2
discendente da un ordine precostituito e in assoluta dipendenza da quella che è, per così
dire, l’ideologia dominante nella società e nello Stato, che della stessa è il
rappresentante. In altre parole, ogni tipologia di Stato porta con sé un sistema
processuale corrispondente, dove il ruolo del giudice si configurerà in relazione alle
esigenze processuali.
2
La storia ha dimostrato come negli Stati più autoritari, ad esempio, il sistema
accolto fosse tendenzialmente inquisitorio, con un giudice indaffarato tra la libera,
liberissima ricerca della prova e la funzione giurisdizionale propria, cumulando delle
attribuzioni e dei poteri che non lasciavano spazio alle parti; un ruolo che straborda dai
munera che sono propri di un organo giudicante “tipo” in un sistema liberale, ma
perfettamente incardinato nelle esigenze, nella politica criminale, se vogliamo, di uno
Stato autoritario
3
. Se un giurista come Mario Pagano, addirittura nel XVIII sec., ha
affermato che l’evoluzione del processo penale è proporzionale a quella della comunità
statale
4
, ciò testimonia come il giudice fosse già in epoche così lontane, nella fisionomia
dei ruoli processuali, non solamente il depositario della funzione giurisdizionale
propria, tipica della tripartizione rigida dei poteri statali
5
, ma rappresentasse altresì
l’impronta che lo Stato, il legislatore, la comunità intendeva ed intende conferire
all’intero sistema processuale volto alla conoscenza della verità.
Le antitesi tra i diversi modelli processuali traducono in realtà delle conflittualità
gnoseologiche
6
, dei modi di intendere gli strumenti a disposizione dell’accertamento
della verità, le prove, in modalità contrapposte, dove da un giudice advocatus partium
generalis (sistema accusatorio) si passa ad un giudice essenzialmente neutrale e garante
rispetto alla prova stessa (sistema accusatorio). Questa è stata la dicotomia in virtù della
2
Sul punto M. R. DAMASKA, I volti della giustizia e del potere. Analisi comparativisitca del processo,
Bologna, 1991, 38 ss., richiama la dottrina a valutare l’influenza e la corrispondenza del sentire sociale
sul piano legislativo volto propriamente a delineare istituti di diritto processuale, mentre l’opera di T. D.
ERIKSON, Processo inquisitorio, processo accusatorio e legge delega, in La difesa penale, 1986,
evidenzia questo aspetto con particolare riferimento al sistema inquisitorio, in cui la funzione dell’accusa
viene concepita non come privatisitico-paritaria, ma come dominata da esigenze di tutela, appunto,
sociale.
3
Su questo tema l’opera di G. TARELLO, Storia della cultura giuridica moderna. Assolutismo e
codificazione del diritto, 1998, analizza criticamente ogni profilo relativo al processo di condizionamento
reciproco tra ideologia politica e giuridica nell’epoca dell’assolutismo ma con particolare riferimento
all’organo giudicante.
4
Così F. M. PAGANO, Considerazioni sul processo criminale, Napoli, ed. 2006, 39, partendo dalla
considerazione che “il processo fa quel corso medesimo, che compiono le nazioni tutte ne' diversi loro,
ma stabili periodi”.
5
In particolare C. L. DE S. MONTESQUIEU, De l'Esprit des Lois , 1748, a cura di S. COTTA,Torino, 1973,
ritiene che il potere giudiziario è pressoché nullo in uno Stato, nel senso che non è un potere politico e
non soffre dei turbamenti sociali, dato che il giudice è “bocca della legge” e deve solo applicare le leggi.
6
Cfr. L. FERRAJOLI, Diritto e ragione, Teoria del garantismo penale, Roma, 1989. 19 ss, che limita il
binomio accusatorio/inquisitorio al solo profilo gnoseologico, come lotta perenne tra due strumenti
processuali diversi miranti a medesime verità processuali.
3
quale si etichettavano i diversi modelli processuali fino a non molto tempo fa.
Distinzioni assolutamente convenzionali nella loro generalità (poiché ogni sistema ha le
sue peculiarità intrinseche), ma innegabilmente utili a differenziare i sistemi nei loro
tratti comuni più importanti. Una spaccatura, secondo la dottrina penalistica odierna
7
, da
interpretare con la convinzione che, in sede legislativa, ci si trovi a dover tutelare due
interessi apparentemente “incongruenti”, ovvero la repressione dei reati, da un lato, che
porta ad un ruolo attivissimo, dirompente del giudice in materia di prova e l’interesse
alla libertà degli imputati, dall’altro, che configura un giudice garante e super partes
dinanzi ai poteri probatori partitari delle parti. La tutela degli interessi si sostanzia
perciò in una scelta di fondo verso uno dei due sistemi.
La semplicità di questa contrapposizione non trova però terreno fertile nella
complessità e nell’evoluzione delle società moderne, dove non è accettabile che la scelta
politico-legislativa verso un modello processuale possa tutelare un interesse rilevante a
discapito di un altro altrettanto importante: in questo senso è soprattutto la figura del
giudice che merita notevole considerazione, in quanto la preferenza per un sistema
accusatorio non dovrebbe necessariamente comportare la rinuncia ai suoi poteri ufficiosi
che si pongano talvolta come extrema ratio, talvolta come ordinari, ma sempre a tutela
dei valori irrinunciabili che si prospettano nelle varie fasi procedimentali. Ne deriva un
sistema misto
8
, un vero e proprio “ibrido” in quanto su una sistematica prettamente
accusatoria si innestano delle prerogative processuali in capo al giudice che sono
particolarità incisive tipiche di un sistema inquisitorio.
L’Italia ha accolto nel corso della sua storia diversi modelli processuali. Il primo
vero codice di procedura penale dopo l’unità nazionale è datato 1913 (ad onor del vero
già nel regno sabaudo esisteva un embrionale raccolta di leggi astrattamente
qualificabile come codice regolante il processo penale, peraltro sotto una debole spinta
accusatoria), a conclusione di laboriosi studi preparatori che si risolsero con l’adozione
di un codice su di un modello pressoché misto, testimoniato dall’attestarsi di un giudice
su posizioni meno attive sotto il profilo probatorio, riconoscendo maggiori diritti alla
difesa.
9
Questa evoluzione “accusatoria” ed “europea”, poiché in piena corrispondenza
con ciò che accadeva nelle legislazione degli altri paesi del continente –in particolare
7
In particolare P. TONINI, Manuale di procedura penale, Milano, 2007, 2 ss.,
8
Si veda, sul sistema misto, in particolare A. A. DALIA-M. FERRAIOLI, Manuale di diritto processuale
penale, Padova, 2000, 22, “ Più che la supremazia dell’un sistema sull’altro, la storia del procedimento
penale ha fatto registrare –quale risultato di plurime combinazioni di caratteri dell’un modello con quelli
dell’altro- il ricorso ad un sistema c. d. misto, prescelto, a volte, come mezzo di valorizzazione delle
regole dell’inquisitorietà”.
9
Cfr. G. ALESSI, Il processo penale, Bari, 2001, 193-4.
4
nei paesi di Common Law-, venne immediatamente smentita dall’adozione del codice
Rocco nel 1930, così appellato dal nome del ministro proponente. Si tratta di un testo
che, in virtù di quanto affermato in precedenza
10
, rispecchia le necessità e soprattutto le
priorità del regime fascista allora al potere in Italia. Pur indubbiamente pregevole sotto
il profilo tecnico (il codice vantava tra i suoi compilatori molti giuristi dell’epoca pre-
fascista di ispirazione liberale), l’impronta politica di un regime autoritario si rivela
nella scelta di una istruzione segreta e scritta, di evidente stampo inquisitorio, in cui
viene lasciato poco spazio al diritto di difesa esercitabile, tra l’altro, dinanzi ad un
organo giudicante che gode di poteri pressoché illimitati in ordine all’assunzione delle
prove.
Nonostante il codice Rocco potesse apparire come un testo assolutamente
inidoneo a disciplinare un processo penale moderno basato su un impianto
democraticamente accettabile, l’influenza propositiva che le norme costituzionali
avrebbero avuto o avrebbero dovuto avere sul sistema penalistico è stata percepita tanto
dalla dottrina che dalla giurisprudenza con estremo ritardo
11
. Tuttavia, grazie ad alcune
sporadiche sentenze delle Consulta, che incisero sulle fondamenta più inquisitorie del
codice (assimilabili a dei veri e propri “retaggi” dell’era fascista), accompagnate da
un’opera di macchinosa legislazione tendente principalmente a bilanciare il diritto di
difesa prevedendo, ad esempio, la partecipazione del difensore all’istruttoria
12
, si
contribuì a plasmare un sistema misto dove il giudice poteva però condurre ancora una
sua istruttoria ricercando le prove d’ufficio come già il pubblico ministero.
13
Contemporaneamente si sviluppò una tendenza ancora più radicale nei confronti del
codice Rocco con il progetto di un nuovo codice inteso come unica alternativa ad una
continua e logorante modifica del testo allora vigente. Dopo diverse proposte, nel 1988
venne adottata la nuova disciplina del processo penale, basata sul principio della
separazione delle funzioni e netta ripartizione dei ruoli, dove la prova deve formarsi
10
A pag. 1-2 si tratta il rapporto tra ideologia statale dominante e legislazione processuale.
11
Questo il pensiero di V. M. SINISCALCO, I principi del sistema penale e la Costituzione, in “Rivista
italiana di diritto e procedura penale”, 1976, 1121 ss.,
12
Così stabiliva la legge del 18 giugno 1955 n. 517, recuperando le premesse liberali ispiratrici del codice
del 1913.
13
Al giudice istruttore, figura tipica non solo del codice Rocco ma di tutta la codicistica europea del
tempo, era attribuito il potere di compiere atti formativi di prova, concentrando così il baricentro del
processo nella fase delle indagini preliminari dove lo stesso giudice assurgeva a figura predominante: il
giudice istruttore è stato abolito dal nuovo codice di procedura penale del 1988. Sul tema cfr. G. PISAURO,
Il processo penale e le indagini preliminari, in F. SIDOTI, L’investigazione come scienza, L’Aquila, 2004,
185: “La fase istruttoria e demandata ad un organo, il giudice istruttore, che non è terzo fra l’accusa e la
difesa, ma è organo giustizia che organizza e dirige la formazione della prova secondo un proprio e
insindacabile criterio, promuove autonomamente l’azione penale, adotta i provvedimenti cautelari, anche
quelli limitativi della libertà personale, ed infine dispone dell’esito dell’istruttoria, archiviando la notizia
di reato o ordinando il rinvio a giudizio”.
5
nella dialettica tra le parti davanti ad un giudice garante della regolarità del
contraddittorio stesso. Un codice sul modello accusatorio, che non ha retto immune né
ad alcune sentenze di illegittimità della Corte Costituzionale
14
, né alle critiche della
dottrina che spingeva per un ridimensionamento della terzietà del giudice così da
conferirgli nuovamente dei poteri penetranti nella formazione della prova, dunque un
ruolo attivo nella ricerca della verità. L’idea che serpeggiava in buona parte degli
ambienti dottrinali, indirizzandosi verso un processo penale “elastico” nei suoi
automatismi, così da permettere una più agevole ricerca della verità processuale, non
poteva perciò prescindere da un giudice che contribuisse direttamente e attivamente alla
ricostruzione dei fatti oggetto del giudizio. Come è stato autorevolmente osservato
infatti “il giudice dovrebbe intervenire anche durante l’escussione della prova per porre
domande, contestare contraddizioni, approfondire quegli aspetti che le parti hanno
trascurato”
15
.
Un clima così ostile nei confronti del nuovo codice, da parte non solo di certa
dottrina ma sensibilmente anche della Consulta, è da ricercare nella cultura giuridico-
processuale italiana, radicata in meccanismi ancora tendenzialmente inquisitori dove un
codice come quello del 1988 faticava ad essere applicato nella sua interezza: era
evidente la necessità di una scelta, di un compromesso che superasse l’antitesi classica
tra due modelli in aperto conflitto.
14
In particolare la sentenza Corte cost., 3 giugno 1992 n. 255, in www.cortecostituzionale.it, ha
dichiarato l'illegittimità costituzionale dell'art. 500, terzo comma, del c.p.p., nonché l'illegittimità
costituzionale del quarto comma del medesimo articolo nella parte in cui non prevede l'acquisizione nel
fascicolo per il dibattimento, se sono state utilizzate per le contestazioni previste dai commi primo e
secondo, delle dichiarazioni precedentemente rese dal testimone e contenute nel fascicolo del pubblico
ministero; la sentenza della Corte cost., 18 maggio 1992 n. 254, in www.cortecostituzionale.it,ha
dichiararti l’illegittimità costituzionale dell’art. 513 c.p.p., secondo comma, nella parte in cui non prevede
che il giudice, sentite le parti, dispone la lettura dei verbali delle dichiarazioni di cui al primo comma del
medesimo articolo, rese dalle persone indicate nell’art. 210, qualora queste si avvalgano della facoltà di
non rispondere. Entrambe le pronunce della Consulta sembrano rafforzare, nell’ottica del quadro
probatorio, l’incidenza delle indagini preliminari sul contraddittorio dibattimentale.
15
In questi termini si è espresso Giovanni Leone nel 1996, come riportato dalla ASSOCIAZIONE TRA GLI
STUDIOSI DEL PROCESSO PENALE, Atti del convegno presso l’università di Napoli 8-10 dicembre 1995,
Milano, 1996, 139. Non si tratta di una opinione isolata, come si può appurare dalla sentenza della Corte
cost. 24-26 marzo 1993 n. 111, in www.cortecostituzionale.it, che “rigettando le questioni di legittimità
poste sul’art. 507 c.p.p. sostiene viceversa l’illegittimità di una interpretazione restrittiva della detta
disposizione che, è noto, costituisce il riferimento normativo principe per i poteri ufficiosi del giudice
penale in materia di prova.”