Introduzione A vent'anni dalla morte di Raymond Carver (1938-1988) sembrano essersi finalmente
dissolte, almeno in parte, le nebbie che per quasi tre decenni ne hanno offuscato la produzione
letteraria, sommersa da un mare di pregiudizi, ora molto negativi ora acriticamente esaltatori, che
hanno contribuito non poco a falsarne l'interpretazione tanto in ambiente critico quanto tra gli
scrittori e il pubblico. L'enorme quantità di etichette che sono state accostate alla narrativa di
Carver, così come riportate da Kirk Nesset, rende una chiara idea della confusione che ha spesso
circondato tale narrativa negli ambienti della critica letteraria: “neorealism”, “hyperealism”,
“superealism”, existential realism”, “photorealism”, “catatonic realism”, “dirty realism”,
“minimalism”, “K-Mart minimalism”, “Diet Pepsi minimalism”. La formula coniata
appositamente da John Barth per definire tale opera, poi, appare senza dubbio come la
quintessenza della confusione consapevole, cioè del critico conscio dell'estrema difficoltà di
incasellare in una sola parola le complessità di uno scrittore amato quanto odiato, criticato quanto
imitato: “Post-Vietnam, post-literary, post-modernist, blue-collar neo-early-Hemingwayism” 1
.
Una definizione che, se non altro, la dice lunga sulle difficoltà che la critica ha incontrato nel
parlare di Carver e dei suoi racconti; e che conserva quantomeno una certa ironia, piuttosto rara
quando si tratta di discettare di scrittori e di letteratura.
Al di là delle definizioni, delle formule e delle etichette, però, il problema rimane intatto. È
corretto dire che Raymond Carver fu il padre del minimalismo letterario così come emerse e si
affermò negli Stati Uniti negli anni Settanta-Ottanta del Novecento? Oppure sarebbe più esatto il
ricorso ad un'altra categoria letteraria, quella del realismo? Cosa s'intende esattamente in
letteratura quando si parla di minimalismo? Si sta ancora parlando di letteratura postmoderna
oppure no? Se sì quali sono i punti di contatto tra il postmodernismo classico (così come
l'abbiamo conosciuto in Thomas Pynchon, William Gass, John Cheever, Kurt Vonnegut e molti
altri) e il nuovo postmodernismo di cui il minimalismo è solo una delle espressioni? In che
maniera l'esperienza di Carver e dei minimalisti si innesta alla “grande narrazione” della letteratura
nordamericana, e perché proprio negli anni Ottanta e non prima, o dopo, è stato possibile
l'affermarsi di un'estetica minimalista?
1
Nesset, K. (1995), The Stories of Raymond Carver. A Critical Study, Ohio University Press, Athens 1995 , p. 30
1
Questo lavoro intende fornire le risposte a simili e ad altre domande partendo da un
assunto che cercherà di dimostrare: il teorema, cioè, per cui il minimalismo letterario americano
vada interpretato in relazione a precisi cambiamenti socio-politici che hanno attraversato le
società occidentali nel corso del ventennio 1970-1990, pena l'inesatta comprensione del
fenomeno nel suo insieme e dell'opera di Carver in particolare. La tesi da dimostrare, insomma,
sarà quella per cui il minimalismo letterario necessiti di essere letto come una precisa risposta
artistica a precisi mutamenti del clima politico e sociale intercorsi in Occidente tra il 1968 (l'anno
della rivolta studentesca) e il 1989 (l'anno del crollo effettivo dell'Unione Sovietica); al di fuori
della cornice storica, ci sembra, qualunque discorso sulle metamorfosi della narrativa
postmoderna nordamericana apparirebbe sterile, o monco, o ancora impreciso e superficiale.
Per raggiungere tale scopo questo lavoro è stato suddiviso in tre parti.
Nella prima parte, di stampo marcatamente teorico, verranno presi in esame i macro-fattori
storici, politici e culturali che sono intercorsi a modificare le società occidentali nel corso del
ventennio 1968-1989. Nel primo capitolo, interamente dedicato ai fattori storici e politici, verrà
integrata alla narrazione storica l'analisi della società contemporanea operata da due influenti
sociologi come Zygmunt Bauman (con il concetto di “modernità liquida”) e Robert Putnam
(perdita del “capitale sociale”). Si passerà in seguito ad analizzare lo stato dell'espressione artistica
nel secondo Novecento e si giungerà infine ad un'ampia panoramica sul concetto di minimalismo,
interpretato secondo il concetto-guida di “post-letteratura” così come codificato da Sloan De
Villo.
La seconda parte sarà invece interamente dedicata all'opera narrativa di Raymond Carver.
Dopo una sommaria presentazione bio-bibliografica si vedranno nello specifico alcuni importanti
concetti che aiutino a chiarire il ruolo dell'opera carveriana all'interno della storia della letteratura
nordamericana, come quello di “Carver development” espresso da Günter Leypoldt e da William
Stull, che di Carver fu anche editore, oltre che amico. Si giungerà così al corpo centrale di questo
lavoro, con l'analisi della seconda raccolta di racconti di Carver, What We Talk About When Whe
Talk About Love , del 1981, che costituisce per molti versi la summa del minimalismo americano; nel
corso di questa analisi, operata in ampia parte sui testi, si cercherà di rispondere alla domanda
essenziale riguardante i rapporti tra Carver e il minimalismo, cercando di fornire
un'interpretazione più complessa di quelle fornite da certa critica letteraria, che laddove non è
riuscita a riscontrare una chiara paternità (Carver come “padre” del minimalismo) ha preferito
optare per una totale distanza tra l'autore e il genere che dovrebbe aver inventato (Carver come
“neo-realista”). La seconda parte si concluderà quindi con un'analisi di quelli che ho definito
“fenomeni vaghi” della scrittura carveriana, ovvero quei fattori non prettamente letterari che
2
concernono la sensibilità dello scrittore nei suoi rapporti con il mondo e la società che si è
trovato ad abitare.
Nella terza ed ultima parte, infine, si cercherà di coniugare la teoria del discorso storico-
politico con la prassi dell'analisi testuale dei racconti di Carver. Per fare questo verranno osservati
nello specifico gli aspetti prettamente “politici” degli scrittori minimalisti (oltre a Carver verranno
prese in esame anche le esperienze di Richard Ford, Mary Robison, David Leavitt e Chuck
Palanhiuk); nel settimo capitolo si tenterà un'analisi degli aspetti contenutistici di natura politica
comuni a tutto il movimento minimalista, mentre nell'ottavo si ritornerà a Carver per rileggere i
racconti già analizzati in precedenza alla luce di un nuovo concetto, quello di “desiderio mediato”
coniato dall'antropologo francese René Girard. Il nono capitolo, l'ultimo di questo lavoro, sarà
invece dedicato all'utilizzo politico della lingua, dell'espressione artistica e della forma narrativa
all'interno del movimento minimalista, con specifici richiami alla situazione sociale, politica e
culturale contemporanea.
3
Parte Prima 4
Capitolo 1
L'America degli anni Ottanta: nascita della modernità liquida 1. La svolta del 1973
Tra la fine degli anni Sessanta e l’inizio degli anni Settanta il blocco occidentale (Stati Uniti,
Europa dell’Ovest, Giappone: ciò che allora veniva detto “primo mondo”) entra in una fase di
profondi cambiamenti, modificazioni sostanziali tanto a livello socio-economico che politico e
culturale destinate, negli anni, a segnarne profondamente il destino. Nel periodo che va dal 1968
al 1974, insomma, l’Occidente cambia: vengono poste le basi di un mutamento radicale che si
trascinerà per più di trent’anni, un mutamento che, forse, ancora oggi non può dirsi totalmente
compiuto, definitivamente stabilizzato.
Molti eventi, in quella manciata d’anni, intervengono a realizzare il cambiamento. La
rivoluzione studentesca scoppiata all’Università di Berkeley, California, nel 1964, e destinata a
dilagare in tutto il resto dell’Occidente (e finanche nelle periferie occidentali dell’impero
sovietico) quattro anni dopo, è indubbiamente un primo importante fattore di cambiamento
culturale, il primo segno concreto di una società civile in fermento, insofferente di fronte ai
vecchi modelli, all’antica mitologia post-bellica del “sogno americano” che aveva sostenuto per
più di vent’anni l’incredibile sviluppo economico e industriale della parte di mondo guidata (e
controllata) dagli Stati Uniti. Trascorrono solo tre anni e succede qualcos’altro: il 1971 segna la
fine della convertibilità del dollaro, una misura economica di stampo tipicamente protezionista
che, se da un lato riduce il controllo effettivo della superpotenza occidentale nella sua zona
d’influenza, dall’altro riaccende antichi spettri di un isolazionismo americano di fronte ad
economie, come quella europea, che da Wall Street dipendono in maniera pressoché totale.
Gli eventi più significativi per il nostro discorso, però, avvengono nell’arco del biennio
1973-74. La crisi petrolifera del 1973, diretta conseguenza della Guerra del Kippur, ha almeno
due importantissime ripercussioni in Occidente, una di stampo economico e una di natura
geopolitica. L’incredibile impennata del prezzo del petrolio, il cui costo al barile quadruplica nel
corso di dodici mesi, e l’emergere sulla scena internazionale di un nuovo soggetto politico,
l’OPEC (organizzazione dei Paesi produttori di petrolio) capace di influenzare con le proprie
scelte anti-israeliane (e di conseguenza anche anti-americane) la vita economica e politica di tutto
l’Occidente. La crisi petrolifera, poi, si compie nel corso di un anno particolarmente difficile per
gli Stati Uniti, che si è aperto con il ritiro delle truppe americane dal Vietnam (15 gennaio) e
dunque con la prima vera sconfitta della politica estera statunitense. E precede di poco quel 1974
5
che, con lo scandalo Watergate, segna uno dei momenti di maggiore imbarazzo della politica
interna di Washington.
I sei anni che trascorrono tra il 1968 e il 1974, profondamente segnati dagli eventi accennati
sopra, vedono inoltre l’emergere di inediti fattori destabilizzanti per l’assetto politico, economico
e socio-culturale del cosiddetto “primo mondo”, fattori che potrebbero essere riassunti in quattro
punti principali: 1) moltiplicazione degli stati-nazione, causata dall’indebolirsi del controllo delle
superpotenze sulle proprie aree di influenza; 2) venire alla ribalta di nuovi soggetti politici tanto a
livello esterno (per esempio la già citata OPEC) che interno (studenti, minoranze di colore,
movimenti femministi); 3) delocalizzazione, deindustrializzazione e informatizzazione
dell’economia (su questo punto si tornerà in seguito); 4) inizio della crisi del mondo Sovietico,
che porterà, nel giro di quindici anni, alla dissoluzione totale dell’URSS e al predominio mondiale
incontrastato degli Stati Uniti.
I mutamenti più radicali, comunque, avvengono tutti sul piano delle trasformazioni
economiche. L’internazionalizzazione dell’economia, strettamente connessa all’emergere e
all’affermarsi delle imprese multinazionali, va di pari passo all’affermarsi delle tre novità più
importanti di questo periodo di tempo, novità che segnano ancora oggi fortemente l’assetto
economico dell’Occidente: la crescente deindustrializzazione e terziarizzazione delle economie
occidentali, strettamente legata alla nuova ondata di industrializzazione di Asia e America Latina;
la delocalizzazione della produzione che ne deriva; e la nascita di tecnologie informatiche (il
primo personal computer viene presentato al pubblico nel 1970) che permettono un controllo
dell’industria da qualsiasi parte del mondo.
La Guerra del Kippur e la crisi petrolifera del 1973, poi, segnano un importante punto di
rottura nell’economia dei Paesi occidentali. L’inflazione seguita all’aumento del prezzo del
greggio, aggravata dal protezionismo statunitense del dopo-71, si associa ad un brusco
rallentamento (in effetti una vera e propria stagnazione) delle economie del primo mondo; una
“stagflazione” (stagnazione più inflazione) com’è stata definita, che avrà pesantissime
ripercussioni nel campo dell’occupazione, soprattutto sul territorio americano. A questo riguardo,
di grande importanza per il nostro discorso, Tommaso Detti e Giovanni Gozzini fanno notare
che:
Epicentro della crisi furono gli Stati Uniti, già vulnerati al vertice del potere politico dalla crisi del
Watergate. Nel 1974-75 la loro produzione industriale si ridusse di oltre il 10% e la loro quota del
prodotto lordo mondiale scese dal 23,9% del 1960 al 20,8% del 1980. Tra il 1969 e il 1976 il paese
perse quasi 9 milioni di posti di lavoro (al netto di quelli nuovi creati nello stesso periodo) soprattutto
6
per la chiusura di molti impianti industriali: si cominciò infatti a parlare di “deindustrializzazione”
dell’America 2
.
Quel che è peggio è che nel corso di tutti gli anni Settanta, principalmente ma non solo
negli Stati Uniti, la crisi non venne riconosciuta; la classe politica e quella economica optarono
per un costante e rigido rifiuto dell’idea stessa di recessione, un rifiuto che ebbe come unico
effetto il radicalizzarsi e l’aggravarsi della crisi stessa. Fa notare a questo riguardo Eric Hobsbawm
che:
La storia dei primi vent’anni dopo il 1973 è quella di un mondo che ha perso i suoi punti di
riferimento e che è scivolato nell’instabilità e nella crisi. Solo negli anni ’80, però, divenne chiaro
quanto irrimediabilmente si fossero sgretolate le fondamenta dell’Età dell’oro (il periodo che va dal
1945 al 1973, N. d. R. ). Nelle regioni non comuniste e avanzate la natura globale della crisi non venne
riconosciuta e tanto meno ammessa se non quando una parte del mondo – i paesi del “socialismo
reale”, cioè l’URSS e l’Europa Orientale – crollarono interamente. Per molti anni le difficoltà
economiche vennero considerate soltanto “recessioni”. Non era stato spezzato il tabù, risalente alla
metà del secolo, che impediva di pronunciare la parola “depressione” o “crollo”, che rievocavano
l’Età della catastrofe (1914-1945, N. d. R. )
3
.
2. Gli anni 80 e l’America di Reagan Contrariamente alla previsione di molti contemporanei la crisi occidentale del 1968-74 non
era destinata a concludersi nel giro di pochi anni; non si trattava di una semplice recessione
dell’economia né di un momentaneo passaggio verso nuovi e più splendenti scenari di benessere
futuro. Nemmeno la permanenza del democratico Jimmy Carter alla Casa Bianca, dal 1976 al
1980, era riuscita a contrastare l’ondata di “stagflazione”, e di conseguente disoccupazione, che
aveva investito gli Stati Uniti dopo la crisi petrolifera del 1973.
Alle tensioni interne erano andati poi a sommarsi altri e altrettanto gravi sconvolgimenti sul
piano geopolitico mondiale. L’invasione sovietica dell’Iran, iniziata nel 1979 con lo scopo
dichiarato di contenere il nuovo regime khomeinista, di stampo teocratico, si era rivelata un totale
fallimento per tutti: per l’URSS, che si era trovata impegolata in una situazione senza vie d’uscita
e aveva dimostrato ancora una volta al mondo la propria arretratezza militare; e per gli USA, che
si trovavano costretti ad assistere impotenti (se si esclude il ricorso all’embargo nei confronti del
Paese) all’emergere di un nuovo importante soggetto politico, il fondamentalismo islamico,
fondato su presupposti teorici dichiaratamente anti-occidentali. La morte del dittatore jugoslavo
2
Detti, T., Gozzini, G. (2002), Storia contemporanea. II. Il Novecento, Bruno Mondadori, Milano 2002 , p. 346
3
Hobsbawm, E. (1994), Il secolo breve. 1914-1991 , BUR, Milano 2001 , p. 471
7
Tito, nel 1980, aveva poi dato l’avvio ad una serie di movimenti indipendentisti nell’area
balcanica, generando tensioni che sarebbero poi esplose nel 1991-99 con le guerre del Kosovo.
È proprio in questa nuova fase di tensione tra le due superpotenze che, con una campagna
elettorale incentrata sulla necessità di “far tornare di nuovo grande l’America”, nel 1980 l’ex
attore repubblicano Ronald Reagan vince le presidenziali negli Stati Uniti; sarà poi rieletto nel
1984, segnando con il doppio mandato la storia americana degli anni Ottanta.
La riscossa dell’orgoglio nazionale proclamata da Reagan, comunque, riuscì a far breccia
nell’elettorato più per motivi di politica interna (l’inflazione inarrestabile e la crescente
disoccupazione) che per la situazione della Guerra Fredda, soprattutto di fronte allo scenario
desolante di un’Unione Sovietica che andava sgretolandosi di giorno in giorno. Le politiche
economiche volute da Reagan, che da lui presero il nome di “Reagonomics” , furono senza dubbio il
più importante fattore di cambiamento che l’Occidente dovette affrontare nel corso degli anni
Ottanta. Per molti versi, infatti, tali politiche economiche rovesciavano completamente il quadro
teorico delle dottrine economiche keyensiane che avevano guidato l’enorme sviluppo economico,
industriale e sociale degli Stati Uniti (e dell’Occidente tutto) dai tempi del New Deal roosveltiano
in poi: l’obbiettivo primario si era spostato dalla lotta alla disoccupazione dell’Età dell’oro alla
lotta all’inflazione, anche a costo di tagli alle spese sociali e ai posti di lavoro.
L’assetto teorico delle dottrine reaganiane, conosciuto già all’epoca come “neoliberismo” e
subito imitato in Europa dal premier britannico Margaret Thatcher, si incentrava su un forte
ridimensionamento del ruolo economico dello stato, attraverso una riduzione delle tasse sui
redditi d’impresa, e su un vertiginoso aumento delle spese militari, giustificato dalla nuova fase di
tensione con l’URSS iniziata dopo l’invasione dell’Iran nel 1979. Con Reagan prese avvio quel
fenomeno tipico delle attuali politiche economiche dei Paesi occidentali denominato
“ deregulation”, ovvero la cancellazione di tutti i vincoli sindacali, amministrativi, contabili e fiscali
gravanti sulle aziende, allo scopo di aprire il mercato all’iniziativa privata. Il rovescio della
medaglia, naturalmente, consisteva in una forte diminuzione delle spese sociali e nell’effettivo
smantellamento di quel welfare state che era stato il fiore all’occhiello della politica statunitense dal
già citato New Deal ; finiva con Reagan, insomma, il sogno americano com’era esistito dal periodo
tra le due guerre in poi.
All’attuazione di tali politiche economiche, poi, Reagan coniugò un altro elemento
tradizionale della mitologia americana: la paura del nemico, identificato nel comunismo
moscovita, da un lato, e in una serie di spinte centrifughe rispetto al modello di sviluppo
occidentale, dall’altro, che andavano imponendosi nelle aree più “calde” del pianeta, come per
esempio il Medio Oriente; ciò che, già allora con un termine un po’ vago, veniva definito
“terrorismo internazionale”. Oltre alla corsa al riarmo nel conflitto con l’URSS (un riarmo che
8
sarebbe costato alle repubbliche sovietiche il progressivo disfacimento e poi il collasso,
immagazzinando tra l’altro enormi guadagni nelle tasche delle industrie americane produttrici di
armi), l’amministrazione Reagan impegnò il Paese in una serie di missioni anti-terrorismo come
quella che, nel 1986, vide l’aviazione statunitense bombardare le città libiche di Tripoli e Bengasi.
Quello che, nel 1989, Ronald Reagan lasciò al suo successore, George W. Bush Senior, era
un Paese trasformato, un colosso economico che grazie alle politiche neoliberiste era finalmente
uscito dalla decennale “stagflazione” che l’aveva investito all’inizio degli anni Settanta, e un
colosso politico che dopo l’implosione dell’URSS dominava incontrastato su tutto il globo, in una
situazione inedita non solo negli Stati Uniti ma in tutta la storia dell’umanità.
Ma era anche un Paese al cui interno le contraddizioni emerse nel periodo 1968-74 erano
ben lungi dall’essere sanate. La nuova poderosa crescita del PIL non corrispondeva alla situazione
media dei cittadini, dei lavoratori comuni e dell’enorme massa di disoccupati: la polarizzazione
economica e sociale, logica conseguenza dell’ondata di privatizzazioni voluta dall’amministrazione
Reagan, toccava i livelli d’allarme del periodo precedente la Seconda Guerra Mondiale. Ancora
più importante, il benessere economico del Paese non andava di pari passo con il benessere reale
percepito della stragrande maggioranza delle persone: lo smantellamento dello stato sociale, le
nuove condizioni di precarietà dell’esistenza e il nuovo incerto assetto geopolitico del mondo
post-bipolare erano tutti fattori di insicurezza destinati a radicalizzarsi negli anni futuri, generando
profondi cambiamenti nella psiche collettiva dei Paesi Occidentali.
Nel corso degli anni Ottanta, negli Stati Uniti, era nato il mondo contemporaneo, l’epoca
che Zygmunt Bauman ha definito, con una felice espressione, della “vita liquida”.
3. Politiche dell’insicurezza e “liquidità” dell’esistenza: un inedito senso di catastrofe imminente Ciò che è capitato all’Occidente nel ventennio che va dal 1968 al 1989 può essere dunque
visto come la più importante e radicale modificazione culturale, politica e sociale che il “primo
mondo” abbia dovuto affrontare dalla fine della Seconda Guerra. I moti del 1968, ideati e
concretizzati dalla prima generazione nata e cresciuta in tempo di pace, guidata per la prima volta
nel suo sviluppo umano da un medium potente come la televisione, hanno contribuito, sul piano
culturale, ad un radicale smantellamento del concetto di gerarchia; e sono stati, forse, la prima
vera critica che il modello di sviluppo occidentale abbia ricevuto dall’interno, dai propri figli
educati al benessere e al consumo. La fine dell’assetto bipolare del mondo ha portato all’emergere
di nuovi e incontrollabili soggetti politici (le ex-repubbliche sovietiche, i Paesi mediorientali ecc.),
mentre la crisi del 1973 ha posto le basi per una potente svolta dal punto di vista economico e
sociale, realizzatasi dieci anni più tardi con l’attuazione delle Reaganomics . Il progressivo
9