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Introduzione
Questo elaborato nasce dalla volontà di fare luce su un’odiosa realtà presente nelle
società occidentali contemporanee che interessa ogni ambito della cooperazione
socio-economica e mette in discussione i più saldi principi politici e sociali
formatisi intorno alle idee di eguaglianza, giustizia, libertà e democrazia. Quella per
cui gli esseri umani sono divisi in due categorie, quella di cittadini e quella di non-
cittadini, in base a cui essi possono godere di diritti, riconoscimento, garanzie
formali o, al contrario, possono essere condannati dalle istituzioni ad un limitato
accesso alle risorse, ai diritti e alle opportunità, e a vivere in condizioni di povertà,
vulnerabilità e dominio. Nonostante, infatti, secoli di riflessione filosofica su temi
come quelli della libertà e dell’eguaglianza, dopo guerre devastanti, regimi
totalitari, diaspore ed olocausti di ogni tipo, la distribuzione dei diritti all’interno
delle comunità politiche avviene ancora in maniera classista ed è determinata sulla
base di concetti controversi come quelli di identità e di patria, creando le condizioni
istituzionali perché esistano degli individui privi di personalità giuridica, confinati
in situazioni di illegalità, e quindi soggetti di ingiustizia.
La globalizzazione ha eliminato le dogane commerciali ma ha rafforzato
quelle politiche e burocratiche, creando il paradosso insopportabile per cui le merci
sono libere di circolare mentre il diritto alla libertà di movimento è negato alle
centinaia di migliaia di esseri umani che vengono bloccati alle frontiere, muoiono
nel tentativo di aggirarle, e vivono una vita di soprusi e vulnerabilità all’ombra della
società una volta varcati i confini dei ricchi Paesi del Nord. Come evidenzia Aufieri
(2010, p.10), infatti, alla libera circolazione dei beni di consumo «non corrisponde il
diritto delle persone a spostarsi alla ricerca di una vita dignitosa» e, poggiando su
queste basi, la logica dell’accoglienza dei migranti nei Paesi ricchi «involve sempre
più nella caccia al clandestino» (ibidem). Questo testo, però, non si riferirà ai
migranti come a esseri umani illegali, irregolari o clandestini per due ragioni: in
primo luogo, per il semplice fatto che nessun essere umano può essere illegale e,
secondariamente, perché chi giunge in Europa o in America nascosto nel carico di
un tir o nel bagagliaio di un’auto, chi approda sulle coste italiane, greche e spagnole
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«dopo aver attraversato il mare aperto per notti e giorni, senza mangiare, senza bere,
incastrati gli uni negli altri, chi ha attraversato deserti, è fuggito da guerre,
prigionie, torture, violenze» merita, se non altro, che gli sia almeno riconosciuta la
dignità di persona (Ballerini 2014, p.155). Sulle orme dell’insegnamento di Dal
Lago (2009, p.17), in questa analisi verrà usato il temine “migranti” «per descrivere
la condizione dei soggetti che abbandonano il loro spazio nazionale» e il termine
“immigrati” per fare riferimento «al modo in cui le nostre società ricche li trattano e
li etichettano». Allo stesso modo, non ricorrerà nemmeno all’espressione “società di
accoglienza” ma verrà adoperata quella di “società di destinazione” (ibidem).
La dissertazione si propone di approfondire la concezione repubblicana di
giustizia alla luce delle tematiche dell’eguaglianza, della libertà e della cittadinanza
quando queste vengono applicate ai migranti che vivono nelle società occidentali. In
particolare, vuole mostrare in che modo alcuni regimi legislativi costringano la
maggioranza dei migranti a «vivere senza libertà» (Bohman 2009) e in condizioni di
vulnerabilità estrema, e come questa venga esacerbata dall’intreccio e dalla
sovrapposizione di molteplici fattori – ad esempio: il sesso, l’etnia, il gruppo
religioso e culturale di appartenenza, il corpo, la condizione economica e così via.
Se molto spesso il dibattito pubblico sull’immigrazione finisce per fare luce o per
concentrarsi solamente sui “casi estremi” – quelli dei rifugiati, delle vittime del
traffico di esseri umani, delle persone rinchiuse nei Centri di Identificazione e
Espulsione – questa tesi cerca, invece, di focalizzarsi sull’approfondimento di
alcune categorie di migranti. Precisamente su coloro i cui statuti giuridici si
collocano in una sorta di “area grigia” che, a grandi linee, è definita da due soglie:
in basso, dalla condizione propria di chi possiede documenti e che, in almeno un
periodo della propria esperienza migratoria, è stato considerato “in regola”
(lasciando fuori, quindi, gli undocumented migrants e gli apolidi); in alto, fino al
momento che precede l’acquisizione della cittadinanza (lasciando fuori chi già la
possiede). La scelta di incentrare la discussione su questa tipologia di residenti è
finalizzata a mostrare che il rischio di non vedersi riconosciuti molteplici diritti, di
avere minore accesso alle risorse collettive e alla protezione dalla legge (ad esempio
per quanto riguarda i rapporti di lavoro) può essere corso non solo dagli apolidi ma
anche da coloro che si trovano in una condizione di soggiorno regolare.
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La tesi si articola lungo cinque capitoli. Il primo è incentrato sulle
diseguaglianze connesse alla condizione e allo status dei migranti all’interno delle
società dei Paesi ricchi dove essi risiedono, argomentando contro la dicotomia
“regolare/irregolare” e mostrando le molteplici sfumature che si celano dietro la
terminologia omogenizzante dell’immigrazione. Il secondo illustra il quadro teorico
entro cui si inscrive la riflessione filosofica contemporanea sulle peculiari
diseguaglianze che caratterizzano lo status dei non-cittadini: quello del dominio
(inteso come soggezione alla minaccia di un potere non vincolato da meccanismi di
controllo) proposto dal neo repubblicanesimo. In particolare, questa sezione espone
il contributo dato dall’analisi di Benton alla discussione accademica ancora in corso
a proposito del potenziale che il paradigma della libertà come non-dominio ha di
affrontare e risolvere positivamente le questioni che il fenomeno della migrazione
porta a galla. Il terzo capitolo introduce ed esplora il concetto di intersezionalità,
inteso come la metodologia appropriata per uno studio che voglia occuparsi della
condizione delle donne immigrate: essa non è riducibile alla semplice somma di
essere “donna” e di essere “migrante”, bensì è il risultato congiunto delle due sfere
ed è, quindi, declinata in modo particolare. Ne costituiscono l’esempio le tre storie
narrate nel quarto capitolo: la condizione di residenti e non-cittadine ha un impatto
profondo sulle vite delle donne, sulla loro dignità, sulla possibilità che esse hanno di
godere dei diritti e delle pari opportunità, sulla loro libertà e sulla loro autonomia.
Infine, il quinto capitolo ricostruisce un’argomentazione a favore di una concezione
di libertà come non-dominio che sia fruibile anche da parte dei non-cittadini, come
condizione imprescindibile per la credibilità di qualsiasi teoria politica che si
proponga di affrontare le problematiche che caratterizzano le società
contemporanee.
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CAPITOLO PRIMO
Stranieri e diseguali
Nella prima parte di questo lavoro voglio cercare di fare luce sulle modalità e sulle
motivazioni che segregano la maggior parte dei migranti in quanto tali nelle
posizioni più basse della stratificazione sociale dei Paesi ricchi dove essi risiedono.
L’etichetta di immigrati, che definisce la popolazione straniera presente su un
territorio, identifica persone estremamente diverse tra loro: accomuna chi ha scelto
di lasciare il proprio Paese d’origine per cercare migliori opportunità lavorative con
chi, vittima della tratta, è stato nascosto in una sacca di legumi nella stiva di una
nave mercantile; chi è scappato dalla Nigeria per fame con chi è fuggito dal regime
dittatoriale iraniano; chi è perseguitato per il proprio orientamento sessuale in
Camerun con chi spaccia ovuli di cocaina; chi rapina con chi si guadagna la vita con
il duro lavoro quotidiano. Il termine descrive colui o colei che migra, qualsiasi
persona, come qualcuno che appartiene ad un gruppo omogeneo e rinchiude in
un’unica categoria omologante una realtà che invece è plurale, accomunata solo
dalla condivisione di un eguale status di svantaggio socio-economico ed
istituzionale. Nonostante, quindi, la popolazione straniera presente nei ricchi Paesi
del nord raggruppi individui diversi tra loro, il loro status è correlato a
diseguaglianze specifiche presenti in tutte le molteplici sfere della vita sociale,
economica, e politica: nel mercato del lavoro, nel reddito, nell’esposizione al rischio
della povertà, nell’accesso all’abitazione, alle opportunità educative, alle cure e alla
prevenzione sanitaria (Guerzoni 2013, p.8)
Diseguali di fatto e di diritto
Fatta eccezione dei migranti altamente qualificati – richiesti all’estero proprio in
virtù delle loro competenze e che per questo costituiscono un gruppo privilegiato –
la maggior parte di coloro che migrano, una volta stabilitisi nel Paese di
destinazione, presenta le caratteristiche della popolazione locale più svantaggiata a
cui si aggiungono quelle che derivano dalle peculiarità della condizione di
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migrante: conoscenza della lingua minima o inesistente, nessuna relazione
interpersonale formale (lavorativa) o informale (sociale) presente sul territorio,
scarsa conoscenza della cultura ospitante e del sistema assistenziale, burocratico,
sanitario. Fanno eccezione coloro che si insediano in un luogo dove è già presente
parte dei familiari o una comunità di persone provenienti dalla stessa area
geografica: questo può essere vantaggioso solamente se essi siano già integrati nella
più ampia comunità di “accoglienza”, in caso contrario può ritardare o ostacolare
maggiormente l’integrazione e lo sviluppo di reti relazionali di chi è appena arrivato
a destinazione.
Ciò che sembra essere una costante del trattamento diseguale è il fatto che la
maggior parte dei flussi migratori è costituita da individui che si aspettano e
accettano una collocazione subordinata rispetto agli autoctoni nel mercato del
lavoro, come una sorta di prezzo da pagare in cambio di un reddito più alto di
quello che non riceverebbero nel Paese d’origine
1
. Mentre sarebbe logico pensare
che tale asimmetria di condizioni si riequilibri col passare del tempo, man mano che
il migrante abbia acquisito quelle risorse linguistiche, culturali e lavorative che
mancavano al suo arrivo, in realtà ciò non si verifica automaticamente:
all’aumentare dell’anzianità migratoria non sempre corrisponde una riduzione delle
differenze socioeconomiche con la popolazione nativa, e talvolta queste non
scompaiono nemmeno con l’avvento delle generazioni successive (Saraceno, Sartor
e Sciortino 2013, p.32). Esistono, infatti, complessi meccanismi normativi e sociali
che relegano i migranti negli strati più vulnerabili e svantaggiati delle società. Ciò
che avviene, generalmente, è che i migranti operano nei settori a minore contenuto
professionale, svolgono mansioni meno qualificate e ricoprono impieghi meno
stabili con una retribuzione media minore; ciò genera una condizione di reddito
molto basso, e questa viene ulteriormente aggravata dal costo che essi devono
pagare per affitti mediamente più alti per qualità abitative inferiori. Il basso reddito,
unito alla minore competenza linguistica e alla difficoltà nell’accesso alle
informazioni, diminuisce la capacità di utilizzare i servizi del welfare e produce
1
Affermare che i migranti si aspettino una collocazione sociale inferiore e che accettino questa
prospettiva non significa affermare che essi conoscano quale sarà, effettivamente, il trattamento che
sarà loro riservato nelle democrazie occidentali. Ne costituiscono un chiaro esempio le storie narrate
nel quarto capitolo.
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forme specifiche di svantaggio scolastico: per quanto riguarda la situazione in Italia,
le statistiche mostrano che «i figli degli immigrati hanno percorsi scolastici più
brevi, frequentano maggiormente scuole tecnico-professionali e hanno rendimenti
più bassi dei loro coetanei italiani»
2
(Saraceno, Sartor e Sciortino 2013, p.30).
Finiscono la scuola presto, non ottengono le qualifiche necessarie, e svolgono
mansioni poco retribuite, ricadendo, o rimanendo, in un circolo vizioso di povertà,
emarginazione, e svantaggio. Le diseguaglianze, inoltre, non risparmiano nemmeno
il sistema penale: sempre in Italia, la probabilità che gli stranieri denunciati vengano
condannati è cinque volte maggiore rispetto a quella degli italiani, senza contare il
fatto che essi sono condannati con maggior severità per gli stessi reati. Dal Lago
scrive che molte persone, per il fatto stesso di essere migranti, «hanno trovato nel
carcere la destinazione inevitabile del loro percorso migratorio, indipendentemente
dal fatto di avere commesso reati o dalla loro effettiva pericolosità sociale» (Dal
Lago 2009, p.31-32).
Ciò che è estremamente problematico è che tali diseguaglianze investano
anche chi è straniero ma non immigrato: per la giurisprudenza della maggior parte
dei Paesi di destinazione, infatti, chi nasce nel Paese in cui i genitori risiedono – del
quale essi non sono cittadini – non può ottenere di diritto la cittadinanza solo per il
fatto di esservi nato (ius soli)
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e le proprie condizioni giuridiche risentono così dei
processi di mobilità che hanno coinvolto i propri genitori (o nonni in qualche caso).
In pratica subiscono le stesse diseguaglianze e svantaggi (vengono discriminati)
senza aver conosciuto altro Paese se non quello in cui risiedono, sulla base delle
loro origini. I migranti sono quindi soggetti a diseguaglianze pervasive e
sistematiche proprio a causa del loro essere stranieri: nonostante il loro gruppo non
sia omogeneo, essi sono comunemente relegati nel segmento più vulnerabile delle
società occidentali. Ciò che determina questa tendenza è ascrivibile a due ordini di
problemi: la diseguaglianza può essere prodotta sia dalla società – dagli
2
Quest’affermazione è supportata anche dalla ricerca di Azzolini, Cvajner e Santero (2013), le cui
analisi documentano che lo svantaggio dei figli dei migranti nell’ambito dell’istruzione rispetto ai
figli dei nativi è rilevante ed investe sia le scelte scolastiche sia gli apprendimenti.
3
Nel mondo sono all’incirca trenta gli Stati che applicano lo jus soli in modo automatico e senza
condizioni. Tra questi vi sono gli Stati Uniti d'America, il Canada, quasi tutti gli stati del Sud
America. Gli Stati europei che ne fanno uso - come Grecia, Francia, Portogallo, Irlanda, Regno
Unito e Finlandia - invece, pongono alcune restrizioni in base al tempo di permanenza sul territorio o
allo status dei genitori precedente alla nascita (Sabaghi 2013).