contrario di trascorrere un periodo provvisorio di lavoro all’estero, garantito
appunto dalla condizione di cittadino del Mercato Comune grazie al principio della
libera circolazione della manodopera. Naturalmente, le ragioni per cui milioni di
italiani furono spinti ad andare a lavorare in altre nazioni furono le stesse che
avevano spinto tanti altri milioni di emigranti a spostarsi nei periodi precedenti.
L’Italia del dopoguerra, e in particolare il Mezzogiorno, non offrivano grandi
possibilità di lavoro; al contrario l’Europa del Nord rappresentava il sogno di poter
cambiare in fretta le proprie condizioni e tornare a casa arricchiti.
4
Per questa loro
provvisorietà gli emigranti di quell’epoca furono definiti in Germania
5
:
Gastarbieter, lavoratori ospiti
6
. Era convinzione sia dei lavoratori stranieri, che
delle autorità, dei datori di lavoro e della società tedesca che questi immigrati
dovessero «rimanere “ospiti” e dopo la loro “visita” al paese insieme con la loro
famiglia (“ospite”) di nuovo lasciarlo, come prevede il principio di ospitalità».
7
Alla fine, contrariamente a queste speranze, una buona parte di questi uomini non
tornarono nei loro paesi d’origine e quella che si pensava dovesse essere una
Migration auf Zeit (migrazione a termine)
8
, si trasformò invece in una stabile e
permanente comunità.
Lo scopo principale di questa ricerca è di presentare questa importante pagina
dell’emigrazione italiana, attraverso la ricostruzione della memoria di una
4
Il salario medio di un emigrato in Europa era all’epoca di circa 35-50% superiore di quelli
possibili in Italia. Cft. F. Romero, cit. , p. 414.
5
Per Germania si intende sempre la Repubblica Federale Tedesca, più avanti abbreviata
anche con la sigla RFT.
6
Con il termine Gastarbeiter (lavoratore ospite) si definirono gli emigrati chiamati
temporaneamente a lavorare in Germania nel dopoguerra. Il termine stesso di “ospite” voleva
marcare l’idea di una permanenza temporanea di tale manodopera.
7
L. Moreschi, (tesi di Laurea) Die Integrationspolitik der Stadt Wolfsburg – zwischen
Sonderfall und Integrationspolitischem Paradigma, facoltà di Scienze Politiche della università
tecnica di Braunschweig, anno accademico 2001-2002,Braunschweig, p. 27.
8
“Immigrazione a termine”, concetto sviluppato in questo lavoro, in particolare nella parte
dedicata ai vari tipi emigrazione che storicamente si mostrarono in Germania e quella peculiare
forma che si manifestò nel secondo decennio del dopoguerra. Termine citato da: A. Schulte,
Zwischen Diskriminierung und Demokratisierung Aufsätze zu Politiken der Migration, Integration
und Multikulturalität in Westeuropa, Francoforte sul Meno, 2000, p. 17. Citato anche in: L.
Moreschi, , p. 27 e p.50.
3
comunità italiana in una piccola, ma rappresentativa, cittadina tedesca: Wolfsburg.
Dopo aver ripercorso la storia, si potrà quindi iniziare (nella seconda parte di
questo lavoro) un’analisi di quale immagine i Gastarbeiter italiani abbiano
mostrato e quali possibilità, come pure quale volontà di integrazione si siano
avute. Questi due ultimi aspetti citati, integrazione ed immagine, si trovano in un
rapporto complementare tra di loro: l’immagine è l’italianità che si mostra
attraverso i vestiti, le differenti fisionomie e fattezze, la lingua, le tradizioni, la
cucina, attraverso il temperamento e il modo di vivere. L’immagine è quello che si
proietta, volontariamente o inconsciamente, nella società circostante, è il primo
segnale di quello che si trova più in profondità. Attraverso la loro immagine, i
Gastarbeiter mostrarono le più evidenti caratteristiche culturali di italiani, un
popolo ancora per molti aspetti estraneo alla società tedesca. E quella stessa
immagine, l’auto-rappresentazione che gli italiani mostrarono, divenne la
premessa necessaria per l’integrazione. Infatti solo una forte consapevolezza di se
stessi come individui e come gruppo rende possibile di muovere i primi passi in un
qualsiasi processo di integrazione. Occorre sapere cosa si apporta di proprio e
come interagire come gruppo nazionale in una società nuova ed estranea, per
potersi realmente integrare. Oggi il tema dell’interazione è uno dei temi più
discussi, si ripete che noi che abbiamo aderito alla Comunità siamo “cittadini
europei”. Tuttavia dovremmo chiederci cosa significa essere “cittadini europei”?
Come funziona e cosa si intende per integrazione delle diverse culture? Queste
domande iniziarono ad essere poste negli anni ’60, all’indomani della nascita della
CEE (1957), alla luce delle concrete esperienze di quegli anni di forti movimenti
migratori trai diversi paesi europei. Anche gli italiani in Germania, in quanto
“cittadini europei” iniziarono dopo qualche anno a chiedere di essere trattati al pari
dei propri concittadini tedeschi socialmente, economicamente e politicamente,
ossia di poter partecipare realmente alla vita della società in cui ormai vivevano da
anni. Dunque, lo scopo di questa mia ricerca è stato quello di verificare la concreta
possibilità di integrazione che questi gli italiani hanno avuto.
4
Il caso preso in esame, come già accennato, è quello della comunità italiana di
Wolfsburg, cittadina situata tra Hannover e Berlino, nella Bassa Sassonia, e legata
da sempre al destino della grande casa automobilistica Volkswagen. La storia
stessa di questa piccola metropoli presenta caratteri paradigmatici: essa fu il primo
agglomerato urbano nella storia nato esclusivamente in funzione di una fabbrica.
Capita, di solito, che le fabbriche sorgano là dove esista già un quartiere, cosìché
gli abitanti possano essere impiegati come manodopera locale; più difficilmente
accade, invece, che una città sia fondata e costruita esclusivamente con il motivo
di fornire alloggi per i futuri lavoratori di una fabbrica. Questo accadde a
Wolfsburg. Dall’idea hitleriana di offrire ad ogni tedesco una automobile (da qui il
nome della futura nota casa automobilistica tedesca: ‘Volk’ = popolo e ‘Wagen’ =
automobile, dunque Volkswagen = auto del popolo) nacque questa città. Nel 1938
fu presentato il progetto per la metropoli modello nazista, che si sarebbe chiamata:
“Kraft durch der Freunde-Wagen” (automobile della forza attraverso la gioia).
Solo nel dopoguerra essa assunse l’attuale nome di Wolfsburg, dal castello
rinascimentale presente nella città.
9
E anche l'Italia ebbe parte attiva in questo
esperimento; nel 1938 un consistente numero di operai edili italiani (circa 2.400
lavoratori) fu inviato da Mussolini in seguito ad un accordo con il Führer per la
realizzazione del progetto. La presenza italiana dunque fu rilevante sin dalle
origini della cittadina. Nonostante l’eccezionale slancio iniziale con cui partì
quest'idea, la Volkswagen non realizzò mai la promessa nazionalsocialista
("un'automobile per ogni tedesco"). Con lo scoppio della guerra, appena un anno
dopo l’avvio dei lavori di costruzione, la città rimase un torso incompleto di
costruzioni
10
e la fabbrica fu presto convertita alla produzione bellica, andando a
9
Pubblicazione della città di Wolfsburg, Institut für Museen- und Stadtgeschichte,
Stadtmuseum Schloss Wolfsburg - Die Geschichte der Region, des Schlosses und der Stadt
Wolfsburg, Wolfsburg 2000, p. 55.
10
K. J. Siegfried, Die Auflösung der Stadt. Urbanität als Aufgabe. Wolfsburg in
Spannungsfeld städtebaulicher Leitbildder, in: R. Ortwin, Erleben, wie eine Stadt entsteht.
Wolfsburg, 1938-1998. Braunschweig, p.95. Ed anche: H. Ulfert, W. Tassin, Faszination
Wolfsburg 1938-2000, Opladen 2000, p. 29.
5
rivestire un importante ruolo nella produzione di veicoli militari per la Wehrmacht.
Nel dopoguerra, nel momento in cui la fabbrica riprese a produrre automobili
civili, si presentò nuovamente una forte necessità di manodopera, che venne
soddisfatta dai profughi dell’Est. Quando però nel 1961 fu innalzato il muro di
Berlino, questo flusso umano subì un improvviso blocco e la fabbrica si trovò in
grave deficit di operai. Si chiamarono di nuovo in soccorso gli italiani. A
Wolfsburg si formò, sempre più consistente, quella che presto fu definita “la più
grande comunità italiana al Nord del Brennero”.
11
Infatti, il numero degli italiani,
rispetto la popolazione locale della piccola cittadina, risultava talmente
consistente, da far divenire la comunità italiana di Wolfsburg la più grande – in
termini relativi - dell’intera Germania. Nel Sud della Germania, dove pure i nostri
connazionali furono numerosi, essi si disperdevano in qualche modo nella
grandezza stessa delle metropoli; a Wolfsburg, invece, la presenza italiana si
manifestava, e si manifesta tutt’oggi, con un carattere assoluto. Come ha dichiarato
Mario Reina, uno degli italiani rimasti ancora oggi in Germania: «Wolfsburg era
la ‘little Italy’ d’Europa».
12
Le ricerche per questo lavoro sono state svolte direttamente nella cittadina della
Volkswagen
13
; la storia dei Gastarbeiter è stata ricostruita sia attraverso fonti di
tipo tradizionale, dunque opere reperibili nelle biblioteche, per offrire un primo
quadro d’insieme della situazione, che attraverso strumenti di ”Oral History” ed
un’analisi iconografica, ossia il ricorso ad interviste e all’analisi di fotografie per
poter entrare nello specifico della situazione. Molti degli emigrati italiani che
ancora oggi vivono nella cittadina della Bassa Sassonia mi hanno gentilmente
messo a disposizione alcune loro fotografie private, ed altri si sono lasciati
intervistare. L’analisi delle immagini ha facilitato la ricostruzione di molti dettagli,
11
Italiener in Wolfsburg, in: „Ausländer in Deutschland (AiD). Informationsdienst zu
aktuellen Fragen der Ausländerarbeit“, 1/1995, p. 4. Questa stessa definizione é stata fornita anche
da diversi intervistati
12
Intervista del 28.11.2002 con Mario Reina. [da (64.47) a (65.12)]
6
ed inoltre ha permesso di studiare stereotipi e cliché associati da sempre
all’identità italiana, e di approfondirne alcuni aspetti e a volte persino confutarne
certe convinzioni scontate.
Ad ogni modo pare comunque opportuno spiegare il modo in cui si è proceduto
nella ricerca, per poter seguirne poi lo sviluppo e le conclusioni. Circa le
testimonze orali, si sono fatte delle scelte: le interviste si sono svolte in due distinti
momenti. Nella prima serie di colloqui si è cercato di ricostruire la storia degli
arrivi e delle prime esperienze, e poi, in un secondo tempo, si è fatta una selezione
delle domande che meglio approfondissero la percezione dei cliché legati
all’immagine degli italiani, e che potessero stimolare riflessioni sulle possibilità,
come pure sulla volontà di integrazione degli italiani. La decisione di usare un
campione ridotto è stata dettata da limiti di tempo. Tuttavia si è cercato di
rappresentare un gruppo il più rappresentativo possibile. Sono stati selezionati
infatti sia personaggi noti nella comunità, che personaggi più anonimi. Le persone
che rivestivano e/o tuttora rivestono ruoli di rilievo nella vita della fabbrica e in
quella della città (sindacalisti, politici, fiduciari di fabbrica, ecc.), ossia quella che
può essere definita l’ “elite degli emigrati“
14
sono quei personaggi sempre in
primo piano e che sempre compaiono nei giornali locali. A queste sono state
sommate le intervistea persone più anonime e meno conosciute nella comunità,
operai comuni. Lo scopo è stato quello di dar voce a tutti, ai protagonisti sempre
in primo piano, ma anche a quelli che rimangono di solito invece in ombra.
13
Permanenza e ricerche in loco sono state possibili anche grazie alla borsa di studio “100
Tesi per l'Europa” offerta dalla Facoltà di Scienze Politiche
14
A. K. Bicher, Das Bild der "Gastarbeiter" am Beispiel Wolfsburg. Eine
historiographische Analyse der Pressefotografie in der Wolfsburger Allgemeinen Zeitung von
1961-1975, (tesi di laurea), Friedrich-Meinecke-Institut per le scienze storiche, tesi in scienze
culturali e storiche, Freie Universität di Berlino, p. 47.
7
La presente tesi è divisa in due volumi, il primo contiene la ricostruzione storica,
mentre il secondo costituisce un’appendice fotografica, a cui sono stati allegati
anche due cd, che riportano integralmente le sedici interviste effettuate. Inoltre
sono stati acclusi due filmati, come ulteriore appendice visiva, che rendono
possibile un confronto tra due rappresentazioni opposte dello stesso fenomeno
migratorio
15
. Il primo filmato è infatti un cortometraggio di propaganda elettorale
del PCI, realizzato nel 1968 sull’emigrazione italiana, dal titolo “Fratelli d’Italia –
Emigrazione ‘68”, conservato nell’Archivio Audiovisivo del Movimento Operaio
di Roma. Esso presenta un’immagine di sfruttamento del proletariato italiano e
pone l'accento sulle tristi condizioni esistenziali degli emigrati. Il secondo, invece,
è un film di promozione pubblicitaria realizzato lo scorso anno per la Volkswagen
dall’emittente tedesco Kanal XXP, Spiegel, dal titolo “Autostadt Wolfsburg”.
Quest’ultimo, al contrario, enfatizza, nei pochi minuti dedicati alla ricostruzione
della storia dei Gastarbeiter italiani, il loro ruolo di co-costruttori della potenza e
della grandezza della grande casa automobilistica, oltre che ovviamente, la loro
felice esistenza negli allora moderni ed accoglienti alloggi di fabbrica.
I risultati e una parte del materiale raccolto per questa tesi di laurea sono stati
presentati già a Wolfsburg (Germania) attraverso la mostra fotografica Hier
Geblieben, presso l'Istituto Italiano di Cultura di Wolfsbrug (2003), premiata dalla
Comunità Europea, nel concorso: “Cento Tesi per l'Europa (2004) e usata per lo
spettacolo teatrale Aufmarsch der Itaker, presentato a Wolfsburg e in diverse altre
città tedesche (2004-2005, sito: http://www.francesca-de-
martin.de/aufmarsch-der-itaker.html).
15
Il volume fotografico, i cd con le interviste e i filmati, purtroppo non sono disponibili
on line,
come già specificato nella nota alle pgg. 6-7.
8
Ricerche storiografiche esistenti sul tema Gastarbeiter
e sull’immigrazione in Germania
In Italia, l'emigrazione verso l'Europa del secondo dopoguerra è stata oggetto di
numerosi studi contemporanei, in particolare negli anni settanta. Autori quali
Paolo Cinanni
16
e Giovanni Blumer
17
hanno prodotto analisi fortemente
ideologizzate e di chiara ispirazione marxista; Emilio Reyneri
18
, ha invece
proposto un'analisi almeno all'apparenza priva di connotati politici e ispirata agli
schemi di interpretazione fortemente economicistici degli studi in materia
migratori nell'Europa di allora. Alla fine degli anni ’80 si trova invece il nome di
Maurizio Monferrini
19
, che fornisce anche lui un’analisi economica delle cause e
degli effetti dell’emigrazione italiana in Europa. Con l'esaurirsi del fenomeno
emigratorio, dopo la fervida stagione di studi degli anni settanta, la riflessione di
carattere politico e socioeconomico sull'emigrazione italiana ha conosciuto una
netta interruzione. Nonostante la vasta produzione storiografica sull'emigrazione
italiana verso le Americhe tra Otto e Novecento, ad oggi non è stata avviata dagli
studiosi italiani una significativa riflessione storica sul fenomeno emigratorio
italiano verso l'Europa del secondo dopoguerra.
20
Fa eccezione un importante
studio di Federico Romero
21
, che, nell'ambito del processo di integrazione europea,
ha messo bene in luce importanti aspetti relativi, da un lato, alla politica italiana di
sostegno all'emigrazione, dall'altro, ai flussi emigratori italiani nei paesi della
comunità, e della Germania in particolare.
16
P. Cinanni, Emigrazione e Imperialismo, Roma, 1975 (prima edizione 1968).
17
G. Blumer, L’emigrazione italiana in Europa, Milano 1970.
18
E. Reyneri, La catena migratoria. Il ruolo dell’emigrazione nel mercato del lavoro di
arrivo e di esodo, Bologna, 1979.
19
M. Monferrini, L’emigrazione italiana in Svizzera e Germania nel 1960-1975, Roma
1987.
20
Si possono trovare alcuni brevi interventi di caratere storico circa l’emigrazione italiana
in Germania sulla rivista Studi emigrazione, ad esempio nei numeri 31, 35/36, 38/39, 79.
21
F. Romero, Emigrazione e integrazione europea 1945-1973, Roma 1991 in: P.
Bevilacqua, A.De Clementi, E. Franzina, Storia dell’Emigrazione Italiana, Roma 2001.
9
Molto più ricco è il panorama degli istituti e dei ricercatori tedeschi che si sono
interessati di quest’ultima ondata migratoria nel loro paese
22
. Tra questi ultimi si
possono citare i nomi di: Klaus J. Bade
23
, Uhlrich Herbert
24
, Axel Schulte
25
,
Yvonne Rieker
26
e Knuta Dohse
27
. Bade può essere indicato come uno dei più
competenti studiosi di emigrazione in Germania, come pure a livello
internazionale: professore di storia contemporanea e presidente dell’IMIS, Institut
für Migrationsforschung und Interkulturelle Studien (Istituto per la Ricerca sulla
Migrazione e Studi Interculturali) dell’università di Osnabrück, come pure
membro del Rat fur Migration u. V. (Consiglio di Migrazione), istituto composto
da accademici in differenti materie che forniscono consulenza politica, stilano
rapporti economici, sociali e culturali e portano avanti ricerche sul tema
migrazione ed integrazione. Riguardo i Gastarbeiter degli anni ’60 e ’70, Bade ha
concentrato la sua attenzione sulla discriminazione politica e sociale in cui questi
“ospiti” si siano trovati per oltre quarant’anni. I Gastarbeiter rimasti in Germania
sono infatti rimasti per decenni nello status di stranieri, e i loro figli in quello di
“stranieri nativi”. Bade ha offerto un’interessante analisi politica dell’integrazione,
senza tralasciare la ricostruzione storica.
Uhlrich Herbert, invece, ha analizzato le varie fasi dell’emigrazione in Germania,
partendo dai Saisonarbeiter, ossia quella migrazione stagionale, in maggioranza
22
Nella bibliografia finale si può trovare un elenco dei maggiori attuali ricercatori delle
varie università ed istituti tedeschi.
23
K.J.Bade ha scritto innumerevoli pubblicazioni e articoli. Quelli da me consultati sono:
K.J. Bade, “Stranieri nativi” e “tedeschi stranieri” la nuova situazione nella Repubblica Federale
Tedesca. Sviluppi, problemi, prospettive. In: M. Degl’Innocenti, Esilio nella storia del movimento
operaio e l’emigrazione economica, Firenze 1992. K.J.Bade, , Migration und Integration in
Deutschland seit dem Zweite Weltkrieg. Probleme, Erfolge, Perspektiven. (Articolo pubblicato in
Internet: www.hlpd.de/04-pub-pdf/Badetext.pdf)
24
U. Herbert, Geschichte der Ausländerpolitik in Deutschland – Saisonarbeiter,
Zwangsarbeiter, Gastarbeiter, Flüchtlinge, Monaco 2001.
25
A. Schulte, Zwischen Diskriminierung und Demokratisierung, Aufsätze zu Politiken der
Migration, integration und Multikulturalität in Westeuropa, Francoforte sul Meno 2000.
26
Y. Rieker, "Ein Stück Heimat findet man ja immer". Die italienische Einwanderung in die
Bundesrepublik, Essen 2003. Un suo interessante articolo precedente è Ostagenten oder
Westeuropäer? Die Politik der Bundesregierung und das Bild der italienischen Gastarbeiter 1955 -
1970, in "Archiv für Sozialgeschichte" nr. 40, 2000, pp. 231-258.
10
contadina, di fine ottocento, passando poi a quella prebellica e bellica, degli
Zwangsarbeiter (lavoratori forzati), arrivando ai Gastarbeiter e continuando
ancora fino ad affrontare problemi di emigrazioni più recenti in Germania (come
ad esempio la situazione degli Asylbewerber, ossia delle persone che richiedono
l’asilo politico). In particolare Herbert ha analizzato la politica migratoria tedesca
e la sua evoluzione nel tempo rispetto gli stranieri; i suoi lavori, quindi, oltre che
un valore storico, offrono anche interessanti analisi politiche.
Axel Schulte potrebbe essere indicato anche come un critico politico, essendosi
occupato anche lui delle discriminazioni subite dai Gastarbeiter, e oltre ciò ha
sviluppato un’interessante analisi dei vari tipi di integrazione possibili, e di quelli
storicamente realizzatisi.
Ivonne Rieker ha scritto, invece, una ricerca composta da diversi generi di analisi.
Da un lato illustra aspetti di storia politica, basandosi sulle fonti ufficiali tedesche,
dall'altro, sulla base di alcune interviste, si occupa di storia orale, scivolando verso
una matrice sociologica. Va detto che la Rieker non considera in modo efficace il
punto di vista delle autorità italiane. Manca inoltre un confronto con la storiografia
italiana, che, seppure questa sia assai carente, sarebbe stato utile.
Ed ultima della nostra lista: Knuta Dohse; anche lei ha affrontato un’analisi
storico-politica dell’emigrazione in Germania, durante le diverse fasi storiche
dell’emigrazione, dunque partendo dai Saisonarbeiter di fine ottocento e arrivando
fino ai più recenti immigrati.
Nel caso da noi preso in esame, dei Gastarbeiter di Wolfsburg, può invece essere
un solo nome. Si tratta di Anne von Oswald, pioniera e per il momento anche
unica ricercatrice che si sia interessata alla comunità italiana di Wolfsburg. La von
Oswald è collaboratrice dell’istituto Netxwerk Migration Europa di Berlino e ha
analizzato, in particolare, il ruolo economico dei Gastarbeiter italiani
nell’economia della Volkswagen e le loro condizioni di vita negli alloggi della
27
K. Dohse, Ausländerarbeit und bürgerliche Staat, Königstein 1981.
11
fabbrica (definiti come “Lager di prigionia”). La von Oswald sviluppa una serie di
analisi sulla fluttuazione italiana e sul ruolo dei Gastarbeiter nel sistema fordista
della Volkswagen, ma non trascura neppure di ricostruire storicamente come gli
italiani furono assunti dalla casa automobilistica tedesca, come pure offre
interessanti critiche alle condizioni di vita dei lavoratori della casa del Maggiolino.
Tutte le pubblicazioni della ricercatrice, esistenti fino alla data di pubblicazione
della presente tesi, sono state prese in esame ed elencate nella bibliografia. Inoltre,
a Wolfsburg, esistono alcune tesi di laurea e di diploma di studenti locali, di cui
solo un paio scritte da studenti italiani.
28
28
M. C. Agosto (tesi di laurea)La dimensione linguistica in diverse generazioni di migranti.
Uno studio empirico a Wolfsburg, corso in lingue e letterature straniere moderne, Università
della Calabria, anno accademico 1997-1998; F. De Stepanovich (tesi di diploma) Fenomeno
associativo e Integrazione culturale di un gruppo autoctono emigrato in una società straniera,
Scuola superiore di Servizio Sociale E.I.S.S. – D.C.V. - Freiburg, anno accademico 1978; M.
Heisig e M. Mörlin (tesi di diploma) Der Einfluss der sozialen Lage auf die Schulsituation
ausländischer Kinder. Italiener in Wolfsburg, Fachrichtung Sozialpädagogik, Wolfsburg,
1978, L. Moreschi, Die integrationspolitik der Stadt Wolfsburg – zwischen Sonderfall und
Integrationspolitischem Paradigma, facoltà di Scienze Politiche della Technische Universität
di Braunschweig, anno accademico 2001-2002, W. Elberskirch ed H. Rademacher, Die
ausländischen Arbeitskräfte. Vermittlung und Probleme. Aufgezeigt am Beispiel der
Industriegemeinde Wolfsburg., Wolfsburg 1963.
12
La fotografia come fonte della Storia
Il tema centrale di questo lavoro è l’immagine dei Gastarbeiter italiani nella
Germania degli anni ’60, un argomento che in questa sede si cercherà di affrontare
con strumenti differenti da quelli comunemente utilizzati nella ricerca classica. Il
nostro scopo é quello di descrivere un’immagine, e questo può essere fatto sia
attraverso delle parole e dei discorsi, oppure attraverso delle immagini vere e
proprie, delle fotografie. A nostro avviso, piuttosto che fare una scelta tra le due
strade, considerandole come alternative, pare più utile combinarle insieme, come
due possibilità complementari, due facce integrate di una stessa realtà, dove l’una
compensa e arricchisce l’altra. Da una parte, si avrà la possibilità di vedere delle
concrete immagini, delle foto, e dall’altra si potranno leggere i racconti dei
protagonisti della storia. Per far ciò, si é combinata l’analisi delle fotografie private
dell’epoca, fornite dai Gastarbeiter di allora che ancora vivono in Germania, a
diverse interviste fatte loro, e basando entrambe, per una più corretta lettura, su
informazioni che si sono in precedenza ricavate dalla bibliografia esistente
sull’argomento. Le interviste non sono state usate come ‘storia orale’ pura, cioè
che da sole potessero rappresentare gli avvenimenti che si intendono raccontare.
Piuttosto esse sono servite come supporto all’analisi iconografica, come si
spiegherà meglio più avanti, riferendoci al ruolo integrativo delle parole rispetto le
immagini.
Si é consapevoli che basandoci sia le fonti fotografiche così come quelle orali
direttamente dai protagonisti, questa ricerca produrrà probabilmente risultati di
parte, poiché riporterà la memoria della comunità italiana testimoniata da essa
stessa, senza confrontare questa visione, ad esempio, con il modo in cui questa
stessa storia la videro dall’esterno gli altri (i tedeschi ad esempio, o i dirigenti della
fabbrica
29
). Nonostante ciò, siamo convinti che a volte valga la pena di lasciare
29
Inizialmente questo lavoro era stato concepito come un confronto tra la versione privata,
degli italiani, e quella ufficiale, della Volkswagen. Purtroppo tale progetto si é dovuto accantonare
13
parlare proprio coloro che hanno vissuto sulla loro pelle l’esperienza di quel che si
racconta. Inoltre, appunto perché a parlare saranno delle fotografie quotidiane,
queste immagini permetteranno di far sentire le voci di chi fino ad ora non aveva
ancora potuto parlare: saranno gli emigrati, gli operai, le persone comuni a
raccontare attraverso le loro immagini private la storia. Scrive Gabriele D’Autilia:
« [Una] nuova storia [fatta attraverso le immagini] ha portato in primo piano, attraverso
nuove metodologie e lo studio di nuove fonti, tutta una serie di elementi che erano rimasti
sullo sfondo: innanzitutto gli esclusi di sempre, contadini, operai, artigiani... [li troviamo]
sullo sfondo di foto ufficiali e sulla superficie di immagini dimenticate».
30
È nostra opinione che anche questa storia sia una parte importante della Storia,
quella con la S maiuscola, perché attesta una realtà, vista nel dettaglio. Il caso
Wolfsburg é parte di un fenomeno enorme e significativo, quale fu appunto la
grande emigrazione italiana del dopoguerra. Inoltre questa storia potrà essere
ricostruita da un punto di osservazione particolare: attraverso gli occhi e le
macchine fotografiche dei protagonisti, e ascoltata attraverso i loro racconti.
Veniamo ora nello specifico al metodo usato in questo lavoro: l’analisi fotografica.
Essendo quest’ultima un mezzo relativamente nuovo per la ricerca storiografia, si
crede opportuno spendere qualche parola per illustrare le ragioni di questa scelta,
ossia perché è si pensa che la fotografia possa essere considerata un documento
storico a tutti gli effetti e in che modo si intende adoperare questo strumento.
L’analisi fotografica come fonte di ricerca storica e sociale è ancora poco
per una totale indisponibilità da parte della fabbrica a una qualsiasi collaborazione in proposito. Le
motivazioni di tale “impossibilità” a fornirci informazioni o anche solo a farci consultare il loro
archivio é stata motivata più volte (nel corso di un anno) con il fatto che l’Unternehmensarchiv
(l’archivio di fabbrica) é ancora relativamente giovane (seppure i fatti ai quali noi siamo interessati
risalgano a quaranta anni fa) ed inoltre, é stato affermato che non esiste una documentazione
specifica riguardo i Gastarbeiter italiani, dato che la VW impiega diversi stranieri (seppure,
aggiungiamo ancora, gli italiani siano stati l’esclusivo gruppo straniero impiegato dalla
Volkswagen per un decennio). Vista l’impossibilità di analizzare il punto di vista ufficiale, quello
della fabbrica, si è dovuto necessariamente optare per una visione del tema da un solo punto di
vista, quello dei più disponibili italiani della comunità locale.
30
Gabriele D’autilia, L’indizio e la prova, Milano 2001, p. XIII.
14
utilizzata. Diversi storici guardano a questo mezzo e al suo uso nella ricerca
scientifica con scetticismo. Le immagini, troppo presenti e troppo numerose nella
vita di tutti i giorni, perdono di valore agli occhi di questi ricercatori. Essi
preferiscono servirsi delle fonti storiche classiche, che sono loro più famigliari e
rassicuranti. La storia, difatti, si è ricostruita fin’ora utilizzando le parole, come
spiega Luigi Goglia:
«...l’invadenza delle immagini di ogni tipo nella nostra vita quotidiana ha prodotto quasi
un effetto di saturazione e di abitudine che paradossalmente, ma credo che sia così, non ne
ha stimolato l’uso storiografico.[...] ...l’ostilità della storiografia, che fino ad ora si è
nutrita di parole per lo più scritte o stampate su carta, anche su pietra (le epigrafi) e ora
anche di storia orale (ma sempre di parole si tratta) è comprensibile. Dalle parole
all’immagine il salto è grande e non è un problema di pigrizia, ma di acquisizione
culturale che non é certamente questione di un giorno».
31
D’alto canto, se ci si riflette bene, raccontare la storia attraverso delle
rappresentazioni visive non è un metodo davvero nuovo come sembrerebbe. Le
immagini, in realtà, rappresentano il più antico strumento di comunicazione per
l’uomo. Scrive ancora Luigi Goglia: “fin dall’antichità ci si esprimeva attraverso le
immagini (si pensi ai primi graffiti o agli stessi geroglifici egizi); la scrittura ha poi
sostituito queste immagini.”
32
Si potrebbe dire che la fotografia possa essere oggi il sostituto, tecnologicamente
più avanzato, di quelle stesse immagini con le quali già millenni fa si esprimevano
gli uomini. La fotografia é un mezzo di comunicazione, rivela significati, lascia
traccia di epoche e di eventi, e dovrebbe essere tenuta in considerazione quando si
parla di storia. Questa nuova fonte, secondo diversi storici che hanno fatto di
questo mezzo uno strumento per le loro ricerche, può essere considerata a tutti gli
effetti una “prova storica”, un documento. Essa ha un carattere di veridicità unico,
appunto perché solitamente non è necessario cercare conferme per ciò che si vede
31
Luigi Goglia, La fotografia e la storia. Può essere la fotografia un documento? In: La
ricerca storica: teorie, tecniche, problemi. Iniziative didattiche e culturali degli studenti. Università
degli Studi di Roma “La Sapienza”, Roma 1982, p.46.
32
Gabriele D’Autilia, cit., p.20.
15
nell’immagine (salvo si tratti di foto di propaganda o di fotomontaggi, ma noi
parliamo di foto quotidiane, di foto private).
«La fotografia attesta che la persona o la cosa c’è stata, senza mediazione. [...] Il
linguaggio non può dare questo tipo di certezza, è fittizio, per potersi autentificare ha
bisogno della logica o del giuramento. La fotografia è invece un certificato di presenza
(una prova), un reale che non si può toccare. Si tratta di una rivoluzione culturale, che
coinvolge la nostra idea di storia.»
33
Dunque una foto è altrettanto vera quanto lo é un documento scritto, se non
addirittura più concreta di esso. Non si possono avere dubbi che quello che
compare nell’immagine non sia stato un giorno realtà, dunque é una
testimonianza veritiera, un documento a tutti gli effetti. Si dirà di più: se la
fotografia può essere considerato un documento, si potrebbe ancora aggiungere,
accogliendo la definizione di Roland Barthes
34
, che la fotografia può addirittura
diventare un “monumento” storico. La differenza, secondo questo autore, tra
“monumento” e “documento” è che il primo é l’eredità del passato nel complesso,
così come ci é stata lasciata, mentre il documento é la scelta dello storico del
particolare che lo interessa. Si intende dire con ciò che il monumento é stato
creato così come è direttamente dagli uomini dell’epoca da cui proviene, e
rappresenta un aspetto puro, direttamente arrivatoci da essa. Invece il documento
é una scelta dello storico. La foto ferma la realtà nel momento in cui l’autore la
vive e poi essa giunge a noi, così com’é o come l’autore ha deciso di mostrarcela.
Dunque, se la fotografia diventa un monumento, allora, di questo monumento é
necessario conoscere i retroscena, le caratteristiche della civiltà che lo ha
prodotto:
«Leggere un documento come un monumento significa sottoporlo a una critica interna,
per capire le condizioni della sua produzione storica, e quindi la sua inconscia
intenzionalità. Ecco dunque un suggerimento fondamentale per l’analisi del documento
33
Gabriele D’Autilia,cit. , p. 27.
34
Roland Barthes, La camera chiara, Torino 1980, p. 94.
16
fotografico: studiare il produttore, la mentalità che l’ha generato, la sua intenzionalità
anche inconscia; la fotografia nasce come monumento, vuole costruire un edificio, una
memoria familiare o collettiva; e, allo stesso tempo, come un documento nella sua
accezione originaria, specchio della realtà, prova».
35
Torneremo più avanti sull’argomento, come già ripetuto, quando parleremo
dell’integrazione del linguaggio alle immagini, sul come poter comprendere la
società che ha prodotto questi monumenti e in questo modo come storicizzare le
testimonianze visive.
Appurato perché la fotografia può essere considerata una fonte per la storia,
diventa necessario ora comprendere come questa fonte visiva possa essere
utilizzata, e dunque come si impiegherà questo nuovo strumento.
La fotografia è un linguaggio al pari di una qualsiasi lingua con cui si comunica,
ma ha regole proprie; inoltre, essa offre messaggi aggiuntivi a quelli che le parole
da sole non potrebbero fornire. Chi scrive si è proposto di utilizzare questo nuovo
mezzo, quindi ha cercato di avvicinarsi il più possibile a un modo nuovo di
pensare e di analizzare, ha cercato di tenere sempre presenti le regole proprie del
linguaggio fotografico e nel contempo di non tralasciare quelle della storia.
Naturalmente si é dovuto decidere quali regole dell’analisi fotografica utilizzare:
conducendo una ricerca storica, una foto, un’immagine, e in particolare il tipo di
fotografie utilizzate per questo lavoro, non si sono potute analizzare da un punto
di vista puramente semiotico, oppure essere criticate come si farebbe con delle
fotografie artistiche d’autore. La critica d’arte, la semiotica, la sociologia,
l’antropologia forniscono chiavi di lettura per la fotografia; tuttavia nel nostro
caso non si tratta né di foto ufficiali, né tanto meno di foto di professionisti
36
,
bensì di foto fornite da privati, dagli emigrati, e di questo fatto si deve tener
35
Gabriele D’Autilia, cit. , p.10.
36
solo due, tra le decine di foto analizzate, sono del fotografo ufficiale della Volkswagen,
Willi Luther (forniteci dall’Institut für Museen- und Stadtgeschichte di Wolfsburg) le foto nn. 17 e
75 alle pp. 50 e 79 del secondo volume. Le altre sono tutte foto scattate da italiani emigrati, anche
se alcuni di loro si ritenevano fotografi amatori e vendevano anche le loro opere agli altri italiani:
Attilio Bernacchi e Nicola Trabucco (cft. schede biografiche alle pp.269 e seguenti).
17
conto. Non vanno ricercati dei caratteri puramente estetici o artistici in queste
immagini, seppur in esse si possa scorgere più propriamente una bellezza di tipo
surrealista. Nel nostro caso specifico, quel che più ci é interessato è stato di
mettere in evidenza il fatto che un’immagine privata sia, sì, l’espressione di una
soggettività, ma possa anche diventare l’espressione di un aspetto più generale, di
una cultura e di un’epoca. È necessario compendere il retroscena che
un’immagine rivela in modo indiretto, perché, come nota D’Autilia: “la storia ci
invita a inserire l’immagine, un suo uso o una sua lettura specifica, in un contesto, ci
invita a storicizzarla”
37
. Solo comprendendo la cultura che c’é alle spalle di queste
immagini e che attraverso esse si mostra, sarà possibile ricostruire l’immagine del
Gastarbeiter in Germania.
Dunque chiarito qual é il nostro punto di osservazione, possiamo passare a
spiegare il modo in cui vogliamo utilizzare le foto. Per poterci servire di un mezzo
aperto a illimitate interpretazioni soggettive, qual é appunto la fotografia, é stato
necessario scegliere un metodo preciso per l’analisi. Infatti nota ancora D’Autilia:
«Se scegliere alcune strade di lettura può sembrare un impoverimento di fronte alla
molteplicità di stimoli offerti dall’immagine, [questa scelta] può rivelarsi l’unica
alternativa sia alla sua banalizzazione sia alla ‘vertigine’ che ci provoca la sua naturale
ambiguità».
38
Analizzare una foto é un procedimento molto rischioso e per molti versi anche
riduttivo. Di una foto si possono avere infinite letture, a cominciare da quelle che
vi vede per primo il suo autore nel momento in cui la foto è scattata, o il
significato che egli gli può attribuire successivamente, oppure quella che gli
attribuisce il soggetto ritratto, o ancora le migliaia di impressioni che ne possono
ricavare i successivi osservatori. D’altro canto, però, se si vogliono ricavare delle
conclusioni, si dovrà pur fare una scelta, optare per un punto di osservazione,
nella consapevolezza che questo sarà relativo, e pur tuttavia portare avanti una
37
Gabriele D’Autilia, cit., p.XII.
18
determinata chiave di lettura. Il rischio più grande é quello di generalizzare, o
utilizzare per scopi differenti delle foto, alle quali gli autori attribuiscono
significati affettivi profondi, e forse diversi da quelli che può leggervi uno storico;
il rischio di trasformare queste immagini in icone, immagini che originariamente
avevano altri significati, personali.
Di questa involontaria, seppur necessaria, riduzione di significato mi scuso con
tutte le persone che hanno fornito le loro foto per questo lavoro. Essa rimane
tuttavia una necessità: lo storico pone semplicemente domande ad una sua fonte e
ricordando sempre che essa è nata con scopi totalmente diversi da quelli per i
quali se ne serve invece lui, in quanto ricercatore. Con ciò s’intende dire che
queste foto sono quasi tutte state fatte per avere dei ricordi personali, oppure per
mostrare in Italia come si viveva in Germania, o altre ancora sono cariche di
significati affettivi per i proprietari. Per questo si é cercato, per quanto possibile,
di ascoltare anche i commenti degli autori delle foto e di tenerli sempre a mente,
in modo da ricostruire il più integralmente possibile quel frammento di storia che
queste immagini raccontano. Nello stesso tempo, però come storici abbiamo
cercato anche di cogliere in queste immagini quelli che si mostrano come caratteri
propri di un popolo, quello italiano. Il nostro scopo sarà di raccontare e
descrivere, attraverso l’analisi di queste foto, la vita dei Gastarbeiter e mettere in
evidenza le peculiarità della loro immagine. Le caratteristiche nazionali, che
contribuiscono a creare la suddetta immagine, possono rivelarsi in un
atteggiamento, in un’azione, in un modo di muoversi o di vestirsi che si mostra
nella foto. La foto privata può così quasi diventare, nel suo piccolo, uno specchio
del carattere di un intero popolo e di un’epoca.
38
Gabriele D’Autilia, cit., p.154.
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