad un altro modello, più moderno e
che renda il consumatore libero di diffondere le proprie innovazioni, dimostrando anche come le
aziende private possano trarne vantaggio sotto vari aspetti.
Tale modello è essenzialmente basato sull’utilizzatore, il quale non svolge più la funzione passiva
di consumatore: esso può partecipare attivamente al processo di sviluppo prodotto, avendo inoltre
facoltà di rendere libera l’innovazione, permettendo così anche ad altri utilizzatori di avvalersene
per risolvere un problema comune.
Nel caso in cui si parli di consumatori-innovatori, và specificato che si fa riferimento non al
comune consumatore, ma a quel rango di utenti che sono incentivati ad innovare perché spinti da
forti stimoli. Questi sono definiti lead-users, e si contraddistinguono perché in possesso di due
caratteristiche specifiche:
1. Sono all’avanguardia di un importante trend di mercato e quindi esprimono in anticipo i
bisogni emergenti che in futuro diventeranno bisogni diffusi nel mercato;
2. Si aspettano forti benefici dalle soluzioni per soddisfare le loro necessità e quindi sono
particolarmente incentivati ad innovare.
Dai due punti sopra elencati si comprende che i lead-users sono consumatori che percepiscono in
anticipo i bisogni rispetto al comune consumatore, frequentemente contraddistinti da un intenso
utilizzo del prodotto in esame, che comporta un bagaglio di conoscenze (know-how) consistente e
superiore alla media degli utilizzatori.
L’elaborato prevede la discussione delle community, dei toolkit e dei lead-users, evidenziando cosa
li lega allo sviluppo di un nuovo prodotto e la loro utilità sia per la società in generale che per le
aziende nello specifico, riportando anche un breve studio sullo sviluppo tramite toolkit-community
di una scarpa da calcio.
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CAPITOLO 1
DIFFUSIONE DELLE COMUNITA’ DI PRATICA
1.1 Cos’è una comunità di pratica
Usualmente per comunità si intende un insieme di persone che hanno comuni origini, idee o
interessi, che condividono lo stesso ambiente fisico e tecnologico, formando un gruppo
riconoscibile, unito da vincoli organizzativi, culturali e sociali (Ferdinand Tonnies, 1855-1936).
Da un punto di vista socio-economico la comunità appare come un’associazione di persone
contraddistinte dallo stesso interesse, che si confrontano scambiando idee e opinioni con lo scopo
di accrescere il proprio bagaglio culturale sul tema trattato.
Sta di fatto che con il termine comunità di pratica si racchiudono tutte le diverse tipologie di
associazione di individui contraddistinti da un comune interesse, siano esse reali o “virtuali”.
Se consideriamo le comunità come le abbiamo appena descritte, queste possono essere viste sia
come un’insieme di persone fisiche, quali ad esempio un gruppo di individui praticante un’attività
comune, sia come un’insieme di utenti, quali ad esempio informatici che dialogano via web.
E’ per questo che alcuni autori distinguono le due tipologie definendo comunità di pratica solo
quelle professionali, dove i propri membri condividono tra loro innovazioni e tecniche lavorative
riguardanti una specifica professione.
Si pensi al caso di acquisto di un software: se non si fosse in grado di risolvere un problema
riguardante una funzione operativa, per ricevere assistenza si sarebbe costretti contattare chi ha
venduto il software, oppure direttamente un esperto. Si consideri invece la possibilità di ricevere
assistenza da altri tramite ad esempio una comunità on-line, usufruendo della disponibilità offerta:
il problema potrebbe essere esposto ad altri utenti, potendo eventualmente trovare aiuto in uno di
loro. Si faccia riferimento alla più grande società al mondo produttrice di software, Microsoft, la
quale da anni mette a disposizione (a pagamento però) una comunità
(www.microsoft.com/italy/communities/find/default.mspx) dalla quale si può ricevere assistenza
on-line per i propri prodotti Microsoft, se ci si trovasse in situazione di difficoltà.
E’ stato appena citato il caso specifico della comunità di Microsoft, la quale in cambio di una certa
somma mensile garantisce un aiuto entro un certo limite temporale, ma và sottolineato che la
stragrande maggioranza delle comunità di pratica, trattino temi di informatica o di cucina, offrono
“consulenza” gratuitamente. Il fatto che non sia richiesto denaro in cambio di opinioni o
informazioni, rivela la volontà dei componenti della comunità a cooperare esclusivamente per
accrescere le proprie conoscenze in tale ambito. Questa caratteristica può sembrare irrilevante ma
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invece sta alla base del successo delle communities. L’utente è stimolato ad operare perché lui
stesso è interessato a ricevere nuove informazioni relative al prodotto, necessarie anche per
consentirgli di creare un prodotto tecnologicamente migliore. E’ lui che agisce di sua spontanea
volontà, non c’è nessuno alle sue spalle che lo obbliga a farlo, non è un lavoro.
La comunità di pratica è essenzialmente la combinazione di tre elementi (Wenger et al., 2002):
1. Un dominio (l’argomento trattato) su cui la comunità si concentra. Gli individui costituenti
dispongono di una visione e di un’esperienza comune sul tema trattato, che spesso non è fissato e
statico, ma si evolve con la comunità stessa.
2. Una comunità: corrisponde al gruppo di individui che interagiscono sui temi trattati,
avviando un rapporto di collaborazione e reciproco aiuto per giungere all’obiettivo comune. Se i
rapporti tra i vari membri sono fruttuosi, in ognuno tende ad instaurarsi un forte senso di
appartenenza alla comunità e l’impegno messo a disposizione di altri cresce.
3. La condivisione della pratica: sta ad indicare che nella comunità vengono condivisi oltre
alle idee anche strumenti, metodi, tecniche, stili, prospettive, linguaggi,ecc…
Proprio quest’ultima rivela come nella community non viene solo esposta la novità o l’idea, ma
bensì anche il modo utilizzato per operare, come “fare le cose”, un secondo aiuto molto importante:
difatti talune volte non si erra nel concetto del prodotto, ma bensì nel processo di creazione.
1.2 Caratteristiche e vantaggi delle comunità
Con la diffusione delle communities si sono constatati numerosi vantaggi, evidenziati dai risultati
ottenuti proprio sfruttando questo grande mezzo di informazione e scambio culturale.
Negli anni settanta il progettista informatico Eric Raymond sviluppò il software Linus. Nacque
conseguentemente il problema di scovare e correggere i numerosi errori di codice scritto per la
programmazione del software. Si constatò da subito un elevato costo, dovuto essenzialmente al
lungo tempo impiegato per scovare e correggere gli errori, date le dimensioni del software
progettato (Brooks 1979). Riflettendo, Raymond era convinto che lo stesso risultato fosse
ottenibile, a costi inferiori e in tempi più brevi, nel caso in cui venissero date ad una larga comunità
di utenti software, informazioni tali da permettere di identificare e correggere gli errori di codice.
Questo ragionamento fatto può essere motivato principalmente per due ragioni: in prima cosa, se si
fa affidamento ad una comunità di utilizzatori si dispone di un numero di individui “utili”
considerevolmente superiore rispetto al caso in cui una o più persone sviluppino; secondo, va
specificato che i bisogni di ogni singolo utente-innovatore sono usualmente differenti tra loro e di
conseguenza ognuno di questi cercherà di trovare una soluzione precisa al proprio problema.
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Difatti, come evidenziato nella tabella 2.1 (von Hippel 2005), la maggioranza delle innovazioni
conseguite dagli utilizzatori sono da associarsi a persone diverse.
Tabella 2.1 Larga distribuzione delle innovazioni sulla comunità di utenti. Nell’assoluta
maggioranza dei casi ogni utente sviluppa al più una sola innovazione
Fonte: von Hippel 2005
Dalla tabella sopra riportata è possibile notare che sia nell’ambito di innovazioni scientifiche (quali
strumenti), sia in quello sportivo (equipaggiamento), ad ogni utilizzatore è stata riconosciuta
un’unica innovazione; solo in rari casi un singolo utilizzatore ha ottenuto più d’una innovazione. Si
porti l’esempio degli strumenti scientifici, nel qual caso su 29 utilizzatori ad uno solo sono state
riconosciute 3 differenti innovazioni, mentre gli altri 28 individui sono stati portatori di un’unica
innovazione.
Un altro aspetto che rende le comunità di pratica uniche per lo scambio di informazioni é la
possibilità di fungere da banche dati e accogliere al loro interno una quantità consistente di
informazioni riferite a nuove idee e scoperte.
Questa funzione è così utilizzata da rendere certe comunità un vero e proprio archivio on-line di
informazioni (dati o elenchi di articoli scientifici) relative a varie categorie di innovazioni, e un
punto di collegamento tra utenti.
Si pongono ora due casi analoghi in cui una comunità funge da bacheca per la pubblicazione di
articoli e deposito di dati: il primo esempio riguarda userinnovation.mit.edu, un sito web
specializzato ove è possibile depositare dati, articoli e presentare le proprie scoperte, ed inoltre sia
gli utenti contribuenti che quelli non, hanno il libero accesso a tali informazioni. Il secondo
esempio può essere ottimamente rappresentato da Wikipedia, “l’enciclopedia libera del sapere”,
nella quale chi lo desidera può aggiungere personalmente testi scientifici basati su informazioni
proprie.
Da quanto riportato finora si comprende la potenzialità di sviluppo nuovo prodotto se sussiste la
partecipazione di un consistente numero di utilizzatori disposti a rendere pubbliche le loro idee e in
particolare le loro creazioni. Difatti il valore pratico della “libera diffusione delle innovazioni” può
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essere incrementato se in qualche modo le informazioni sono rese convenientemente accessibili.
Questo è un aspetto molto importante che deve contraddistinguere le comunità (von Hippel 2005) a
prescindere dalle informazioni contenute.
Infatti lo stesso von Hippel definisce le “comunità d’innovazione” come importanti nodi costituiti
da individui e aziende, ed interconnessi tra loro da informazioni scambiate tramite collegamenti di
tipo face-to-face, elettronico o di latro genere. Và quindi sottolineato che le comunità di
innovazione rappresentano una certa utilità per l’arricchimento culturale dei propri partecipanti
(singoli individui o aziende essi siano) quando uno di essi decide di rendere pubblica una sua
innovazione o idea, e quando altri reputano essere di un certo interesse l’informazione rivelata. A
questo punto i vari membri della comunità inizieranno a scambiarsi informazioni generali e
specifiche sul tema trattato, riguardanti problemi, soluzioni e nuove idee, che se correttamente
amalgamate tra loro possono portare a risultati soddisfacenti. L’aspetto più importante su cui ci si
concentrerà più avanti data la sua importanza è l’assistenza fornita dalle comunità agli utilizzatori.
L’esempio che forse risulta essere il manifesto della potenzialità che nasce da una stretta
collaborazione tra i vari membri di una comunità, è la realizzazione di un software open source.
1.3 I software open source
Oggigiorno le aziende seguono una filosofia basata principalmente sulla salvaguardia e copertura
dei propri segreti industriali, quali ad esempio scelte commerciali e nuovi prodotti. Proprio questi
ultimi sono quelli più frequentemente protetti da brevetti o copyright data l’importanza che gli
viene accreditata per il successo aziendale. I mezzi appena accennati e dei quali usualmente ci si
avvale sono essenzialmente tre (von Krogh, von Hippel 2003).
Il primo consiste nell’utilizzo di licenze basate sulle leggi del copyright; solitamente viene
concesso l’utilizzo di un prodotto (generalmente si parla di software, compact disc, libri,ecc… ma
un esempio lo può essere anche un mezzo meccanico) in cambio di una somma stimata in relazione
al valore del prodotto e/o al tempo in cui se ne fa uso. Tale “tecnica commerciale” risulta spesso
adoperata in sostituzione della vendita completa del prodotto, ponendo il cliente in una condizione
contrattuale di “abbonamento”. Considerando il caso specifico dei software, la licenza di un
software può ridurre il numero di computer in cui installare il programma oppure gli aggiornamenti
disponibili.
La protezione del codice sorgente è il secondo mezzo adoperato di frequente per proteggere un
software da possibili modifiche e libere diffusioni: il codice sorgente scritto dai programmatori
viene poi tradotto da un compilatore in “linguaggio macchina”, rimuovendo la documentazione del
programma e ottenendo un testo in codice binario (costituito esclusivamente da 0 e 1) difficilmente
interpretabile e traducibile anche dai programmatori più esperti. Essendo il codice sorgente la
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sequenza basilare delle istruzioni eseguite dal computer per ottenere lo scopo del programma,il
software risulterà pertanto incomprensibile agli utilizzatori e chi necessitasse del programma si
trova in una condizione di acquisto forzato.
Un terzo sistema frequentemente utilizzato dalle aziende per impedire ad altri di copiare e
commercializzare un proprio prodotto è quello di brevettarlo. Con questa azione, caratterizzata da
lunghi tempi e alti costi, viene fatto uno studio approfondito del prodotto, per poi trascrivere
legalmente quelle caratteristiche fisico-chimiche che lo rendono unico e per le quali un istituto
internazionale fa da garante, impedendo ad altre aziende la commercializzazione di un prodotto
possessore di queste caratteristiche. Tale mezzo risulta essere valido nel caso venga applicato a
prodotti unici, come lo può essere il colore “Rosso Ferrari” brevettato dalla stessa azienda;
viceversa, nel caso si applichi a prodotti fisicamente o tecnologicamente complicati, la protezione
fornita dal brevetto risulta essere poco duratura ed insicura, dati i molteplici modi esistenti per
aggirare il brevetto.
Questi tre mezzi appena elencati rappresentano per un’azienda una cospicua fonte di guadagno se
intelligentemente applicati. Tuttavia parte delle aziende o di quei innovatori che si avvalevano di
suddette tecniche protezionistiche si sono ricreduti, iniziando a liberalizzare i propri prodotti. Il
motivo di tale cambiamento è spiegato da quei difetti che contraddistinguono le licenze, i copyright
e i brevetti (von Hippel, 2001):
• La protezione dell’innovazione sotto forma di “segreto industriale” è spesso poco efficace,
ed alcuni studi hanno dimostrato che i dettagli riguardanti gli aspetti operativi dell’innovazione
vengono quasi sempre svelati dai concorrenti nel giro di 12-18 mesi.
• Vi è una grossa difficoltà nel sottrarsi alle imitazioni dei concorrenti, in quanto è molto
improbabile evitare che altri riescano a trovare una soluzione alternativa che gli permetta di
giungere ad un prodotto similare o sostitutivo al proprio. Un esempio è lo reverse engineering, una
pratica molto in voga tra le aziende per giungere allo stesso risultato del concorrente con un
prodotto simile: partendo con lo studio del prodotto brevettato dal concorrente, si cercano di
estrarre informazioni tali da permettere di ottenere un risultato simile sfruttando altre tecnologie.
• Le protezioni legali, quali brevetti o copyright, sono spesso inadeguate, economicamente
sconvenienti ed offrono scarsa difesa dai concorrenti, oltre a dover sostenere una procedura lunga e
complessa. Si pensi al costo e al tempo materiale che certe aziende sono obbligate a sostenere per
brevettare un prodotto, ottenendo un risultato temporale dato che nel giro di uno-due anni esiste la
possibilità di essere ancora commercialmente “scoperti”, dovendo nuovamente confrontarsi con le
aziende concorrenti.
Dopo aver visionato gli aspetti negativi derivati da un certo protezionismo sui propri prodotti,
vanno inoltre specificati gli aspetti positivi che possono ulteriormente stimolare aziende ed
innovatori alla libera diffusione dei prodotti. Questi hanno il compito di colmare quella perdita
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economica ed intellettuale subita dalla diffusione libera dell’innovazione, comprendente anche il
costo sostenuto per la diffusione stessa. E’ per questo che un’azienda deve sentirsi adeguatamente
ripagata sotto molteplici aspetti, da quello economico (almeno in parte) a quello di una certa
soddisfazione personale. Questi benefici possono essere riassunti così (von Hippel, 2001):
• Il riconoscimento dei risultati ottenuti da parte di altri individui del settore che può
condurre ad un incremento della reputazione dell’azienda (o dell’innovatore), favorendo il suo
successo professionale.
• L’effetto network e la creazione dello standard informale, due aspetti particolarmente utili
se gli sviluppatori sono aziende. Difatti in tale caso il vero guadagno ottenibile non deriva
dall’innovazione in quanto tale, ma dall’utilizzo fatto. Esempio tipico dell’effetto network lo sono i
telefoni cellulare, il cui valore intrinseco cresce al crescere del numero di utenti. Invece, per quanto
riguarda individui sviluppatori, l’adozione dello standard informale può contribuire a creare un
nuovo bisogno abbastanza diffuso da provocare l’interesse di qualche produttore.
• Il costo del prodotto può essere inferiore se un’innovazione viene commercializzata.
Nell’istante in cui si diffonde liberamente un’innovazione, viene offerta la possibilità ai produttori
di cogliere quali sono le reali esigenze dei clienti. Le aziende saranno così in grado di creare
prodotti ad un costo minore, potendoli proporre sul mercato a prezzi inferiori rispetto a quelli
sostenibili da un innovatore nella situazione di doverli sviluppare autonomamente.
La libera diffusione dell’innovazione, come se ne è già discusso, è un fenomeno di grande
rilevanza, e con “libera” si intende che tutti i diritti relativi ad una determinata innovazione sono
volontariamente concessi dall’innovatore stesso, e sono usufruibili da chiunque.
“Open source”, letteralmente “risorsa aperta”, sta oggigiorno ad indicare una risorsa (generalmente
software), alla quale ha libero accesso chiunque. Il primo concetto di open source si è sviluppato
negli anni ottanta, quando il brillante programmatore Richard Stallman della MIT’s Artificial
Intelligence Laboratory dopo aver partecipato alla programmazione del software commerciale di
ARPANET, notò la riservatezza con la quale l’azienda teneva nascoste le sequenze di codice
programmato, anche agli stessi programmatori, per esserne l’unica sola beneficiaria nella vendita
del prodotto. Esso si sentì offeso da questa generale tendenza nel mondo dei software, e così nel
1985, Stallman fondò la Free Software Foundation iniziando a diffondere un meccanismo legale
che permettesse il libero accesso a tutti i progettisti informatici, permettendo loro di diffondere i
software creati e fare uso di quelli presenti. Stallman volle far cessare tutti quei problemi legati a
brevetti e alle leggi sul Copyright creando un nuovo genere di licenza: la GPL (General Public
License), la quale forniva a chiunque fosse stato in possesso di una copia del software, la possibilità
di modificare il codice e renderlo disponibile anche ad altri utenti, a patto di rispettare i criteri della
distribuzione (von Krogh, von Hippel 2003). Così, con il GPL non era concesso ad aziende private
di appropriarsi dei software liberalmente ridistribuiti dagli utilizzatori.