I valori culturali su cui insistono gli studiosi di questo filone fanno riferimento al lavoro, la frugalità,
l’orientamento al futuro, la ricerca del profitto e l’individualismo. Ad esempio, i valori del
protestantesimo e del confucianesimo, uniti al centralismo statale, hanno formato nei coreani un
carattere formato all’individualismo e all’abnegazione, che ha consentito loro di trarre vantaggi
economici dalle attività imprenditoriali che hanno avviato negli Stati Uniti.
Ivan Light, Aubrey Bonnett, Michael Laguerre e Bernard Wong hanno evidenziato l’importanza dei
valori che fondano i rapporti interpersonali intrecciati nell’ambito del gruppo parentale o con persone
della stessa provenienza. A New York i west indians e gli haitiani hanno potuto fare affidamento sulla
fiducia e sulla solidarietà diffusa tra i membri delle rispettive comunità per dar vita al credito a
rotazione, vale a dire la pratica, entro una comunità etnica, di prestare denaro a interesse zero ai
membri che ne hanno bisogno. Anche tra i cinesi e i giapponesi il ricorso a questa pratica è frequente.
Tuttavia, Russel, Bonnett e Min, pur sostenendone l’importanza, ritengono che sia esagerato il rilievo
attribuito al credito a rotazione, in quanto: gli imprenditori etnici hanno cercato svariati altri canali per
accedere ai capitali (Russell); alcuni gruppi utilizzano queste associazioni per motivi non legati agli
affari (Bonnett); secondo recenti indagini, per avviare l’attività economica, la gran parte dei
proprietari è ricorsa ai propri canali o a quelli della famiglia e non al credito a rotazione.
L’approccio culturalista è stato oggetto di dure critiche. La grande importanza attribuita ai fattori
culturali per spiegare la diffusione dell’imprenditorialità etnica, lo rendono di fatto un approccio
deterministico, attento solo ai valori che caratterizzano i gruppi etnici e disinteressato al contesto
economico e sociale in cui vivono gli stranieri immigrati. In altre parole, è un modello astorico, che
non prende in considerazione i vincoli e le occasioni offerte dalla struttura della società ospitante.
Anche la teoria dello svantaggio
3
interpreta il fenomeno del lavoro indipendente immigrato
ricorrendo ad una spiegazione centrata sull’offerta.
In base a questa teoria, la scelta del lavoro autonomo rappresenterebbe un’occasione per far fronte
alla disoccupazione e alla difficoltà di inserimento sociale che caratterizza alcune minoranze
svantaggiate per la scarsa familiarità con la lingua locale, un capitale educativo scarso o comunque
poco spendibile sul mercato del lavoro, vere e proprie forme di discriminazione nell’accesso al
lavoro. Ciò porterebbe queste minoranze a rifugiarsi in attività indipendenti che richiedono moderati
investimenti in capitali e tecnologie, e quindi per lo più marginali e poco remunerative.
In base a questa prospettiva, Jones e McEvoy affermano, ad esempio, che il sorgere di attività
indipendenti tra gli immigrati asiatici in Gran Bretagna e in Canada corrisponderebbe alla ricerca di
soluzioni di ripiego contro la difficoltà di inserimento nel mercato del lavoro dipendente. La maggior
parte di queste attività autonome si concentrerebbe in settori e spazi marginali dell’economia, e
sarebbero caratterizzate da sopravvivenza precaria, orari di lavoro prolungati, lavoro pesante e
intensivo.
Un integrazione tra gli approcci precedenti, sempre nell’ambito delle spiegazioni centrate sull’offerta,
è rappresentato dall’interpretazione del fenomeno proposta da Light, secondo il quale il successo
delle economie etniche dipende dall’incontro di due fattori, la posizione cronica di debolezza sul
mercato del lavoro subita da alcuni gruppi socialmente discriminati di immigrati, e la disponibilità di
risorse collettive che favoriscono il sorgere di attività imprenditoriali.
Queste “risorse etniche collettive” possono essere ricondotte a quattro categorie: dotazioni culturali
“ortodosse” (etica del lavoro, forme di socializzazione, tradizioni di mestiere, ecc.), soddisfazione
relativa (ovvero la disponibilità degli immigrati ad accettare condizioni lavorative svantaggiose
3
vedi AMBROSINI M. / “Immigrati imprenditori. Un fenomeno emergente nelle economie occidentali”
/ Stato e mercato - n.45, dicembre 1995.
perché comunque migliori rispetto alle condizioni sopportate nel paese di partenza), solidarietà
interna reattiva nei confronti della società esterna, orientamento ad una permanenza limitata nel
tempo.
In primo luogo, Light osserva che vivere in una terra straniera stimola lo sviluppo di risorse reattive,
che nel paese di origine non avrebbero alcun motivo di sorgere. In particolare la condizione di
ghettizzazione cui sono soggette spesso le comunità di immigrati alimenta la creazione di reti di
solidarietà interne al gruppo, tramite le quali, i gruppi etnici maggiormente imprenditivi, possono
contare sulla facilità di accesso ai capitali, all’informazione, alla forza lavoro fedele e sottopagata e
traggono vantaggio dalle relazioni di fiducia che si instaurano non solo con i propri dipendenti, ma
anche tra ditte differenti, fornitori e clienti.
In associazione alle reti etniche, rivestono importanza nel promuovere il fenomeno anche risorse
ortodosse che caratterizzano uno specifico gruppo etnico, come l’etica del lavoro, la frugalità,
l’esperienza di generazioni in settori specifici di attività, i valori borghesi.
Altri due fattori, secondo Light favoriscono l’imprenditorialità di chi emigra: l’orientamento ad una
permanenza temporanea e la relative satisfaction. L’orientamento al soggiorno è tipico di chi emigra
per cercare di accumulare in tempi relativamente brevi una somma di denaro che gli permetta di
realizzare nel suo paese natale i suoi scopi. Per gli immigrati temporanei il lavoro autonomo è una
valida alternativa al lavoro salariato, e inoltre favorisce maggiormente i requisiti di rapidi guadagni e
facile liquidabilità da loro richiesti.
La relative satisfaction ,invece, favorisce l’inserimento degli stranieri in attività autonome precarie a
bassa redditività ed alta intensità di lavoro, che caratterizzano in genere i segmenti di mercato poco
coperti dai commercianti autoctoni.
Ciò spiegherebbe, a parere di Light, il fatto che, ad esempio, tra i gruppi di stranieri del Nord America
da lui osservati, a parità di svantaggi, i tassi di lavoro autonomo sono più alti per alcune minoranze
rispetto ad altre (eclatante è il caso dei neri d’America, da sempre poco propensi alle attività
autonome).
Un quarto filone è rappresentato dall’approccio ecologico
4
, che spiega l’affermarsi delle economie
etniche, partendo dal modello della segregazione residenziale.
Alcune ricerche hanno constatato che i membri della popolazione autoctona hanno la tendenza ad
abbandonare i quartieri centrali delle città lasciando così liberi degli spazi abitativi. Gruppi di
immigrati possono andare ad insediarsi in queste zone, dando origine a vere e proprie comunità
etniche, caratterizzate dal patrimonio di tradizioni, gusti, abitudini che gli immigrati portano con sé,
nonché da bisogni e specifiche esigenze del gruppo etnico, che possono essere conosciute in
profondità e quindi soddisfatte solo da imprenditori appartenenti allo stesso gruppo etnico.
A questo proposito Ivan Light ha parlato di “mercato protetto”, dominato dai gusti speciali di
minoranze etniche e nel quale la compresenza di proprietari e clienti coetnici rappresenta la situazione
ideale affinché domanda e offerta di beni e servizi si incontrino con successo.
Viene così a formarsi una comunità chiusa non solo nei rapporti sociali, ma anche geograficamente
all’interno della città. La concentrazione residenziale si tramuta in segregazione residenziale e
permette il fiorire di economie etniche interne alla comunità, destinate a un mercato etnico protetto.
Aldrich, Carter, Jones, Mc Evoy e Velleman sostengono che la dimensione della componente coetnica
e straniera della clientela di un mercante è spiegabile ricorrendo sia all’approccio della distanza
sociale sia a quello della segregazione residenziale. Il primo sottolinea maggiormente l’importanza
dell’etnicità nel rapporto tra venditore e cliente. I proprietari di piccole imprese vedono aumentare le
loro entrate se cresce il ruolo dell’etnicità. Favoriscono quindi le iniziative che si muovono in questa
4
vedi SANTI R. M. / “Un'indagine sul lavoro autonomo degli immigrati a Torino “ /IRES, 1994.
direzione, ad esempio la fondazione di associazioni nelle comunità di appartenenza, e partecipano
attivamente alle questioni politiche riguardanti il proprio gruppo etnico (Bonacich e Modell).
L’approccio della segregazione residenziale sostiene, invece, che la composizione della clientela
dipende dalla concentrazione residenziale. All’interno delle “enclavi etniche”, che Wilson e Portes
definiscono come minoranze di immigrati che restano spazialmente concentrati in una particolare città
o regione, è più facile individuare i gusti e le esigenze particolari che favoriscono il mercato protetto e
si possono godere i benefici derivanti dalle economie di scala.
Altri due autori interessanti che appartengono all’approccio ecologico sono Park e Piore. Come
osserva anche Ambrosini
5
, sia Park che Piore adottano un approccio molto descrittivo e poco
esplicativo che spiega l’esistenza delle economie etniche sulla base di logiche autosegregative.
Park interpreta l’inserimento nel mercato del lavoro degli immigrati, in termini assimilazionisti: la
posizione degli immigrati evolverebbe in maniera lineare, seguendo un ciclo scandito nelle fasi del
contatto, della competizione, dell’adattamento e dell’assimilazione. Mentre adotta una spiegazione di
tipo strutturale lo studio di Piore, secondo il quale gli immigrati si inserirebbero nel mercato del
lavoro secondario, dove emergono le attività più precarie, faticose, connotate da uno status sociale
inferiore, ormai quasi non più accettate dai lavoratori nazionali.
In sintesi, secondo questi studiosi gli stranieri inseriti nelle economie etniche di una certa area sono
destinati ad occupare posizioni marginali nel tessuto economico della società ospitante, in quanto la
concentrazione residenziale e occupazionale consentono limitate possibilità di ampliamento delle
attività e guadagni piuttosto bassi.
Un tentativo di superamento di questo tipo di impostazione è costituito dall’approccio interattivo
6
che ha preso forma negli ultimi due decenni e propone una prospettiva di analisi che integra i due
modelli, culturale ed ecologico, partendo dall’assunto di base che il successo delle economie etniche
dipende dall’incontro tra le risorse etniche della comunità di immigrati e il contesto di arrivo.
Nell’approccio interattivo convergono gli apporti di vari autori che, partendo da un’impostazione di
tipo ecologico, non hanno mancato di sottolineare anche l’importanza di fattori culturali: secondo
questi studiosi, in altre parole, i valori culturali e la segregazione residenziale non agirebbero
singolarmente nello sviluppo dell’imprenditorialità etnica, ma vanno inseriti nella struttura
economica, politica, sociale in cui si stabiliscono gli immigrati.
Segue questa linea di analisi, ad esempio, la teoria delle enclaves di Portes, secondo il quale, a certe
condizioni, le iniziative imprenditoriali dei gruppi etnici producono una rapida ascesa sia in termini di
reddito che di collocazione sociale.
Si tratta di gruppi che si concentrano in una determinata area spaziale e organizzano una varietà di
imprese, destinate a servire dapprima il mercato interno del gruppo, specie per prodotti etnici
difficilmente reperibili all’esterno, poi la popolazione in generale.
Caratteristica di fondo delle enclaves è il fatto che una parte rilevante della forza lavoro immigrata sia
occupata in imprese di proprietà di altri immigrati.
Secondo Portes, gli immigrati che hanno successo nell’aprire attività autonome sono quelli che già nel
loro paese avevano una propria attività.
Un altro fattore che Portes considera determinante per la costituzione di un’attività è il capitale.
Anch’egli sostiene che oltre ai risparmi familiari, fondamentale è il sostegno assicurato dal gruppo di
appartenenza.
5
vedi AMBROSINI M. / “Immigrati imprenditori. Un fenomeno emergente nelle economie occidentali”
/ Stato e mercato - n.45, dicembre 1995.
6
vedi SANTI R. M. / “Un'indagine sul lavoro autonomo degli immigrati a Torino “ /IRES, 1994.
Infine Portes attribuisce grande importanza alla disponibilità di manodopera, aspetto che comunque
non rappresenta un problema dato il flusso continuo di parenti, amici, connazionali in cerca di
un’occupazione.
La segregazione occupazionale degli immigrati e la concentrazione delle imprese etniche in
determinate aree, quindi, contribuisce a rafforzare la solidarietà etnica, che a sua volta consente alle
imprese di beneficiare di un alto grado di lealtà, di cooperazione e di flessibilità della forza lavoro.
La cooperazione tra lavoratori e imprenditori, fondamentale nell’assicurare competitività alle imprese
etniche, è garantita dalla possibilità per i lavoratori di sperare in avanzamenti di carriera.
La teoria di Portes ha ricevuto alcune critiche: sulla base di ricerche da loro effettuate alcuni studiosi
hanno rilevato che le retribuzioni rapportate all’investimento in capitale umano, sono maggiori per i
lavoratori immigrati inseriti in un’economia aperta che non in un’enclave etnica. I maggiori vantaggi
derivanti dall’impiego dei connazionali, insomma, sarebbero dei datori di lavoro. Tale asimmetria nei
rapporti metterebbe così il crisi quel rapporto di cooperazione asimmetrica tra dipendenti e
imprenditori sostenuta da Portes.
Un altro importante contributo allo studio sul fenomeno è ravvisabile nello studio di Edna Bonacich
sulle middleman minorities
7
.
I middlemen costituiscono minoranze che tendono a concentrarsi in particolari occupazioni collocate
in una posizione intermedia nella scala degli impieghi. Si pensi ad esempio ai commercianti, gli
agenti, gli usurai, i brokers.
Lo studio della Bonacich suggerisce che le middleman minorities sono gruppi non orientati al
definitivo insediamento nel paese ospitante, bensì intenzionati ad un soggiorno temporaneo, il che ha
implicazioni sia dal punto di vista sociale che economico.
In primo luogo vengono intraprese attività che non legano l’individuo al territorio per un lungo
periodo di tempo, facilmente liquidabili e caratterizzate dalla rapida circolazione dei capitali. Saranno
quindi preferiti gli impieghi nel commercio, nell’autotrasporto, in attività che richiedono abilità
manuali e la conoscenza di un mestiere (ad esempio barbieri, ristoratori, sarti ecc.) o nel libero
professionismo. Inoltre l’intenzione di ritornare in patria dopo il soggiorno induce a risparmiare
un’ampia parte dei guadagni per poterli reinvestire in seguito nel proprio paese.
Un'altra caratteristica della migrazione contemporanea per la Bonacich è lo scarsissimo interesse ad
integrarsi nella società ospitante, e, per contro una forte solidarietà interna al gruppo che favorisce
relazioni privilegiate tra i membri della comunità, e la creazione di istituzioni scolastiche e culturali,
sia formali che informali.
Inoltre, i legami di solidarietà entro la comunità presentano risvolti vantaggiosi anche sul piano
economico: viene infatti facilitata un’efficiente distribuzione delle risorse finanziarie, dai capitali al
credito, ricorrendo al credito a rotazione o a tassi agevolati, ma anche delle informazioni, grazie alle
reti interne al gruppo, e del lavoro, con l’assunzione dei membri della famiglia che accettano basse
retribuzioni, orari di lavoro lunghi e garantiscono alta fedeltà.
L’accesso a queste risorse e l’organizzazione del gruppo etnico dà vita a imprese prevalentemente
integrate verticalmente. Ne sono esempi, afferma la Bonacich, il commercio all’ingrosso e al dettaglio
di articoli per drogherie gestito dagli indiani in Gran Bretagna; la produzione e vendita di generi di
vestiario da parte degli ebrei di New York.
Le conseguenze economico-sociali del soggiorno sono spesso motivo di ostilità da parte dei locali,
che tendono a vedere i middleman minorities come parassiti a causa dei loro bassi consumi nel paese
di accoglienza in vista di investimenti futuri altrove.
7
vedi SANTI R. M. / “Un'indagine sul lavoro autonomo degli immigrati a Torino “ /IRES, 1994.
I conflitti interetnici rafforzano ulteriormente la volontà dei componenti della minoranza di ritornare
nel proprio paese e di mantenersi al di fuori della società ospitante, che rappresenta comunque il
terreno del loro successo economico.
Tuttavia, essere soggiornanti non è sufficiente dal momento che le middleman minorities non si
sviluppano all’interno di ogni provenienza. E’ necessario che il fattore del soggiorno sia affiancato da
fattori culturali specifici.
Bisogna saper leggere al di là delle differenze di status, dei rapporti di solidarietà interni al gruppo,
dell’ostilità manifestata dalla società ospitante per spiegare la presenza di minoranze di mediatori.
L’approccio della Bonacich, però, appare astorico al pari di quello culturalista, in quanto non prende
in considerazione la struttura delle opportunità concessa dalla società nella quale si sviluppa
l’imprenditorialità degli immigrati.
Criticabile è apparso, inoltre, il fatto che sia la condizione di soggiornanti a spingere gli stranieri a
dedicarsi ad occupazioni autonome. Difatti, i notevoli rischi cui si va incontro con un’attività in
proprio dovrebbero incentivare gli stranieri alla ricerca di una lavoro più sicuro seppure alle
dipendenze.
A ciò si aggiunge che ricerche condotte in Gran Bretagna hanno constatato che i gruppi asiatici
scelgono tra lavoro autonomo e dipendente in base più ai livelli salariali corrisposti: maggiore è il
salario di un lavoro alle dipendenze, minore risulta la propensione ad assumersi il rischio di
intraprendere un’attività in proprio.
Le interpretazioni fondate sulla domanda tendono, come detto, a porre enfasi anche sui fattori
strutturali e istituzionali delle economie dei paesi ospitanti.
Un valido contributo è quello di Palidda
8
, che pone in rapporto lo sviluppo di attività indipendenti tra
gli immigrati con il processo di ristrutturazione delle economie occidentali che hanno favorito la
decentralizzazione della produzione verso piccole unità produttive. Questo processo ha fatto emergere
l’intraprendenza di immigrati con anzianità migratoria e qualificazioni professionali, ma in diversi
paesi ha offerto opportunità anche a stranieri arrivati da poco, con un passaggio più rapido rispetto al
passato dal lavoro salariato al lavoro autonomo. Per Palidda fondamentale risulta essere, quindi, la
capacità di mobilitazione delle risorse degli immigrati per rispondere alle esigenze dell’economia
locale.
L’analisi di Waldinger, Aldrich e Ward, che non si discosta molto da quella di Palidda, tende
maggiormente a collegare l’imprenditorialità etnica con le esigenze dei sistemi economici avanzati.
Secondo questi autori, all’interno di una situazione storicamente determinata, gli stranieri immigrati
reagiscono strategicamente all’interazione tra opportunità strutturali e caratteristiche di gruppo.
A seconda della struttura del mercato presa in esame, l’attività autonoma degli stranieri può essere
orientata unicamente a soddisfare i bisogni della comunità etnica di appartenenza, oppure può avere
accesso a un mercato più vasto. Nel primo caso l’imprenditore è in grado di soddisfare la domanda di
beni e servizi solo se conosce i gusti speciali, le tradizioni, i problemi di insediamento del gruppo. In
questo modo potrà fornire prodotti culinari, articoli di vestiario o oggetti tipici che sicuramente
incontreranno il favore della clientela e, se dispone di competenze professionali specifiche, potrà
contribuire all’insediamento di altri connazionali, tramite consulenze nel campo legale, medico,
immobiliare, contabile, traendo vantaggio dal rapporto di fiducia che abitualmente si instaura tra
coetnici in un paese straniero. Si viene così a creare un mercato protetto, già incontrato analizzando
l’approccio ecologico, caratterizzato dalla preferenza culturale ad avere rapporti solo con persone
8
vedi AMBROSINI M. / “Immigrati imprenditori. Un fenomeno emergente nelle economie occidentali”
/ Stato e mercato - n.45, dicembre 1995.
della propria provenienza e dall’assenza di costi che dovrebbero essere assunti dagli imprenditori
locali per conoscere i gusti e le necessità del gruppo etnico.
Questi fattori, uniti alla concentrazione residenziale, portano a considerare il mercato protetto come
l’ambiente più favorevole all’avvio di un’attività gestita da stranieri. Tuttavia il mercato interno
rischia di diventare sovraffollato, saturato, dotato di scarso potere di acquisto. Di qui la spinta a
muoversi verso il mercato aperto, che può offrire maggiori opportunità anche se presenta un numero
più elevato di rischi.
La barriera insormontabile per le attività degli immigrati è rappresentata dalla produzione e
distribuzione di massa, tanto che appare chiaro che non possono competere con le grandi aziende. I
piccoli imprenditori, stranieri e non, devono essere abili, in altre parole a costruirsi nicchie in mercati
sottoserviti o abbandonati dalle grandi aziende in quanto non adatti alle loro caratteristiche
economiche e organizzative. Gestire, inoltre, un’attività in un centro cittadino comporta elevati costi
fissi, cosicché una grossa catena di distribuzione non si localizzerebbe mai in questi spazi, in quanto
le economie di scala, il loro principale vantaggio competitivo rispetto alle piccole ditte, si ridurrebbe
molto in seguito alla crescita dei costi fissi.
Nei quartieri centrali delle città ci sono quindi possibilità di inserimento di attività autonome degli
stranieri, specie in settori precari e insicuri ad alta intensità di lavoro e bassa remunerazione, nonché
di scarsa attrattiva per i nativi, che, a questo tipo di attività preferiscono occupazioni più sicure
gratificanti, socialmente apprezzate. Si pensi, ad esempio, ad imprese di pulizia, facchinaggio, ad
officine meccaniche, ecc.
Fondamentale per garantire la competitività di questo tipo di attività appare il ricorso alla dimensione
delle reti sociali.
Uno degli input al processo dell’immigrazione è la catena di richiamo migratorio, manifestazione
evidente dei legami di rete tra stranieri della stessa origine. Giunti a destinazione, nel paese di
accoglienza, le reti sociali consentono di mantenere i rapporti con il paese di provenienza e vengono
in aiuto al singolo individuo durante la fase di inserimento nella società ospitante.
La struttura della rete e la posizione occupata al suo interno rappresentano delle risorse determinanti e
consentono agli immigrati di poter attuare vere e proprie strategie per penetrare in determinati tipi di
mercati.
Per quanto riguarda la manodopera, i familiari e i conoscenti sono la fonte primaria. Il basso costo
della manodopera, il ricorso a pratiche informali di assunzione e la disponibilità, da parte dei
lavoratori, ad accettare condizioni di lavoro al di sotto dei normali standard conferiscono alle imprese
etniche un’elevata flessibilità.
La comunità di appartenenza riveste inoltre un importante ruolo nel formare i giovani lavoratori alle
conoscenze di base per intraprendere una certa attività, tanto che da apprendisti inesperti è possibile in
un arco di tempo relativamente breve diventare lavoratori esperti in grado da soli di gestire un’attività
in proprio.
Inoltre, l’accesso al capitale garantito dai legami familiari e amicali, altre ad assicurare una base
sicura di finanziamento, ha ripercussioni anche sull’atteggiamento delle banche, che sono più
disponibili a concedere aiuti finanziari in quanto constatano che i rischi di un’eventuale fallimento
vengono ripartiti su un maggior numero di persone.
La rete sociale garantisce, inoltre, l’instaurarsi di rapporti maggiormente collaborativi con le imprese
dei fornitori, con le imprese concorrenti che operano nello stesso settore e con la clientela.
Nel modello proposto da Waldinger, Aldrich e Ward le caratteristiche di gruppo risultano essere un
fattore che facilita lo sviluppo delle economie etniche, ma l’elemento determinante sono comunque i
condizionamenti che derivano dalla struttura della società.
Nel modello di questi autori, tuttavia, sono stati rilevati degli elementi di debolezze da parte di
Ambrosini, il quale critica innanzitutto l’insistenza sulla dimensione etnica e comunitaria