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ovvero perché il vissuto biologico non rimane confinato al corpo, ma viene
riorganizzato a livello cognitivo e questa riorganizzazione non è indipendente
dalla persona che la produce.
Un prigioniero in un campo di concentramento e una ragazza anoressica,
daranno presumibilmente chiavi di lettura differenti di uno stesso evento
biologico: i morsi della fame; così come differente sarà la risonanza cognitivo-
emotiva del dolore in una partoriente rispetto ad un ragazzo in astinenza.
Questi due esempi mettono in evidenza l'importanza, al fine di una diversa
lettura del vissuto corporeo, del contesto di significazione, ovvero del dove,
come, quando e con chi si trova il soggetto. Al variare di questi elementi,
infatti, varia l'immagine che una persona ha di sé e di conseguenza vengono
codificate diversamente anche le informazioni corporee.
Queste affermazioni sono comprensibili ponendosi in un'ottica
INTERAZIONISTA, ovvero se si considera l'individuo come il riflesso del
personaggio e del ruolo che è chiamato ad essere; « Contesti, aspettative, ruolo
praticato e soggettivamente vissuto, significati condivisi, finiscono con il
rimandare al soggetto una serie di immagini di sé, che egli fa proprie »
(Salvini,1982). Non si deve comunque pensare ad un individuo passivo,
determinato, la cui vita si risolve in un adeguarsi a norme, regole, aspettative
socialmente elaborate; piuttosto la persona deve essere concepita come agente
attivo, che produce, condivide, negozia dei significati, che definisce le
situazioni, che si dà delle ragioni in vista di un fine e che è in grado di
predisporre, organizzare, pianificare la propria attività (Salvini,1980).
Alla luce di quanto detto, il concetto di rappresentazione corporea si configura
come l'insieme dei significati, attributi di valore e percezioni che ogni persona
elabora e costruisce sulla base dell'informazione propriocettiva, organizzata e
selettivamente orientata dalle convinzioni attinenti ad una certa immagine di sé.
Per quanto riguarda l'oggetto della presente ricerca, si è pensato che il ruolo di
deviante, nel quale la tossicodipendente si identifica, influisca in modo
incisivo sull'immagine di sé e conseguentemente sulla codificazione del vissuto
corporeo.
Consci, al contempo, del fatto che uno stesso ruolo rimanda informazioni
diverse su sé stessi, a seconda della situazione (luoghi, tempi, interlocutori
ecc...) in cui viene "giocato" (Forgas & Van Heck,1994), sono state isolate due
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condizioni; la prima fa riferimento ad un "ambiente" che disapprova lo stile di
vita della tossicomane, ed è, nella maggior parte dei casi, rappresentato dai
famigliari, dai medici, dagli assistenti sociali ecc...; la seconda invece
contempla un "ambiente" non disapprovante, identificabile ad esempio con gli
amici del soggetto, "drogati" anch'essi.
Ci si aspetta che le due condizioni, rimandando alla ragazza tossicodipendente,
immagini diverse di se stessa, favoriscano anche differenti "traduzioni" del
vissuto corporeo. Si è inoltre pensato che questo possa avvenire anche quando
la ragazza si trova in un particolare stato psico-fisico, ovvero quando è "fatta" e
apparentemente non in grado di elaborare gli stimoli interni ed esterni.
Al fine di esplorare le proposte teoriche, la rappresentazione corporea della
tossicomane è stata indagata in cinque differenti situazioni:
1) QUANDO È SOTTO L'EFFETTO DELLA DROGA (EROINA).
2) QUANDO È IN CRISI DI ASTINENZA.
3) QUANDO NON È SOTTO L'EFFETTO DELLA DROGA E NON SOFFRE DI
CRISI DI ASTINENZA.
4) QUANDO È "FATTA" E SI TROVA IN UN AMBIENTE DISAPPROVANTE
IL FATTO CHE SI "BUCHI".
5) QUANDO È "FATTA" E SI TROVA IN UN AMBIENTE NON
DISAPPROVANTE IL FATTO CHE SI "BUCHI".
Le prime due condizioni forniscono una descrizione generale dell'esperienza
psicofisica che si produce sotto l'effetto dell'eroina, o in sua assenza una volta
che se ne è dipendenti; le ultime due invece, pur tenendone conto, non si
limitano a considerare il fattore sostanza stupefacente, ma cercano anche di
indagare come il ruolo di deviante, a seconda delle situazioni in cui si esplica,
influisca sulla rappresentazione di sé e quindi sulla lettura del vissuto corporeo.
Infine, la terza condizione, resa possibile dal fatto che i soggetti della ricerca
sono delle ragazze residenti presso una comunità per tossicodipendenti,
permette di cogliere le differenze tra il "prima" e il "dopo", fornendo un quadro
di come esse si percepiscono ora che hanno abbandonato la droga e che non si
riconoscono più nel ruolo di deviante. L'aver a che fare con persone in via di
recupero ha permesso, non solo di indagare il vissuto passato e quello presente,
ma anche di osservare come alcune variabili, opportunamente isolate, si
innestino su tale vissuto.
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Più specificatamente sono state prese in considerazione 1) L'età; 2) L'anzianità
d'uso; 3) Da quanto tempo la persona non si droga più; 4) Positività o meno
all'Hiv.
Uno spazio particolare è stato dedicato all'osservazione e discussione dei dati
prodotti dalle ragazze sieropositive, in quanto si è ritenuto che esse, in virtù
della loro condizione non ordinaria, potessero testimoniare un vissuto psico-
fisico ricco di peculiarità (Archetti & Corrao,1993; Bischetti, 1994).
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CAPITOLO PRIMO
INDICAZIONI TEORICHE
I concetti teorici che fanno da sfondo e che guidano questo lavoro di ricerca
possono essere così precisati:
1.1 L'INTERAZIONISMO SIMBOLICO
L'ottica interazionista non si interessa tanto dell'organismo psichico in quanto
entità autonoma, identificabile con l'individuo e basta, piuttosto focalizza
l'attenzione su quella dimensione psicologica che scaturisce sempre in un
processo di relazione (Ciacci,1983).
Come diceva George Mead (1966) « Per avere una mente ci vogliono due
cervelli in interazione ». Questa teoria si preoccupa pertanto di mettere in
evidenza che tutta quella vasta gamma di processi psicologici che le persone
producono, scaturiscono da una relazione (Meltzer, Petras & Petras, 1980);
naturalmente la relazione non è riducibile unicamente ad un processo
interpersonale basato sulla presenza di un soggetto, ma prevede anche la
possibilità di un'interazione con un'entità "altra" (situazione, oggetto, pensiero,
emozione, ecc...) che "testimonia", "rappresenta" la persona.
In ogni momento della nostra esistenza contempliamo nel nostro modo di
pensare, d'essere, di manifestarci, una polarità, un "compagno segreto", ossia
quello che viene comunemente chiamato l’"altro". Ad esempio, quando ci
apprestiamo a scegliere dal nostro guardaroba un vestito, lo facciamo
ponendoci in relazione con quel pubblico di persone significative all'interno del
quale vogliamo assumere una certa interpretazione e versione di noi stessi. Per
cui, anche in una situazione come questa di apparente "autonomia", di fatto, nel
dialogo interno, si manifesta sempre la presenza dell’"altro". È solo sulla base
dell’"altro" e quindi su un'interazione tra ruoli, tra possibili sé, che le persone
possono organizzare la loro animalità sociale.
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Non dobbiamo inoltre dimenticare che l'interazione ha un carattere simbolico e
questo secondo due accezioni che si integrano.
1) Le persone non si "incontrano" direttamente ma la loro comunicazione è
mediata da un complesso sistema di simboli: il linguaggio.
2) La relazione si esplica tra le varie menti, ovvero tra diversi simboli e
significati socialmente elaborati.
Possiamo così riassumere le premesse fondamentali sulle quali poggia
l'Interazionismo:
A) La persona è il prodotto di un'interazione.
B) La persona agisce verso gli oggetti sulla base dei significati che questi
hanno per lei.
C) Questi significati derivano dall'interazione sociale.
D) L'interazione, pur essendo giocata a livello di significati e simboli, ha
attraverso gli stessi dei risultati oggettivi.
E) I significati, socialmente elaborati e convenuti, sono modificati e manipolati
dal soggetto per influenzare l'interazione e i comportamenti.
Ne deriva pertanto l'immagine di un individuo consapevole e capace di un agire
pianificato, diretto ad uno scopo, guidato da regole, ruoli e convinzioni in
rapporto ad un contesto dotato di significato.
Il comportamento non è tanto causato da forze interne (istinti, pulsioni, bisogni)
o da forze esterne come quelle sociali; ma da qualche cosa di intermedio tra tali
forze, e cioè da un’interpretazione cosciente e socialmente derivata degli
stimoli interni ed esterni.
1.2 CONCETTO DI SÉ E RAPPRESENTAZIONE DI SÉ
Il concetto di sé è definibile come un insieme di categorie semantiche
rappresentate mentalmente dai concetti lessicali che concorrono a formare
l'idea che una persona ha di se stessa (Del Miglio,1988).
Il sé concettuale è una vera e propria teoria su sé stessi, caratterizzata da sistemi
di convinzione relativi al significato e valore (1) delle caratteristiche
psicologiche, somatiche e di ruolo, e (2) dai rapporti sé-mondo nell'ambito
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delle credenze attinenti alla psiche, all'anima, alla personalità che permeano il
senso comune e quanto esso mutua da filosofia, scienza e religione.
Il concetto di sé non è qualche cosa che fiorisce nella solitudine
autocontemplativa dello specchio interiore, piuttosto troviamo in tale specchio
solo quelle matrici autoconoscitive e quei contenuti che sono mediati da una
società storica, la quale ci ha già dato in anticipo le categorie per organizzare
quel materiale esperenziale-emotivo che abbiamo prodotto e produciamo. Il
concetto di sé è quindi una teoria privata nella quale però possiamo scoprire la
presenza di meccanismi culturali, di regole, di assunti che sono sedimentati e
trasmessi dalla società.
Il sé concettuale non è ovviamente indagabile nella sua globalità, affiorando in
quelle elaborazioni cognitive situate e settoriali meglio definibili come
"rappresentazioni di sé". Esse possono essere considerate come sottosistemi
del concetto di sé.
Le rappresentazioni di sé come esplicitazione di un processo autoconoscitivo
non sono indipendenti dal sistema di relazioni entro cui vengono prodotte.
Infatti la rappresentazione mentale che un individuo ha di se stesso deriva dalle
possibilità contenute nel concetto di sé ma è sempre situazionale, è sempre
legata ad un processo interattivo, ad una posizione di ruolo, ad un contesto, ad
un'azione, ad un episodio. Se il concetto di sé costituisce un'ipotesi teorica che
l'individuo si forma al fine di rendere l'interazione prevedibile e governabile, la
rappresentazione di sé ne costituisce la parte operativa, empiricamente
prodotta, proiettata nell'assunzione di ruoli e di volti di identità.
1.3 L'IDENTITÀ
È quel processo in base al quale noi creiamo un sistema di coerenze tra le varie
forme di auto rappresentazione dando loro un senso, un significato e
producendo anche una continuità storico-biografica.
" L'immagine di noi stessi che lo specchio delle situazioni del mondo ci rinvia
si sedimenta nella nostra memoria, dando retrospettivamente quel filo di ricordi
che tesse l'apparente continuità della nostra identità nel tempo". Difatti la
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cognizione di un'identità stabile e continuativa è solo il riflesso di tali ricordi
ricostruiti alla luce dei significati di oggi. Immagine di noi stessi ristrutturata
attraverso il presente che attenua o anche annulla le discontinuità, le
mutevolezze e le fratture dell'identità passata rispetto a quella presente"
(Salvini,1982).
Attraverso l'identità le persone non solo hanno un'esperienza cognitiva ed
emotiva di sé ma sono anche in grado di:
A) elaborare ed integrare in modo coerente l'informazione interna ed esterna
che li riguarda, per esempio quella somatica e relazionale;
B) codificarla sotto forma di memoria autobiografica, conferendo alla storia
soggettiva coerenza retrospettiva e continuità futura;
C) selezionare ed attuare i repertori di comportamento più adeguati alla propria
identità.
Tutto ciò non toglie che lungo il ciclo della vita l'identità sia biograficamente
mutevole, dovendo integrare sempre nuovi ruoli, situazioni, interlocutori
(Salvini, 1993); dal momento che la testimonianza che diamo di noi stessi e
delle vicende autobiografiche è sempre organizzata dall'identità in cui oggi ci
riconosciamo, la quale ci porta, in via privilegiata, ad utilizzare le informazioni
del passato alla luce dei nostri bisogni e dei nostri interessi attuali, è evidente
che avremo "virtualmente" tanti "passati" quante saranno le identità prodotte
nel tempo.
1.4 IL RUOLO
Il ruolo non è altro che una sequenza di azioni attraverso cui l'individuo rispetta
in maniera coerente e transitoria, con un occhio a se stesso e l'altro al pubblico,
un certo tipo di norme prescrittive-interpretative, adeguate a una situazione ed
ad una data rappresentazione del sé. Questa rappresentazione del sé non è
meccanica e standardizzata come l'idea del ruolo potrebbe lasciare ad intendere,
ma si avvale di una sottile arte interpretativa, ossia dell'autocontrollo da parte
dell'individuo attore. Il ruolo non è una sorta di artificio scenico, una maschera,
ma esige la partecipazione per non essere incongruente né screditabile (Salvini
1984).
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Il ruolo non esiste di per sé come una monade galleggiante, piuttosto ogni ruolo
ne reclama un altro ad esso complementare. Ad esempio il coraggioso non
esisterebbe se non vi fosse un pubblico interiorizzato che regge il vessillo della
codardia. Allo stesso modo lo studente evoca ruoli a lui complementari come
quello del professore, del libraio, del bibliotecario, ed anche della struttura
universitaria, infatti i ruoli non sono legati soltanto alle persone fisiche ma
anche ad entità più astratte e simboliche quali quelle istituzionali.
Quando ci troviamo in una posizione di ruolo, l'alter-ego, funzionale a tale
posizione, tende ad essere percepito in modo coerente e questa coerenza deriva
dal fatto che ci rappresentiamo l'altro in funzione di quello che siamo e ciò che
siamo non può prescindere dalla complementarietà con l'altro. A questo
proposito ricordiamo una ricerca di Salvini (1986) in cui si voleva vedere se
l'immagine del malato di mente fosse diversa in operatori della stessa struttura,
in funzione del ruolo ufficiale che questi occupavano rispetto al malato. Sono
stati pertanto confrontati assistenti sociali, infermieri, medici e psicologi; i
risultati hanno messo in evidenza che, pur facendo tutti parte della stessa
cultura psichiatrica, pur essendo convinti di parlare dello stesso malato di
mente, ciascuno dei protagonisti ricostruiva un'immagine del paziente
totalmente differente dalle altre categorie. Per cui ad esempio, a differenza
degli assistenti sociali, gli infermieri tendevano a percepire il soggetto molto
più malato, un malato quasi biologico, con scarsa capacità di intendere e di
volere.
È evidente che questa tendenza a medicalizzare il soggetto derivava agli
infermieri dal loro ruolo e, al contempo, li confermava nel loro ruolo.
Il concetto di ruolo può essere utilizzato con due accezioni: sociologica e
psicologica. 1) RUOLO IN TERMINI SOCIOLOGICI: corrisponde ad un
ruolo sociale istituzionalmente codificato (medico, sacerdote, poliziotto, padre
ecc...).
2) RUOLO IN TERMINI PSICOLOGICI: è meno definito, ha un aspetto più
privato e deriva in gran parte dalla posizione che la persona occupa nei
confronti di un referente particolarmente significativo per l'individuo stesso.
Per cui quando il sistema normativo di obblighi, di impegni e di corrispondenze
alle aspettative altrui viene maturato all'interno di un personaggio pubblico si
produce un ruolo sociologico. Si parla invece di ruolo psicologico allorché,
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nell'aspetto privato della relazione, si occupano delle posizioni, si sperimentano
dei ruoli, non espliciti, non dichiarati e non leggibili dall'esterno da chi non
faccia parte di quel particolare momento di relazione privata.
Ogni ruolo sociologico può contenere al suo interno molti ruoli psicologici;
inoltre generalmente i due tipi di ruoli sono complementari nel senso che
possiamo scoprire i nostri possibili ruoli psicologici, con tutta una costellazione
di emozioni e di comportamenti, all'interno di un ruolo sociologico. Ad
esempio una madre (ruolo sociologico) assume tutta la possibile gamma di
sottoruoli psicologici con i propri figli, utilizzando le varianti che sono già
iscritte nel ruolo sociologico che è chiamata ad occupare. Per cui le cose che
dirà, il tono di voce, l'atteggiamento, le sue preoccupazioni, il livello di ansietà,
sono in qualche modo preordinati entro la gamma delle possibili posizioni a cui
il suo ruolo di madre la consegna.
È evidente che all'interno di un ruolo sociologico ci possono essere posizioni
diverse e queste creano una flessibilità psicologica al ruolo tale che non è più
qualche cosa di rigido ma che ha una sua connotazione. Nella realtà i ruoli
sociologici sono elastici, flessibili, situazionalmente funzionali e malleabili dal
momento che sono discrezionalmente reinterpretati dalle persone in funzione
delle situazioni e relazioni in cui si trovano immerse.
Le persone generalmente prendono coscienza del fatto che sono legate ad un
ruolo, nel momento in cui sperimentano un sentimento di identità non
perfettamente collimante con il ruolo assegnato. Prendiamo, ad esempio, il caso
di una religiosa che è completamente trasportata dalla propria vocazione
mistica, che ha interiorizzato un certo dettato religioso fino alle estreme
conseguenze, entro cui si riconosce e ricava il proprio ruolo, ruolo
perfettamente incarnato nella sua voce, nella sua espressività, nella sua mimica,
nel suo modo di affrontare la realtà, nel modo di prodursi e nella
complementarietà con l'istituzione che la conferma costantemente; nel
momento in cui nasce un certo conflitto tra abito indossato e vocazione, ovvero
la vocazione viene meno, la religiosa incomincia a sentire gli obblighi di ruolo
come tali, non li condivide più e sperimenta l'artificiosità delle prescrizioni di
ruolo.
Il ruolo non è così deterministico e costrittivo come potrebbe sembrare, vale a
dire, le persone possono manifestare una certa libertà rispetto alle prescrizioni