7
L’immagine di Dio è l’essenza o la natura con cui l’uomo fu creato. Per determinare
il quadro ontologico-cosmologico dell’uomo bisogna dire che “La natura è qualche cosa di
stabile, è un insieme di forme in cui la stabilizzazione si ha attraverso la ricorrenza di una
somiglianza. In questa somiglianza si individua una proprietà principale che sarà chiamata
essenza. […] La scena in cui si svolge la vicenda della natura è il cosmo. […] Lo spazio
entro cui la differenza fra gli enti si aduna è l’essere; e l’essere in cui l’esistenza on
differisce dall’essenza è Dio.”
2
L’uomo è stato creato ad immagine di Dio non solo riguardo a Dio e alla sua
essenza, ma anche in relazione con l’altro, con cui configura tale immagine. Considerata
l’«immagine»
3
di Dio nel suo momento di partenza (origine) e d’arrivo (vocazione) si lascia
spazio ora ad un’antropologia relazionale del volto che integra questa visione iniziale con
un successivo conferimento, quello del volto. E questo appunto perché l’uomo
sostanzialmente gioca entro questi due paradigmi: l’essenza e la relazione.
Espressione della categoria relazionale dell’immagine, il volto è promotore e motivo
di rinnovamento. Il volto non si può manifestare nell’egemonia dell’altro. L’imperialismo
non è la pratica di governo nel Regno di Dio. Il volto non subisce l’altro, ma non sussiste
nemmeno lui come sovrano dell’altro. La pluralità dei volti cede spazio solo per l’autorità
comune sul creato perché è il Regno degli uguali, che lascia libera l’espressione delle parti
in relazione al tutto.
Il Dio provvido, che conserva l’essere, vuole che le essenze autonome siano cause
seconde: dunque, sono state costituite secondo il modello divino di libertà. L’uomo, accanto
al Dio agente primo, è agente secondo. Gli agenti secondi interagiscono come cause
seconde e non strumentali. Anche se queste sono subordinate ontologicamente
4
a Dio, Egli
vuole agire insieme e attraverso la mediazione (consecutiva) delle cause seconde. Non si
tratta di un annullamento dell’ontologia divina e nemmeno di una «ontologia del declino»
5
ma di una nitida differenza ontologica caratterizzata dalla subordinazione, un ritrarsi
dell’essere di Dio in favore dell’uomo, riconoscendo all’uomo una certa causalità (seconda
rispetto al principio primo proprio).
2
Natoli, Salvatore, I nuovi pagani, Il Saggiatore, Milano, 1995, p. 41.
3
Si veda appendice 1.
4
Si veda il riferimento al riguardo nel capitolo L’eterogeneità dell’essenza.
5
In altre parole, non attribuire più a Dio i tratti forti della sua presenza perfetta. (Vattimo, Gianni, Le
avventure della differenza, Garzanti, 1980, p. 10).
8
La parola «ospite»
6
designa allo stesso tempo colui che ospita e colui che è ospitato.
La parola stessa semanticamente è il luogo di un incontro, di uno stare insieme,
nell’universo di uno stesso suono. Il volto accoglie lo straniero nella sua casa che offre la
possibilità allo straniero di farsi intendere. L’ospitalità può aver luogo se riconosciamo lo
straniero che è in ciascuno di noi perché, di fatto, siamo tutti stranieri. Tutti abbiamo dentro
di noi un «noi» straniero a noi stessi. Poiché siamo nomadi, tutti abbiamo lo stesso bisogno
di sostare, di essere accolti durante la sosta. Il deserto, il «luogo non luogo» dei nomadi, è
un cammino. Nel cammino nessuno ha radici; ciascuno è in transito. L’ospitalità è il
linguaggio del comune abitare sotto le stelle. Chi non conosce l’esperienza del cammino ed
è attratto inguaribilmente dal «domicilio» non può comprendere l’ospitalità. Ospitare vuol
dire costruire un tempo-spazio dove l’altro, colui che è ospitato, si può mostrare nella sua
identità. Colui che ospita cerca il dialogo con l’ospite senza attenuare la sua presenza, la sua
identità. Sono tante le forme dell’ospitalità: fra esse la manifestazione del volto. La
manifestazione del volto è vivere nel proprio spazio, ma accogliere l’altro nella propria
casa, restituendogli tutta la riconoscibilità dovuta.
“Non ci accorgiamo di bestemmiare quando pensiamo di noi stessi «io sono colui
che sono» come avessimo una splendida identità da non mutare, da preservare, da imporre
magari con la violenza; mentre l’altro è il diverso, è il pericolo, è il portatore di male. […]
La relazione è l’unica strada processuale per la dinamica dei”
7
volti. L’identità propria
nasce nell’incontro con lo straniero nei confronti di cui io mi posso definire e che è colui
che mi individua come altro. “L’identità nasce dallo scambio, dal confronto con la diversità
e solo in funzione della diversità essa si esprime. […] Qualsiasi forma di economia locale
che escluda scambio e apertura è destinata alla regressione, qualsiasi identità, tradizione e
memoria che non si confronti con le altre è destinata a morire.”
8
Da un articolo
9
sull’antropologia relazionale del prof. H. Gutierrez si possono
ricavare sostanzialmente le principali linee del «volto» come tema antropologico
relazionale «volto». Ne presentiamo ora i punti principali che interessano l’argomento in
discussione:
“L’epoca moderna nasce da una duplice riduzione: «riduzione all’uomo» e
«riduzione dell’uomo».” La «riduzione dell’uomo» considera, con lo spiritualismo, solo la
6
Il contenuto del paragrafo sull’«ospitalità» è tratto dal Podcast Radio Feltrinelli, «Letteratura, poesia,
narrazione, un percorso per voci», a cura di Antonio Prete, n°. 4.
7
Corriere della Sera, 09/06/08, «La trappola delle identità», p. 1.
8
La Repubblica, 03/06/08, «Localismo, la rinascita del particulare», p. 43.
9
Adventus, rivista teologica, n° 17, Edizioni ADV, 2007 (si veda appendice 2).
9
realtà immateriale come nobile, cioè l’anima. Oltre al fatto che la modernità va poi nella
direzione dell’esaltazione della sola capacità raziocinante, i lineamenti umani visibili del
corpo, sono spogliati da ciò che non è quantificabile e così il corpo è reso “opaco nel fisico
ma anche negli affetti e nelle convinzioni”.
10
“Come «corpo» è stato disconosciuto e il suo
mistero prosciolto”.
11
La «riduzione all’uomo» mostra come ogni cosa sia riconducibile a lui. Egli diventa
la misura d’ogni grandezza. Lo slittamento della teologia cosmologica verso una teologia
antropologica in cui l’uomo è posto al centro, fa sì che questi diventi l’unico garante di Dio.
Questa rivalutazione dell’uomo oltre ad un versante teologico, ne ha anche uno sociale. È
una riduzione da «noi» a «io». Alla riduzione precedente dell’uomo alla ragione si aggiunge
quella che valuta l’uomo nella sua individualità, staccato dal suo intreccio sociale. I legami
corporativi sono apprezzati solo se di convenienza (legami funzionali o strumentali). “Così
nasce l’individuo, libero dagli altri e schiavo unicamente di se stesso. […] L’uomo
moderno è separato dagli altri, libero e trascendente […]. Da solo, quantitativamente
parlando, forse realizza di più ma qualitativamente si è enormemente impoverito. Se la
qualità è essenzialmente relazione, allora, l’uomo isolato dagli altri, essendo
qualitativamente limitato mette in motto l’ingannevole meccanismo compensatorio
dell’avere e del possedere”.
12
La vita è rete e relazioni; il grande senso di scollegamento e
disintegrazione è l’effetto collaterale della sua efficienza quantitativa. L’isolamento dal
«corpo» avviene con la sua opacizzazione e l’isolamento dal «corpo sociale» con la
banalizzazione degli altri. L’atomizzazione moderna perviene sul fondo già preparato da
“un’anomalia dell’affettività e dei sentimenti”. Si prova a correggere l’anomalia in due
modi: rafforzare la razionalità e l’autonomia del singolo o, all’opposto, con l’affettività e la
solidarietà strutturali. Nel primo caso la correzione della modernità si fa radicalizzandola;
nel secondo si potenzia la propria identità con il rischio dell’«integrazione ideologica e
totalitaria» o del «totalitarismo identitario» dei legami endogeni che vanno creati con
l’isolamento di gruppo.
L’antropologia relazionale va dall’interno verso l’esterno: si ferma in primis al
soggetto, ma punta anche alla comunità, perché considera la vita come relazione. Un
processo correttivo d’integrazione, che eviti le due soluzioni menzionate, è «intrapersonale»
e «interpersonale».
10
Op. cit., p. 7.
11
Op. cit., p. 8.
12
Idem.
10
Il primo traguardo dell’antropologia relazionale è una guarigione «intrapersonale»,
si tratta in pratica di combattere la spinta all’estremo della logica analitica (dissociativa) e la
frammentazione dell’identità (schizofrenia), andando verso il ricupero della capacità di
sintesi. Inoltre, la lotta per il risanamento della coesione individuale, occorre ricomporre
quest’olismo dandogli un’impronta affettiva, in quanto “la dimensione affettiva funge da
collante nella strutturazione della propria identità”.
13
L’antropologia relazionale è «interpersonale» nel momento in cui è interattiva. In tal
modo diventa più visibile, più efficace perché il singolo “strutturalmente è destinato ad
aprirsi ad altri. Solo nei rapporti con gli altri il singolo è in grado di fare emergere le sue
ricchezze e quella degli altri. Questo non cancella la tensione irreversibile fra me e l’altro.
Ma non è destinata a creare isolamento. […] La tensione con l’altro non è una devianza o
un’anomalia. È il segno evidente di una presenza diversa dalla mia che si offre e mi stimola
alla crescita e al rinnovamento. […] Lo scontro si tramuta in dialogo. Questo cammino
verso il diverso da me non è né dato né immediato. È un traguardo che richiede uno sforzo
esistenziale che più che essere razionale o volontaristico è uno sforzo dell’affetto”.
14
Bisogno fare attenzione affinché l’olismo non si trasformi in totalitarismo e che il
tutto non inglobi le parti. La concezione dell’identità è quella che definisce il rapporto.
“Questo può avvenire solo se il concetto di sé presuppone un vuoto o un’incompletezza
parziale, cioè un’apertura. Se il sé è pieno di Sé, il collegamento con l’altro diventa
impossibile. Un’identità sana richiede una mancanza che l’altro può eventualmente
riempire. L’altro allora non è più un’aggiunta, un prolungamento di me, un campo di
applicazione o un palco di promozione delle mie prodezze. L’altro diventa necessario per
poter essere me stesso. […] Potremmo parlare d’incompletezza strutturale, in quanto
l’uomo nasce con un vuoto. Il desiderio dell’altro lo contraddistingue. Un’identità sana è
necessariamente aperta perché presuppone questo tipo di asimmetria.”
15
Il ridimensionamento di sé fatto in vista dell’altro e dell’insieme “non ha, però, solo
un carattere preventivo, ma è caratterizzato da un elemento propositivo e di
coinvolgimento. Il Sé si ridimensiona per trovare l’altro. Se il soggetto rimane in possesso
di tutte le sue prerogative, il rapporto con l’altro diventa impossibile. […] [La rinuncia (o il
zimzum antropologico) diventa necessaria perché] ogni rapporto richiede un
ridimensionamento volontario della propria identità per fare spazio all’altro: il prossimo che
13
Op. cit., p. 13.
14
Op. cit., p. 14.
15
Op. cit., p. 15.
11
desidero incontrare. Il ridimensionarsi, il cedere o il contrarre prerogative è un segno di
salute identitaria e non di dimissione o di appiattimento della propria identità.”
16
L’integrazione non deve dunque ammettere i totalitarismi, ma neanche il cedimento
totale di fronte all’altro. La condizione di tale integrazione è che l’affermazione di Sé non
sia prepotente ma attestante. “L’individuo non è tutta la realtà ma non è insignificante alla
realtà. […] L’attestazione di Sé ha i contorni della testimonianza. La testimonianza è
l’impronta del singolo nel gruppo o nella realtà non come prova della propria esistenza ma
come richiamo e invito”.
17
Stiamo ancora sotto il segno della provvisorietà e dell’incompiutezza, perciò
bisogna considerare che la correzione completa delle anomalie avverrà solo all’interno del
regno messianico di cui ora abbiamo solo un’anticipazione. Questo avviene “[…] ogni qual
volta i credenti, nella vulnerabilità della loro vita e opera, diventano testimoni della
riconciliazione del Dio che viene.”
18
L’articolo citato tratta la duplice riduzione (dell’uomo e all’uomo) che poi si prova
correggere con l’integrazione «intrapersonale» (la prima) e «interpersonale» (la seconda). È
da aggiungere che la relazione dialogica con l’altro volto deve essere resa possibile
nell’equilibrio fra il senso di incompletezza parziale (apertura all’altro) e la necessità di non
sopprimersi davanti all’altro (affermazione di Sé). Ovviamente, tutto questo é presupposto
come operato provvisorio che è solo precursore del regno compiuto di Dio.
Il volto è una categoria da considerare nella sua dimensione relazionale con
l’esterno. Per definirlo nella sua esteriorità vi è prima il bisogno di definirlo nella sua
struttura o natura essenziale. L’essenza è la parte più importante, il nucleo che definisce
l’uomo nel suo insieme. È, per così dire, il «codice genetico» che definisce le sue qualità
costitutive che lo definiscono come tale, cioè «uomo». Questa essenza che definisce l’uomo
è una qualità piuttosto stabile perché innata. Il volto rende esterna l’essenza. L’immagine di
Dio, oggetto dello studio precedente, è stata analizzata nella sua dimensione definitasi come
intrinseca, nella sua origine e vocazione. La sua dimensione estrinseca, il volto, è quella che
permette all’uomo di esporsi all’esterno nella relazione con i volti degli altri suoi simili.
La relazionalità del volto va garantita dalla fedeltà alla sua struttura. La relazione
con Dio non ha il ruolo di stornare dal mondo, perché la nostra «origine» ci stabilisce come
aperti al mondo e la nostra «vocazione» non è autoreferenziale, ma preparazione e
16
Op. cit., p. 16.
17
Op. cit., p. 17.
18
Op. cit., p. 18.
12
trasformazione per trovare l’altra realtà oggettiva fuori da sé. Il volto non è la maschera per
proteggere il sé, ma ciò che ci porta all’altro. Dio è il garante e il mediatore del modo giusto
di porsi nei confronti del mondo: non assorbiti dal mondo, ma nemmeno non volti ad
inghiottire per sé il mondo. Il richiamo necessario a «non conformarsi al mondo» deve
essere visto nell’ottica di questo giusto rapporto.
L’incompletezza parziale del volto fa in modo che esso non basti a se stesso. Il volto
si costruisce nella relazione. Il volto relazionale bisogna che si cristallizzi intorno all’altro
volto umano. Il volto è fatto da Dio, ma non tanto per Dio. La comunicazione con Dio non
avviene in un incontro corporeo, ma si fa nello spazio tranquillo della nostra spiritualità. La
comunicazione con il volto invece, anche se mantiene un certo registro spirituale, ha
piuttosto un valore storico. Nel mondo sensibile il volto si dà alla presenza dell’altro volto.
L’immagine di Dio, sia come origine che come vocazione, è, in effetti, un concetto molto
autoreferenziale. Il volto viene a completare l’immagine di Dio perché è una
rappresentazione definitasi rispetto all’altro volto. L’«immagine» è vista così nella sua
accezione più unitaria: l’immagine interna (essenza) ed esterna (volto).
Il volto trova un paradigma in Dio stesso: come Dio ha la sua «perfetta volontà» e
unicità che non può essere piegata da altri, così ogni uomo ha una sua trascendenza. Il volto
esprime da un lato la sua affermazione di sé, che è una volontà non relazionale. Tuttavia, la
sua «perfetta volontà» è anche «buona » e «gradita», una volontà non più per se stessa, ma
anche per l’altro. Questa è la volontà relazionale, che da trascendente diventa immanente.
In Dio (dunque anche nel volto umano) si crea un processo d’immanentizzazione ed un
passaggio che lascia intravedere l’ammissione dell’incompletezza parziale e il desiderio di
integrarla nella relazione. In tale relazione l’io «intro» si completa con l’io «extra» nella sua
uscita da se stesso.
Il rumore del «mondo», anche se sembra minaccioso, non ci deve allontanare da
esso. La ricerca di consenso si attua nell’alleanza con il volto – un atto contro la propria
fatalità perché spinge oltre l’egoismo autodistruttivo. L’uomo Cristo è il solo uomo che non
ha ceduto alla tentazione di vivere solo per sé. Quando la natura peccaminosa è trasformata
secondo il modello di Cristo, l’uomo può varcare la propria fatalità e dispone dei mezzi per
raggiungere la libertà da se stesso, fatto che promuove un’intesa di libertà fra i volti. Essa
non è stereotipata da un linguaggio istituito che avvilisce, ma è esternata in tutta libertà
usando un lessico del cuore. La lingua del cuore è metalinguaggio e metafisica. La
relazione fra i volti non è né annullamento di sé, né «mimesi» (imitazione dell’altro).
13
Il richiamo ad un’ecologia della mente è fatto nell’affermazione del brano biblico
(Ro 12: 2): non conformatevi a questo mondo ma siate trasformati mediante il
rinnovamento della vostra mente. Le norme dell’«ecologia» del volto richiamano al non
inquinare il volto altrui. Nell’incontro non si traduce (o tradisce) l’altro; lui è solo uno
stimolo, il lievito, il fattore di crescita che si esporta nello scambio affettivo. La lettura che
mi faccio dell’altro è un riverbero, una nuova versione sinottica di me, preservando tuttavia
il proprio timbro, che risuona della risonanza affettiva che l’altro volto produce. Questo è
un esercizio di conoscenza dell’altro. La ricostruzione di sé allude alla riappropriazione di
quanto a me manca, che senza l’incontro con il volto va ad estinguersi. L’assenza di ciò che
sento che mi manca e che provoca la ricerca di questo elemento nell’altro, porta il bisogno
di far parte del Regno. L’idea stessa del Regno è contro la riduzione e la limitazione a sé,
sempre nel rispetto della sovranità individuale. Qui, nel Regno, siamo esposti allo sguardo
degli altri volti. La prerogativa essenziale del volto è l’esposizione allo sguardo esterno,
perché diverso da esso dato che ogni vero incontro richiede una vera differenza.
Dall’altra parte vi è l’esigenza di rivendicare il diritto alla conservazione e di non
lasciarsi sedurre dall’indiscrezione dello sguardo eccessivo. Essere empatico non è
abbandonare al caso l’espressione dell’anima. Succede che “il bisogno di essere accettati e
il desiderio di essere amati ci fanno percorrere strade che il nostro sentimento ci fa avvertire
come non nostre, e così l’animo si indebolisce e si ripiega su se stesso nell’inutile fatica di
compiacere agli altri.”
19
Tenere a bada gli eccessi non contravviene alla coesione che la
relazione con il volto richiede. Essere autonomi dalle proposte del conformismo non dà solo
libertà maggiore, ma permette anche una relazione genuina e una risonanza emotiva reale
con il volto.
Non conformatevi a questo mondo ma siate trasformati mediante il rinnovamento
della vostra mente affinché conosciate per esperienza qual sia la volontà di Dio, la buona,
gradita e perfetta volontà. (Ro 12: 2).
Se inseriamo nel nostro discorso il brano che Paolo usa nella sezione perenetica
della Lettera ai Romani, non lo facciamo per approfondirlo, ma solo per tratteggiarne la
struttura generale dell’esposizione. Anche se nella Bibbia vi sono altri brani che hanno
un’attinenza maggiore con l’argomento, abbiamo scelto questo per porre in contrasto il
«non conformatevi a questo mondo, ma siate trasformati» con quello di Ge 1: 27: «Dio creò
l’uomo a sua immagine» non perché si contraddicano l’un l’atro, ma perché si completino.
19
Galimberti, Umberto, L’ospite inquietante, il nichilismo e i giovani, Feltrinelli, Milano, 2008, p. 54.
14
In fondo, in ambedue i testi si afferma la stessa cosa, ma in modi diversi: uno propositivo
ed uno perentorio. Conformatevi all’immagine di Dio, non lasciate che la vostra condotta vi
allontani dalla sua immagine! Il «mondo» è inteso qui non tanto come «mondo dei volti»
esterno al quale non bisogna chiudersi, ma come «mondo del male» opposto al «mondo di
Dio» o al suo «Regno».
Ci proponiamo dunque, seguendo la progressione del testo biblico (Ro 12: 2), di
definire il volto umano e di analizzare i due aspetti del volto umano. Da una parte l’aspetto
essenziale (che è anche oggetto del lavoro precedente sull’immagine di Dio) e dall’altra
parte la natura relazionale del volto. Quest’ultima concerne il discorso sull’incontro dei
volti che definisce l’etica e l’estetica relazionale. L’essenzialità designa l’origine.
«Essenza» significa origine e nello stesso tempo destinazione (vocazione) divina. L’etica è
solamente il compito che l’uomo deve compiere progressivamente durante la sua esistenza.
Il volto è insieme essenza compiuta e dovere ancora da compiere.
La prima sezione che parla della natura essenziale del volto comprende in sé la
tutela dell’essenza del volto e la trasformazione del volto. Iniziamo con la trattazione del
tema proposto rilevando il dovere del credente di custodire il volto essenziale primordiale
che Dio gli ha donato alla creazione (Non conformatevi a questo mondo […]): La vera
essenza dell’uomo si presenta paradossalmente anche nel suo volto. Anche se il «volto» è
un concetto relazionale, cioè definito nella relazione e perciò non una cosa fissa come
l’essenza, esso ha una suo fondamento: è strutturato secondo l’immagine di Dio. Il volto è
forma insatura e perciò ancora ambigua di una suprema presenza: l’uomo è pervaso dal
divino. Certamente, il volto è una realtà bivalente: è contrassegno d’umanità o segno
d’identità umana; inoltre è anche segno della sua origine divina. Le coordinate dell’anima
si misurano dallo status del volto. Il volto è il segno esterno di una realtà interna e intima
della persona: la sua essenza divina. Anche il vissuto intimo si esterna nel dinamismo del
volto, che porta con sé le tracce della lotta o serenità interiore. L’essenza espressa nel volto
è l’espressione simultanea dell’assoluta subordinazione e della sua assoluta libertà, della
sua origine e della sua essenza ultraterrena. È qualcosa che Dio dona, ma che anche l’uomo
possiede; è l’unione del divino con l’umano, è l’incarnazione del Dio Creatore nel suo
creato, l’archetipo dell’essere umano paradigmatico che la creazione promuove.
Il volto dell’altro è l’affermazione genuina della propria essenza. La
compartecipazione relazionale (coppia) è una sembianza umana dell’essenza divina.
L’essenza divina appartenente a tutti assicura nel volto lo spazio d’incontro con l’altro.
L’essenza di Dio concretata nell’uomo è secondo l’immagine di Dio, il modo che Dio ha
15
destinato all’uomo di vivere. L’uomo non è egli stesso l’assoluto, è solo una riflessione di
esso che si manifesta nella relazione con il volto. Ogni uomo è depositario dell’assoluto
splendore originario dell’immagine di Dio (creazione) che può essere tutelato solo nella
contemplazione del volto divino fattasi carne. La riduzione di Cristo allo stato umano per
concretizzare la redenzione, dà l’opportunità di restauro e sviluppo dell’uomo verso lo
stato d’essenza divina pura. Non conformarsi a questo mondo significa perciò
salvaguardare l’essenza del volto creaturale e promuovere la sua nobilitazione nella
relazione con il volto dell’altro.
Dopo aver parlato della tutela dell’essenza (l’aspetto principalmente sincronico del
volto) occorre rilevare il secondo aspetto della natura essenziale del volto, cioè la
trasformazione del volto (l’aspetto storico del volto, dunque diacronico). Il volto si slega
dal mondo per la sua struttura, ma si lega al mondo perché è anche relazionale, quindi
storico. ([…]Ma siate trasformati mediante il rinnovamento della vostra mente[…]):
L’essenza espressa nel volto è una caratteristica piuttosto statica, ma anche sottoposta alla
trasformazione nella relazione; è un valore da conservare ma anche da sviluppare; è origine
e vocazione. Il dinamismo del volto, anche se ha una sua autonomia, vuol dire crescita,
rinnovamento costante insieme all’altro volto, dunque, non stagnazione. La crescita
implica uno sviluppo che parte da dentro, da un dato già dato (essenza). La trasformazione
è la metanoia, cioè una rinascita fatta da Cristo in noi. La trasformazione del volto secondo
colui di Cristo evidenzia l’attribuirsi il volto di Dio che si attua per opera di Cristo, che ci
dà «il volere e l’agire» (Fil 2: 13). Egli è ed ha il volto del Padre; è il Figlio di Dio e il
figlio dell’uomo. Chi ha visto il Figlio ha visto il Padre. Cristo è l’essenza dell’umanità ed
è pure l’essenza della divinità svelatasi all’umanità. Cristo è il volto della trascendenza
fattasi manifesta nell’immanenza del volto umano. Cristo è il volto del Padre disceso e
incarnato nella storia umana. Cristo è «autonomo» per la sua essenza, ma è anche
«eteronomo» per la sua volontà di condivisione con l’umanità. Cristo è la persona infinita
che si rende finita per mettere in risalto il volto del suo Padre. Cristo è il mistero della
divinità che è stato dissimulato dal serpente per poi essere reso palese e riabilitato alla
croce. Cristo prende su di sé il volto del peccato facendosi peccato per noi per concedere
redenzione dal vincolo mortale del peccato. Egli annienta con la croce il volto del peccato
per riconquistarsi la sua immagine vera. Cristo dà a tutta l’umanità la possibilità di
riprendersi il volto avuto prima del peccato per ritornare alla condizione originaria. Questa
è la vocazione dell’uomo.
16
Il Salvatore raffigura con la sua umanità l’uomo universale che è immagine di Dio;
egli rappresenta tutta l’umanità e, nel contempo, ogni individuo che si riflette in ogni volto
con la sua bellezza caratteristica. Ciascun volto non sussiste in virtù di un altro, ma ha la
sua teleologia; tuttavia è rapportato all’uomo universale, all’immagine di Dio incarnata in
Cristo. Adamo è il prototipo dell’umanità caduta; Cristo di quella vincente. Noi siamo
chiamati alla vittoria in Cristo. A Cristo non manca la visione; allora egli è capace di
cogliere delle virtù nei credenti. Cristo, il secondo Adamo, vede in noi degli eroi che
possono ottenere vittoria nella trasformazione del volto secondo la somiglianza divina.
La seconda sezione rende nota la natura relazionale del volto e contiene il capitolo
sulla trascendenza o sul mistero del volto e il capitolo sull’immanenza o sulla presenza del
volto che parla dell’etica relazionale. Riprendendo il pensiero biblico del testo in studio
([…] Affinché conosciate per esperienza qual sia la volontà di Dio […]), osserviamo come
l’esperienza offra l’opportunità di incrociare la trascendenza nel semplice incontro con
l’immanenza o la storicità del volto umano. La natura dell’uomo è salda essenza di Dio,
ma egli è anche volto rispetto agli altri. L’uomo si definisce a partire da Dio, ma anche
dalla sua relazione con il volto che a lui si presenta. Tale incontro con il volto diverso, in
realtà costituisce il Regno di Dio vivente nei cuori umani, creando una storia comune di
fede. Per poter entrare nella relazione con il volto bisogna fare in ridimensionamento di Sé,
come dice P. Ricoeur parlando di una «ermeneutica antropologica», vale a dire accogliere
tramite l’interpretazione.
Nell’esporsi ad una relazione con il mondo vi sono diverse modalità di rapportarsi.
Il rapporto con un oggetto (oggettivazione) è diverso da quello con l’Altro. Dio non si
lascia oggettivare o confinare nella nostra mente o nelle nostre categorie. L’uomo non può
vedere Dio, ma lo può percepire. Il senso di mistero appare quando l’uomo sta davanti a
Dio nella contemplazione. Qui abbiamo un rapporto che s’istaura con la realtà della
trascendenza. Il limite della nostra percezione stabilisce Dio come il grande assente (se
fosse veramente assente non saremmo in grado neanche di percepirne l’assenza) perché
troppo grande per noi. Probabilmente questa assenza deriva da un’eccessiva presenza: lo
percepiamo assente perché è troppo presente. Vi è un altro modo per capire tale assenza: se
Dio non si manifestasse attraverso l’assenza, e se fosse presente alla nostra percezione,
sarebbe nelle nostre mani. Appunto per questo Dio non si lascia percepire come un
oggetto.
Ciò che abbiamo detto di Dio ha a che fare con il mistero, con l’enigma e con la
trascendenza. Il fenomeno è invece ciò che si evidenzia grazie a dei segni sensibili avvenuti
17
nella storia umana. Il fenomeno storico è un altro tipo di descrizione della realtà. Il volto è
trascendente (staccato dall’altro nella sua fissità essenziale), ma ha anche forma sensibile o
storica che gli permette il collegamento con l’altro. Il volto è per eccellenza l’essenza del
sensibile. Questa sensibilità del volto permette l’esserci della relazione. L’uomo si trova tra
la realtà fenomenica (sensibile, storica o immanente) e quella trascendentale (metafisica o
spirituale). La mente appartiene al corpo, cioè al materiale, alla storia, ma tramite essa si
entra in relazione con il divino trascendentale. La mente è una cosa materiale con delle
caratteristiche trascendentali che accomunano l’uomo con l’altro uomo (volto) in virtù della
loro storicità e l’uomo con il suo Dio. In questo senso il volto è ponte o mediatore tra le due
dimensioni. L’uomo può percepire la presenza del volto altrui, come un fenomeno e/o come
manifestazione del trascendente nella storia. “[…] La fenomenologia come pensiero che
privilegia la presenza, il darsi in carne ed ossa delle essenze”
20
dispiega il manifestarsi di
questa presenza nella differenza. Questo volto non è misurabile né afferrabile poiché la sua
essenza è trascendentale e non si lascia afferrare. Il volto si rifiuta di essere contenuto,
posseduto o spiegato per la sua stessa essenza trascendentale. Ma il volto è anche
immanenza, storia, affetto, disponibilità e relazione etica. L’antropologia relazionale
descrive l’attuazione del volto con la sua apertura pur nella sua fissità autonoma
dell’essenza. La supremazia della relazione è netta nel concetto del volto. Ovviamente,
prima di tutto, l’umanità del volto è di ascendenza divina, ma poi è relazionale e storica. Il
volto è appartenenza ed affermazione di questa appartenenza, ma è anche contestazione
della egemonia dell’io e dinamicità verso l’esterno. La relazione con il volto esige la
coesione. Il bisogno della coesione è capito solo con l’accettazione della propria
incompletezza strutturale.
Il volto è il veicolo per conoscere Dio, è il tramite con il quale si percepisce di
essere percepiti. Conoscere la volontà di Dio è conoscere la sua trascendentalità. Se questa
volontà ci sembrasse statica o immobile dovremmo osservare che è anche dinamica in
quanto una volontà buona e piacevole. Bisogna “conoscere” la sua volontà, dunque la sua
volontà ci obbliga (è etica). Ma la stessa volontà di Dio è anche “buona e gradita”, dunque
ci attira (è anche estetica). Poi Dio è Dio per sé, in sé e sufficientemente per sé, ma è anche
il nostro Dio, per noi, in noi e apertamente verso di noi. L’uomo allo stesso modo è identità
per sé, ma integra in sé anche gli altri, con un processo volontaristico e affettivo. L’uomo è
diverso rispetto all’essenza ed al volto (eterogeneità), ma si identifica in un certo senso con
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Cfr. Vattimo, Gianni, Le avventure della differenza, Garzanti, 1980, p. 153.
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esso cancellando in parte le differenze (unità). “Queste differenze tra Altri e me non
dipendono da «proprietà da sé» ma […] dalla congiuntura Io-Altri, dall’orientamento
inevitabile dell’essere «a partire da sé» verso «Altri».”
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Osservando il volto dell’altro, che è ad immagine di Dio, si può conoscere per
esperienza Dio ed il volto simile a Lui. Il volto è ciò che accomuna Dio e uomo. Aprendo
una relazione con il volto umano, in qualche misura si relaziona con Dio stesso. Il volto è
esperienza metafisica solamente quando l’uomo si trova di là di se stesso, vale a dire
quando incontra il volto altrui. Il reale storico è definito non solo dalla presenza dell’io ma
anche dalla presenza dell’altro volto. Il trascendente si accoglie attraverso dei segni: il
volto è un segno della trascendenza espresso nella storia. L’alterità è concreta, l’io incontra
l’assolutamente altro, che diviene il luogo d’incontro con la metafisica. Il Signore opera
concretamente attraverso gli strumenti della realtà storica, utilizzando delle persone che
vivono sulla terra. Dio non irrompe violentemente nel vissuto umano sospendendo le leggi
naturali per inserirsi e imporsi alla realtà umana. Dio si «fa vivo» attraverso il volto altrui,
il tramite della relazione con Dio. Incontrare il volto dell’altro è un’esperienza
trascendentale. Percepire l’esposizione dell’altro (vale a dire del volto) significa superare la
banalità della percezione comune. Il volto disfa la forma ed eccede sempre oltre l’idea che
noi ce ne facciamo, partendo dalla forma a noi presentata.
Il volto non indica semplicemente la presenza dell’altro, ma esprime anche la
modalità secondo cui tale presenza si dispone. Il volto rappresenta un certo modo di essere
presente dell’altro e come altro. Altro si presenta come un infinito di modi possibili velati
per me. Per questo ciò che nel volto si fa presente è l’Infinito. L’infinito si manifesta nel
volto ed il volto rivela l’infinito. Questa relazione con l’infinito non è un rinvenimento
teorico, né un’ipotesi che rende possibile la descrizione di presupposti di possibilità; è la
contiguità del volto che si dispiega in un infinito di modi.
La limitazione umana è quella di spiegare il mondo da ciò che già c’è chiaro.
L’identità del sé nasce dallo scambio fra i volti diversi e solo a partire dal volto che essa si
esprime. L’identità espressa con il volto non si esprime se non in relazione con il diverso.
Senza il diverso l’identità del volto non esisterebbe poiché la ragion d’essere del volto è la
presenza dell’altro nella sua vicinanza, senza la quale il volto regredisce. L’umanizzazione,
in altre parole, è servirsi di sé per spiegare tutto il mondo. Il valore della diversità del volto
preme, di conseguenza, alla conoscenza di Dio per la quale occorre iniziare a comprendere
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Lévinas, Emmanuel, Totalità e infinito, saggio sull’esteriorità, Jaca Book, Milano, 2000, p. 220.
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il nostro simile. Nel volto s’incontra un elemento concreto che costituisce la porta verso il
trascendente. Il volto non è un luogo senza contenuto e senza senso, bensì il luogo stesso
dell’annuncio della trascendenza.
Dio si manifesta nella simmetria: Dio aperto – uomo aperto. Dio si rivela perché
l’uomo riceva la rivelazione, giacché esso sarebbe, per la sua costituzione, aperto
all’evento. L’uomo è aperto alla rivelazione perché in lui vi è l’essenza di Dio e la
somiglianza alle aspirazioni di Dio. Egualmente il volto si manifesta nella simmetria della
relazione fra i volti. La correlazione fra «due trascendenze» forma il Regno, realtà
spirituale formatasi nella dialettica dell’amore che si appella al consenso fra i volti. Tale
dialettica è una relazione di duplice movimento armonioso (legame simmetrico) di libertà
che si dona. La realtà del Regno è possibile solo nell’associazione con gli altri membri del
corpo di Cristo. Il volto si evidenzia solo nell’avvicinamento; dunque non nella sintesi o
nella simbiosi, ma nell’associazione. Il Regno abita nei cuori umani che ne prendono parte
e svolgono una relazione in armonia fra loro. Ogni volto che é il corrispondente o la
storicizzazione dell’essenza divina nella carne, ha il suo posto nel corpo del Regno. La
presenza dell’immagine divina nell’uomo, cioè, dell’essenza divina nell’uomo ci rende
nostalgici per il Regno. Il richiamo all’essenzialità converte l’uomo dalla dispersività della
casualità esistenziale alla speranza fiduciosa nell’avvento del Regno, cui testimone fedele è
il volto altrui – passaggio verso la trascendenza. Dunque, si scopre la necessità del volto
per comprendere se stessi, l’altro e in più Dio.
Infine, l’ultimo aspetto della sezione natura relazionale del volto si riferisce alla
storicità (presenza o manifestazione) del volto, ([…]La buona, gradita e perfetta volontà).
La volontà di Dio è relazionale, non solo assoluta; essa è legata alla storia e non solo
trascendente. È lontana da noi, nella sua perfezione, ma è anche buona e accogliente.
Similmente, il volto ha queste due caratteristiche: è affermazione della sua consistenza
essenziale, ma è anche rapporto e condivisione.
Da un altro punto di vista il brano biblico tratta la manifestazione dei principi
morali divini nel mondo. Il volto è la manifestazione dell’etica di Dio nel rapporto
interumano. Il volto diventa per emulazione buono, gradito e perfetto (Ro 12: 2). La
metafisica è il rapporto con Dio; l’etica é il rapporto con il prossimo e il rispetto del volto
altrui. Entrare in rapporto con Dio tramite il volto dell’altro porta all’azione l’etica. Così
l’etica diviene il luogo della metafisica e la metafisica si realizza al livello dell’etica.
L’etica è legata all’attività produttiva per niente passiva, quindi è dinamica e feconda
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coinvolgendo pienamente l’essere. In tal modo il volto è una presenza viva che progredisce
nella condotta etica.
Il volto umano prende a modello quello di Dio. La volontà umana si rifà alla
volontà divina. La volontà di Dio è vincolante, ed è da conoscere. È un amore che “ci
costringe” (2 Co 5: 14). Questa funzione etica della volontà di Dio introduce la dimensione
etica del volto. La sua volontà è tuttavia “buona e gradita” quindi l’uomo è attratto dalla
bellezza di Dio. La funzione estetica della volontà di Dio ispira pure una dimensione
estetica nel volto. Il Sl 133 fa riferimento alla funzione puramente estetica, dunque non
necessariamente funzionale, dello stare insieme dei volti. Vi è bisogno della disciplina,
dell’utilità del riunirsi di ogni capacità umana. Nondimeno, si riconosce, nell’apparente
inutilità, quanto è bello lo stare insieme dei fratelli.
La persona non è sempre presente a sé nella sua interezza perché vive anche con e
negli altri. Nell’elaborazione della persona, l’io è pienamente in sé qualora, nella
costituzione del sé, sappia riconoscere il volto dell’altro, partecipando così intimamente al
benessere ed alla vita altrui. Questo non è annientamento dell’essere, ma sollecitudine
senza limiti, cioè un atto di autentica moralità. “Nella struttura della relazione etica l’io non
si perde ma, piuttosto, si scopre fedele a se stesso.”
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Questa norma d’esistenza non
dissolve le possibilità dell’essere. In questa direzione, la trascendenza del volto non si
corrode e non si esaurisce mai nel presentarsi come un’entità infinita. L’io si trova inserito
nella relazione ed è destinato alla partecipazione. La relazione etica riconosce l’altro volto
come parte di sé. L’immediata unità dell’essere nel mondo dei fenomeni amici (o dei volti)
porta con sé la beatitudine del ricongiungersi al mondo armonioso del Regno. La
medesima idea della comunità del Regno contiene uno spessore etico alla presenza del
volto. L’uomo è completo come uomo solo se entra in modo etico nella relazione con i
suoi simili. L’uomo è completo se si costituisce parte della storia altrui e se l’altro fa parte
della sua storia. Questo intreccio di storie lascia intendere la comunanza e l’armonia del
Regno di Dio. Il Regno non è un isolamento di gruppo, ma è l’inclusione universale,
ontologica ed esistenziale di tutti i volti, costituitisi come essenze in relazione. Con il
rifiuto dell’ospitalità, l’uomo rinnega la sua stessa identità (rispetto alla quale lui stesso si
può definire come «altro volto») e l’elezione originaria per l’altro (con cui concorso
darebbe forma all’immagine di Dio). Frantumato il vincolo creaturale diventerebbe
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Labate, Sergio, La sapienza dell’amore, In dialogo con Emmanuel Lévinas, Cittadella Editrice Assisi,
2000, p. 241.