4
La postura rivelativa è invece caratterizzata da una fusione, una non-
scissione tra la noesis e la hyle: nella noesis non v’è il soggetto, essa è
come uno specchio che riflette i dati iletici del momento presente; una
coscienza impersonale, non autoreferenziale.
Bisogna comunque chiarire una cosa importante: in ogni caso, «senza
la noesis, la hyle non potrebbe costituirsi come vissuto dell'elemento
intenzionale, e, senza la hyle, fonte primaria di ogni visualizzazione, la
noesis e quindi l'intero Erlebnis [il vissuto] non potrebbero mai
pervenire a manifestazione fenomenologica».
1
Coscienza ed io, quindi, non sono sinonimi in tutte le culture.
Tali posizioni coscienziali altre, differiscono solo a causa di una
inculturazione che è reciprocamente altra. Sia l’uomo rivelativo che
l’uomo egocentrato hanno un centro di coscienza. L’alterità va
ricercata nella sintassi coscienziale propria di ciascuna “forma
culturale”.
«In generale, l'aver coscienza implica la coscienza del mondo e la
coscienza del sé, l'eterocoscienza e l'autocoscienza. L'autocoscienza,
ora, può configurarsi, a causa di differenze culturali, come diretta o
come indiretta. Quella diretta — di matrice culturale occidentale — è
l'autocoscienza noetica, cioè autoriflessiva, quella indiretta — tipica
1
D.A. Conci 1978b: 8 in S. Romeo, Hyle, «Glossario» in www.hieros.it
5
delle culture a fondamento mitico-rituale — è l'autocoscienza iletica,
non autoreferenziale. In questo caso la coscienza acquisisce coscienza
di sé solo tramite la hyle, che agli indigeni di queste culture sembra
elargire non solo l'esistenza del mondo, ma anche quella stessa del sé.
La coscienza impersonale, dunque, è tale perché è iletizzata. Nel
vissuto originario tutto è iletizzato: la noesi è iletizzata. Caratteristico
di una noesi iletizzata è appunto il fatto che non può mai tornare su sé
stessa e personalizzarsi, in modo autoreferenziale. Essendo iletizzata,
funziona secondo una logica anch'essa iletizzata, che ignora, ad
esempio, il principio di identità puramente noetico, vuoto,
parmenideo.
Coscienza e soggetto (io), dunque, non sono necessariamente
sinonimi. Tecnicamente, la coscienza personale si identifica in un polo
egologico, il soggetto, che intenzionando una hyle intesa come
"materia" pone e coglie un noema oggettivo (astratto o empirico che
sia). La coscienza impersonale, invece, in quanto noesi non
egocentrata e non autoreferenziale, intenziona una hyle non intesa
come materia, ponendo e cogliendo un noema hyletico».
2
2
S. Gonnella, S. Romeo, S. Zacchini, Coscienza impersonale, «Glossario» in www.hieros.it
6
L’uomo rivelativo non ha nel suo vocabolario concetti quali “mondo”,
“natura”, in quanto, assente il soggetto nella sua coscienza, è altresì
assente l’attività proiettiva ed estroflettente propria al soggetto.
Tali attività della coscienza – determinate da un processo di
inculturazione che varia a seconda della cultura di appartenenza –
influenzano il modo di rappresentarsi e quindi di rappresentare il dato
percepito.
Tenendo presenti tali fondamentali concetti, ci è possibile capire più
approfonditamente i motivi e la logica dell’altro senza cadere in sterili
paragoni, in futili giudizi, senza proiettare la nostra cultura sull’altro,
senza vederlo attraverso le nostre lenti colorate, tinte dalla Scienza
egocentrata. Soprattutto, capire le ragioni dell’altro vuol dire non
vedere nel suo agire qualcosa di patologico o inesatto (si pensi qui al
giudizio artistico sulla mancanza di prospettiva operato su popoli e
civiltà che non l’hanno usata e tuttora non la usano).
In un’analisi contrastiva è necessario un atteggiamento né selettivo né
partecipativo, ma una epoché radicale, una sospensione
dell’assolutezza della nostra cultura, della “normalità” delle nostre
ragioni. Un atteggiamento selettivo proietta l’errore sull’altro
impedendoci di scorgere la sua genuinità e freschezza.
7
L’epoché radicale si rivela un indispensabile strumento per capire e
soprattutto per capirsi: comprendendo le vere ragioni dell’altro,
comprendiamo meglio anche le nostre.
8
Capitolo 1
Modi altri di stare al mondo
Tutti sanno che la goccia si perde nell'oceano,
ma pochi sanno che l'oceano si perde nella goccia.
Ramana Maharshi
Un trattato di Fenomenologia dello spazio-tempo non può prescindere
da uno studio che chiarisca il modo in cui la specie umana percepisce,
vede ed eventualmente rappresenta il dato percepito.
Sarà infatti lo studio delle modalità di percezione e, in conseguenza, di
rappresentazione del dato che chiarirà le alterità intercorrenti tra le
varie culture. Il modo di stare al mondo è infatti diverso per ogni
cultura.
L’organo della vista è quello che più usiamo per orientarci nello
spazio: tramite l’occhio, la mente si organizza ed è capace di muovere
il corpo e far sì che agisca in un determinato modo.
È mediante l’occhio che la mente sviluppa l’immaginazione ed è noto
che il pensiero si muove per immagini.
In questo capitolo porrò l’accento sull’attività intenzionale della
percezione: non tanto sul modo di percepire dell’occhio, ma sul modo
9
di usare l’occhio da parte della coscienza. È infatti la coscienza ad
essere determinante nell’interpretazione dei dati iletici, dei fenomeni
che accadono nel campo visivo.
Ogni cultura ha il suo modo di organizzare la percezione del dato, e le
modalità di coglimento sono le stesse modalità di rappresentazione:
l'uomo quindi "si trova" sempre con ciò che impara a percepire perché
lo trova logico a causa dell'inculturazione ricevuta sin da bambino. I
conti gli tornano non perché egli veda veramente il mondo per come è,
ma perché egli percepisce in base alla stessa modalità con cui
rappresenta. Tale meccanismo passa inosservato in ogni cultura.
Compito della fenomenologia è gettar luce su tali processi.
È inoltre importante considerare che la coscienza è plasmata
dall’erlebnis – il vissuto coscienziale – della propria cultura di
appartenenza. Mentre la cultura è plasmata da una determinata serie di
reazioni agli stimoli sensoriali, la coscienza è a sua volta modellata
dalla cultura. All’origine del processo formativo di una cultura,
l’attività sensoriale è un fattore essenziale: essa dà forma alla
memoria, la quale plasma la coscienza che organizza un sistema
linguistico prima elementare, poi sempre più complesso. Sistema che
sarà necessariamente influenzato dalle circostanze, ad esempio dalle
condizioni morfologiche (territorio, clima, ecc.); tale linguaggio
10
influenzerà e formerà un determinato tipo di mente il cui sviluppo
determinerà la nascita di uno specifico tipo di cultura la quale
garantirà la sopravvivenza di tutti gli indigeni.
Tale processo si rinnova costantemente: più tardi, sarà la cultura stessa
a influenzare e a dare forma alla struttura della coscienza
dell’indigeno neo-nato. È in tal modo che una cultura trova il suo
centro e, perpetrandosi, garantisce la sopravvivenza – fisica e
coscienziale – degli uomini che ne fanno parte.
Ogni cultura, oltre a provvedere alla crescita e al mantenimento del
nucleo popolare, garantisce, mediante i suoi riti, i suoi miti, la salutare
certezza di essere “al centro del mondo”, la sicurezza dell’essere dalla
parte giusta, di essere al centro della Creazione. Inoltre, il Rito serve
anche come strumento di scansione ritmica della vita: si pensi ai
fondamentali riti di passaggio che avvengono nelle culture rivelative.
Senza il rituale di passaggio dall’infanzia all’adolescenza, ad esempio,
il ragazzo non potrà crescere ed essere considerato un vero uomo.
Il Rito è quindi una forma di ripartizione ritmica del tempo: un vero e
proprio strumento del Mito.
Tutte le culture possono essere paragonate a delle calamite che
attirano a sé determinate idee, le sviluppano, ne fanno un sistema di
credenze. Ogni calamita, finché non vede le altre, crede di essere
11
l’unica, di stare al centro dello spazio, centro assicurato dai suoi miti
sacri o dalla propria tecnologia.
Quando avviene l’incontro con l’altro, con un’altra cultura, si aprono
due strade, due possibilità: quella del rifiuto totale dell’altro,
ribadendo quindi la centralità della propria cultura; quella
dell’assorbimento nell’altro, nella sua cultura, processo che
rappresenta una vera e propria sconfitta, una vera e propria crisi di
identità culturale e quindi coscienziale.
Tale processo è motivato dal fatto che è quasi impossibile rimanere
lucidi, imperturbabili nell’incontro con l’altro da noi, con “l’alieno”.
In un tale incontro-confronto (a livelli profondi v’è sempre un
confronto di tipo gerarchico con l’altro) non ci è possibile evitare di
manipolare l’alieno, di ridurlo alle nostre idee, di giudicare il suo
modo di vivere usando il metro del nostro modo di vivere.
Un antropologo fenomenologico, in fase di analisi, deve mettere tra
parentesi il proprio imprinting culturale proprio per evitare sia di
cadere in uno sterile giudizio qualitativo – il quale è sempre relativo
alla propria cultura-visione – sia di cadere in un’analisi di tipo
partecipativo (si pensi qui a Carlos Castaneda, il quale si iniziò alle
pratiche di stregoneria degli Sciamani sudamericani) che toglie ogni
obbiettività all’analisi.
12
È da tali esigenze che nasce la tecnica dell’epoché radicale: una
messa in parentesi di tutto ciò che fa parte della propria cultura. Tale
tecnica investigativa si spinge più avanti rispetto all’epoché
husserliana in quanto quest’ultima dava per scontato l’esistenza del
soggetto in tutte le culture mentre l’epoché radicale relativizza anche
il concetto di soggetto.
L’unico assunto che l’epoché radicale pone è che tutti i popoli abbiano
una coscienza, quindi siano mossi da un perché logico e sensato nei
loro atti, nelle loro consuetudini. Bisogna quindi chiarire la differenza
tra coscienza e soggetto: tutti abbiamo una coscienza, ma la forma che
questa assume varia a seconda dell’inculturazione ricevuta.
Vi sono ad esempio delle culture – quindi delle coscienze – in cui è
assente il soggetto. Tali coscienze sono quindi definite impersonali: in
esse non è presente l’io-noesis invariante che fa da sfondo a tutte le
attività, ma una coscienza sempre cangiante che si adatta al dato
iletico percepito nel momento presente.
Bisogna dunque ricordare che, dopo il periodo della prima infanzia,
ogni uomo si affaccia nel mondo con un bagaglio coscienziale che è
simile a quello dei suoi compagni-autoctoni e altro da quello di un
indigeno di una cultura altra. Ogni uomo quindi vede e percepisce in
base all’influenza della propria cultura, ed è anche il linguaggio,
13
imparato sin dai primi anni di vita, a determinare il successivo modo
di interpretare il dato e quindi di agire.
Ciò implica che anche il modo con cui la coscienza intende e
“impagina” il mondo varierà a seconda della propria cultura di
appartenenza. L’archetipo culturale «[…] non solo dirige, come un
campo magnetico, gli istinti, orientando il comportamento inconscio
della personalità, ma appare anche come pattern of vision, ordinando
il materiale psichico in immagini simboliche».
3
Se proviamo a riportare le concezioni cosmologiche in uso presso vari
popoli, troveremo un modo altro di rappresentarsi l’insieme
universale. Tale alterità, come abbiamo detto, varia in base
all’inculturazione ricevuta.
Secondo gli Aborigeni australiani, ad esempio, è il canto a creare tutto
ciò che esiste: tutta la realtà che ci circonda è stata cantata. Il canto
rituale aborigeno, chiamato Corroborees, comprende danza, mito,
storia, preghiera e ritualità.
Ecco alcuni versi di tali canti:
«”Non lasciate che i desideri divengano i vostri padroni; non coltivate
l’egoismo: esso causa sofferenza a voi e a tutte le persone con cui
siete in contatto”.
3
E. Neumann, La Grande Madre, Astrolabio Ubaldini, Roma, 1981, p. 18
14
“Quando donate, scegliete sempre il cibo migliore e date sempre due
volte di più rispetto a quello che avete ricevuto”.
E soprattutto
“Il pensiero deve essere limpido: mentire a sé stessi costituisce un
pesante imbarazzo”.
«Ma tali pensieri non sono assimilabili ad una legge così come la
conosciamo nella nostra cultura, né tanto meno sono permeati dallo
spirito di giudizio morale tipico dei principali sistemi religiosi, i cui
precetti implicano per lo più una relazione causa effetto ben precisa;
questi sono cantati, perché è col canto che divengono realtà: gli
aborigeni dividono già il cibo, non c’è, o non sembra che ci sia il
bisogno di una legge che lo imponga o suggerisca. Sottoposto a questo
appunto, un vecchio Wirinum (uomo medicina) una volta rispose:
“certo che dividiamo: la condivisione è stata cantata!”»
4
Notiamo quindi che per gli Aborigeni il canto, oltre ad aver creato il
cosmo, provvede a rinnovare la Creazione anche nel momento
presente: essi cantano continuamente per vivificare in se stessi la
Legge sacra, per rendere viva la creazione, per partecipare attivamente
al lavoro cosmico. Se essi, ad esempio, non la cantassero, la
condivisione non sarebbe possibile.
4
M. Mondini, Vita Primitiva (la visione come creazione del mondo), in
www.movimentoarcaico.com
15
Tra gli Aborigeni il Sole è visto come una donna che si sveglia ogni
giorno nel suo accampamento a est, accende un fuoco, e prepara la
torcia di corteccia che porterà attraverso il cielo. Prima di esporsi, ama
decorarsi con ocra rossa, la quale, essendo una polvere molto fine,
viene dispersa anche sulle nuvole intorno, colorandole di rosso,
(l'alba). Una volta raggiunto l'ovest, rinnova il trucco, colorando
ancora di giallo e rosso le nuvole nel cielo (il tramonto). Poi la Donna-
Sole comincia un lungo viaggio sotterraneo per raggiungere
nuovamente il suo campo nell'est.
Durante questo viaggio sotterraneo il calore della torcia induceva le
piante a crescere.
La Luna, al contrario, è considerato un uomo. A causa
dell'associazione del ciclo lunare con il ciclo mestruale femminile, la
Luna è collegata con la fertilità ed è considerata come un simbolo
altamente magico. Un’eclisse di Sole è interpretata come l'unione tra
la Luna-Uomo e il Sole-Donna.
Per gli Antichi Egizi il cielo è la Dèa Nut, una donna che, piegata “ad
arco” protegge e avvolge la terra illuminandola e fecondandola con i
raggi del Sole, il quale è il suo ventre; la Luna è la sua bocca.