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all’inizio degli anni Ottanta non si affidano alla narrazione lineare e
rifiutano il realismo, nonché i luoghi deputati al cinema, preferendo al
teatro la televisione e lo schermo di un computer. Probabilmente non si
tratta di una coincidenza se il genere del videoclip è nato proprio
quando gli strumenti elettronici si sono diffusi negli studi di produzione. I
video musicali costruiscono una forma di narrazione, ma non seguono
uno svolgimento lineare dall’inizio alla fine e pertanto si avvalgono di
immagini in pellicole o video, modificate però sino a negare le norme
tradizionali del realismo cinematografico. Le immagini costruite con
materiali eterogenei non sono più subordinate al realismo fotografico,
ma si basano su una nuova strategia estetica. Il genere del videoclip è
stato un vero e proprio laboratorio in cui sperimentare le nuove
possibilità offerte dai computer alla manipolazione fotografica,
giocando sullo spazio tra seconda e terza dimensione, pittura e realismo,
fotografia e collage. In sostanza, il videoclip è il libro di testo del cinema
digitale, costantemente in movimento e in espansione.
Non bisogna poi tralasciare l’aspetto commerciale. Memorizzare
visivamente un cantante e il suo video non vuol dire dare meno
importanza all'ascolto della canzone, anzi ne rafforza la memoria.
Questo è di estrema importanza in quanto garantisce un coinvolgimento
superiore da parte dello spettatore. Che è ancora maggiore se la regia
viene affidata a registi che sappiano coniugare la capacità della
fotografia, di far leva sulla percezione umana e su un maggior grado di
coinvolgimento, alle logiche del mercato che richiedono il ricorso al
videoclip.
Stephane Sednaoui nasce come fotografo con il sogno di diventare
regista, si presta al mondo dei videoclip quasi per caso e riesce a
diventare una delle figure più adatte a interpretare questa complessità.
La tesi vorrà analizzare proprio la capacità di Sednaoui di approcciarsi
alla regia di videoclip utilizzando la fotografia come base, riuscendo a
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convertirla in movimento in una continua ricerca espressiva tra musica e
immagini. Per farlo partiremo da un’analisi della forza espressiva della
fotografia, base essenziale per lo sviluppo dei lavori di Sednaoui,
approfondendo il discorso dal punto di vista cinematografico.
Successivamente ci sposteremo ad esaminare le nuove forme di
sinestesia tra l’apparato visivo e quello uditivo, gli audiovisivi. Lo sviluppo
principale del discorso riguarderà il videoclip musicale, considerandone
la sua nascita, il suo sviluppo in televisione, i meccanismi semiotici e
strutturali a esso sottesi e il suo linguaggio specifico.
Infine ci soffermeremo sulla figura di Stephane Sednaoui e su tre fra i suoi
lavori più significativi: Seven seconds di Youssou ‘N Dour, caratterizzato
dall’uso di un intenso bianco&nero e da decisi primi piani; For real di
Tricky, schizofrenico e molto fotografico; Possibly Maybe di Bjork,
caratterizzato da scelte cromatiche molto forti e da una non linearità
che si riconduce in una perfetta circolarità.
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1. DALLA FOTOGRAFIA AL VIDEOCLIP
1.1. La forza delle immagini
La fotografia è stata una delle invenzioni che più hanno inciso sulla
cultura e sul costume degli ultimi due secoli. Si è estesa al mondo
intero ed è penetrata in tutti i campi della vita; ha preso sempre
più coscienza critica del ruolo svolto e del significato assunto.
Questa scoperta, che sembrava consegnarci il mondo così
com’era, si è trasformata nella miglior prova della relatività e dei
limiti del nostro modo di vedere. Si è evoluta declinandosi in più
forme, è stata la base da cui si sono sviluppati il cinema e la
televisione prima, e, grazie all’avvento della multimedialità, gli
audiovisivi poi. Per questo motivo, è importante tracciare una
lettura semiotica della fotografia, in modo da comprendere da
dove prende le mosse ogni evoluzione artistica video-musicale.
Solo in seguito al discostamento dei pionieri della fotografia da un
puro atto del fotografare per sperimentare nuove tecniche di
stampa, si è iniziato a comprendere quanto questa peculiarità
non fosse poi così inequivocabile. Il fotografo ha infatti acquisito
col tempo la possibilità di poter oscillare tra una rappresentazione
fedele del reale e un distacco assolutamente soggettivo da
quest’ultimo, dovuto soprattutto all’avvento di tecniche di
distanziamento che già dai primi anni del Novecento venivano
indagate e utilizzate.
La fotografia è stata quindi sin dalle origini della sua invenzione
utilizzata in maniera ambivalente, per documentare la realtà o per
prendere le distanze da essa, in base a scelte di carattere estetico
o sociale. In entrambi i casi, è importante sottolineare quanto
questo mezzo abbia insite in sé caratteristiche che gli conferiscono
una grande forza espressiva. La realtà può essere “congelata” in
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un solo istante, e condensata su una superficie bi-dimensionale,
restituendo all’occhio umano anche l’idea del movimento.
L’immagine fotografica ha alla base studi precisi circa la scelta
del quadro, del punto di vista, dell’illuminazione e dei filtri da
usare; è necessaria la cura di ogni dettaglio per poter restituire
all’osservatore il pensiero del fotografo, che si palesa proprio
grazie al disvelamento di queste scelte. Una fotografia ha in sé
una forza espressiva particolare proprio perché riesce a essere un
documento immediato, universale, che non ha bisogno di
particolari codici condivisi tra l’emittente e il destinatario per poter
essere compresa. Un’immagine è tradotta in pensiero in maniera
istantanea, e può essere caricata di significati sempre diversi in
base al soggetto che la fruisce. A volte nelle immagini si cela una
potenza così forte da essere preferita, per la sua immediatezza,
alla forza insita nelle parole.
La fotografia, da un punto di vista pragmatico-concettuale,
contiene un potenziale intento semiotico: si trasforma in un segno
naturale nella sua fase interpretativa, nel momento della sua
fruizione
1
. La fotografia è contingenza assoluta perché le immagini
fotografiche possono essere ascritte agli indici deittici (o
commutatori). Questi segni non hanno alcun significato senza il
sostegno di un referente, sono esclusivamente un invito a
guardare in una determinata direzione e a colmare il vuoto di
significato tramite l’interpretazione. Questa indicalità estrema
conduce l’immagine fotografica in una dimensione enigmatica
che accosta la fotografia a una dimensione allucinatoria, la rende
prossima al modo dei sogni e al campo immaginario in cui è
l’osservatore a essere richiamato in causa in prima persona.
1
Cfr. J.M. Schaeffer, L'immagine precaria. Sul dispositivo fotografico, CLUEB
edizioni, 2006.
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La fotografia è infatti uno dei media di maggior impatto nella vita
quotidiana. Marshall McLuhan la considerava una delle estensioni
tecnologiche attraverso le quali l’individualità di ciascuno veicola
significati interagendo simbolicamente sia con se stessa che con
quella degli altri. Considerando l’individualità, e quindi il corpo
come soggetto fotografico, anche Roland Barthes analizza la
fotografia dal punto di vista semiotico. Il corpo viene sdoppiato
nell’immagine, la quale sembra essere esattamente quella che
appare, senza che altro debba essere aggiunto. In realtà il senso
profondo della fotografia va oltre l’apparenza della pellicola. La
fotografia per Barthes è un paradosso tra similitudine e diversità,
nel modo in cui ognuno di noi si identifica in quello che sta
osservando o ne prende le distanze rifiutandolo. La fotografia ha
infatti intrinseca una forte ipertestualità, attiva la capacità di
riconoscere nell’immagine una gran quantità di livelli di significato,
interattivi nella misura in cui chi la osserva è chiamato a
interpretarla.
La fotografia è l’unico genere di immagine in grado di trasmettere
un’informazione senza bisogno di regole di trasformazione. In
questo si differenzia dal disegno, che soggiace invece a regole
ben precise, prima fra tutte quella di non potere mai riprodurre il
tutto, ma di dovere scegliere cosa riprodurre. La fotografia ha un
compito di registrazione più che di trasformazione: tutti gli
interventi trasformativi sulla fotografia, dall’inquadratura alla
distanza, agli effetti particolari, appartengono al campo della
connotazione.
Barthes individua tre tipi di connotazione nell’ambito della
ricezione dell’immagine fotografica: percettiva, relativa al fatto
che nella coscienza che la riceve la fotografia viene colta da quel
metalinguaggio interiore che è la lingua; cognitiva, legata al
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rapporto tra la fotografia e il sapere di chi la legge; e ideologica o
etica, che riguarda le ragioni o i valori in atto nella lettura
dell’immagine. Chi ne fruisce sceglie di farlo per piacere o
desiderio, o per semplice interessa estetico. Per far questo bisogna
che il fruitore si ponga nei confronti dell’immagine fotografica in
maniera interessata. Per definire questo movimento “interessato”
verso la fotografia, o più precisamente il movimento della stessa
fotografia verso il soggetto che la guarda, Barthes utilizza la parola
punctum, da lui contrapposta allo studium, che designa invece
l’interesse culturale e storico per delle fotografie. Lo studium è
codificato, il punctum non lo è, è quel supplemento soggettivo
che si aggiunge al significato della foto e che è tuttavia già
presente al suo interno.
Il punctum rappresenta un supplemento della connotazione, uno
spazio di soggettività che, pur essendo sicuramente già delineato
nel modo in cui l’immagine si rivolge all’osservatore, non ha nulla
di obbligatorio dal punto di vista ideologico o assiologico, ma
inaugura una obbligatorietà passionale, nel senso duplice che il
soggetto patisce il suo senso ma contemporaneamente si
appassiona a esso.
Inoltre, la fotografia, più del cinema, più del documento video,
registra una memoria: registra un attimo privo di movimento, che
nel movimento del tempo non si perde, ma che si rende unico e
irriproducibile, pur potendosi tecnicamente riprodurre. Questo
rapporto unico tra memoria e automatismo che la fotografia
contempla è alla base del ruolo importantissimo che da sempre
questa arte riveste in tre pratiche essenziali della società di massa:
il giornalismo, la pubblicità, la moda.
La fotografia giornalistica si fonda sulla scoperta nel quotidiano,
nel banale, nella folla, finanche nella guerra come quotidianità,
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dell’elemento scioccante in grado di spezzare il rapporto tra
percezione e verbalizzazione. La fotografia giornalistica più bella è
quella che “lascia senza parole”, è il documento storico
accompagnato magari da una didascalia secca e descrittiva,
ma che parla molto più di questa. Si pensi, come esempio
estremo, alle foto dei sopravvissuti nei campi di concentramento
tedeschi ripresi all’arrivo delle forze alleate.
In pubblicità la fotografia mira a realizzare in un certo senso
l’inverso di questa situazione tipica della foto giornalistica che
“lascia senza parole” e ad accentuare invece all’estremo quella
che Barthes chiama connotazione percettiva, cioè la possibilità di
rendere immediatamente verbalizzabile l’immagine. In questo
genere di connotazione però sono possibili delle eccezioni
significative, come quando la costruzione fa saltare il rapporto tra
la percezione dell’immagine secondo stereotipie del senso e il
contenuto dell’immagine stessa.
Nell’ambito della moda, la fotografia organizza quello che
Barthes, nel Sistema della Moda, chiama il “teatro del mondo” su
cui si staglia l’indumento, vale a dire realizza le condizioni
attraverso cui la moda descritta può produrre un suo sistema
retorico di trasmissione di senso. Come nota Barthes, la fotografia
di moda accentua molto spesso la parodia del corpo. Questo può
realizzarsi sia come sottomissione piena della fotografia al
“significante” di moda, cioè all’indumento, sia, soprattutto nella
storia più recente della fotografia di moda, nell’accentuazione
dell’aspetto eccentrico quotidiano della fotografia presa “sulla
strada”.
Inoltre a fotografia di moda mette in scena la statuto paradossale
della moda stessa, vale a dire il fatto che, come nell’arte
fotografica, le regole dei segni della moda siano insieme
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l’“unicità” e la “riproducibilità”. Questa situazione si rende possibile
proprio in virtù del ruolo importantissimo che sia nella moda che
nella fotografia ricopre lo “stile”, l’insieme delle modalità
rappresentative e discorsive interne e specifiche di ciascun
sistema segnico, il campo cioè della connotazione.
Esistono tre componenti fondamentali che, coagulate tra loro,
determinano uno stile: l'una è di carattere generale, l'altra è
legata alla personalità dell'operatore la terza è determinata dal
soggetto. Il primo requisito, quello di carattere generale, è definito
nella stilistica classica in quella sezione chiamata elocuzione.
Nonostante tutte le regole che si potrebbero proporre, però, uno
stile è determinato essenzialmente dalla personalità di chi lo
esprime, in cui si riassumono i dati dell'esperienza storica, la
disponibilità di determinate attrezzature, le conoscenze, il
carattere, le idee e le convinzioni di ciascuno. In questo senso, lo
stile caratterizza e personalizza il lavoro di un uomo in modo che
esso giunga a differenziarsi da ogni altro. L'approccio ad un
soggetto è sempre estremamente personale: si tratta di scoprire,
all'interno dello strumento di comunicazione preferito, quali
momenti servono per tradurre un modo di vedere personale in un
modo di esprimersi altrettanto personale. Lo scopo primario a cui
tende il fotografo non è quello di trasmettere un messaggio
univoco ma di spingere lo spettatore a vibrare con le stesse sue
emozioni proprio attraverso un trattamento estremamente
personalizzato del soggetto. Propone se stesso e le proprie idee
non più con dei messaggi univoci comunicati attraverso il mezzo
fotografico, ma lo fa assumendo il proprio linguaggio come fine,
all'interno del quale il lettore viene spinto a riconoscere la novità,
l'efficacia espressiva, la potenza del sentimento, la sapienza
dell'articolazione.
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In questo caso la macchina fotografica registra qualcosa che va
al di là della scena spazio-temporale, mutandosi in mezzo di
“ascolto” dei soggetti fotografati, potendone anche registrare
una storia che sposti la visione al di là della pura e semplice
pellicola visibile. Da questa prospettiva, che permette all’autore
dello scatto di inoltrarsi in una nuova dimensione simbolica,
emerge una nuova percezione. Lo scatto fotografico scarta tutto
quanto non è ritenuto utile ai fini della rappresentazione visuale,
creando una sorta di “fuori campo”. Questo mondo escluso
dall’inquadratura, invece, esiste e significa. Può essere caricato di
un simbolismo tragico, in cui il reale messo in disparte è oggetto di
svariate ipotesi circa la sua esistenza. Questo “non visto” che
perviene a tutte le fotografie, le riveste di un alone misterioso e le
rende complici della rimozione di ogni eventuale “prima” e
“dopo”. Ogni autore propone quindi al suo pubblico delle
immagini che stimolano l’ipotesi di un percorso narrativo per
quella specifica raffigurazione. Ognuno potrà immaginare una
storia da collegare alla rappresentazione visuale che ha di fronte,
realizzando con essa un’intensa forma di comunicazione e di
interazione simbolica.
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1.2. La fotografia e il cinema
Il cinema racchiude in sé molte altre arti, per questo è anche
conosciuto come la settima arte. E le sue fondamenta sono
proprio basate sulla fotografia. Grazie al carattere ludico
dell’invenzione e alla curiosità di alcuni uomini di sperimentarne
forme sempre nuove di utilizzo, la scrittura con la luce si è evoluta
in lanterna magica
2
.
L'invenzione della fotografia ha posto le premesse per lo sviluppo
del cinema. Infatti, se si fosse trovato il modo di far passare davanti
all'obiettivo delle fotografie in successione si poteva riprodurre la
realtà. Sarà l'idea vincente dei fratelli Lumière.
Louis e August Lumière mostrarono per la prima volta al pubblico
del Gran Cafè del Boulevard des Capucines a Parigi, il 28
dicembre 1895, la loro invenzione: un apparecchio brevettato
chiamato cinèmatographe. Era in grado di proiettare su uno
schermo bianco una sequenza di immagini distinte, impresse su
una pellicola stampata con un processo fotografico, in modo da
creare l'effetto del movimento. Thomas Edison nel 1889 realizzò
una cinepresa (detta Kinetograph) ed una macchina da visione
(Kinetoscope): la prima era destinata a scattare in rapida
successione una serie di fotografie su una pellicola 35mm; la
seconda consentiva ad un solo spettatore per volta di osservare,
tramite un visore, l'alternanza delle immagini impresse sulla
pellicola. Ai fratelli Lumière si deve comunque l'idea di proiettare
la pellicola, così da consentire la visione dello spettacolo ad una
moltitudine di spettatori. Essi non intuirono il potenziale di questo
2
Il matematico olandese Crhistian Huygens nel 1659 inventò uno strumento che
egli stesso definì lanterna magica. Il meccanismo di funzionamento era intuitivo:
bastava inserire i disegni nella macchina perché questa li proiettasse su una
parete o su uno schermo appositamente predisposto.
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strumento come mezzo per fare spettacolo, considerandolo
esclusivamente a fini documentaristici. Nel 1900 i fratelli Lumière
cedettero i diritti di sfruttamento della loro invenzione a Charles
Pathè. Il cinematografo si diffuse così immediatamente in Europa
e poi nel resto del mondo. Le enormi potenzialità del mezzo come
intrattenimento di massa non tardarono ad essere meglio sfruttate:
i primi a intuire le sue reali capacità furono Georges Méliès in
Francia, e l'americano David W. Griffith il cui Nascita di una
Nazione del 1915 è il primo vero film in senso moderno e
rappresenta il culmine del cosiddetto cinema delle origini.
La possibilità di sincronizzare i suoni alle immagini, per aumentare il
grado di coinvolgimento del pubblico e il senso di realismo, era
allo studio fin dal 1920: ma per avere il primo film sonoro, Il
cantante di jazz, si dovette aspettare il 1927. La tecnica venne
perfezionata ulteriormente nel 1930, creando due nuove attività, il
doppiaggio e la sonorizzazione. Si impose il concetto di film come
racconto, come romanzo visivo: lo spettatore viene portato al
centro del film e vi partecipa con l'immaginazione, esattamente
nello stesso modo in cui, leggendo un libro, si ricostruiscono con
l'immaginazione tutti i dettagli non scritti delle vicende narrate. E
come nella narrativa, iniziano a emergere anche nel cinema dei
generi ben precisi: l'avventura, il giallo, la commedia, tutti con
regole stilistiche ben precise da seguire.
Questo salto qualitativo è reso possibile dall'evolversi delle
tecniche del montaggio, le quali, con il montaggio alternato, il
montaggio analitico ed il montaggio contiguo, permettono di
saltare da una scena all'altra e da un punto di vista all'altro, senza
che il pubblico resti disorientato dal cambio d'inquadratura,
rendendo quindi le storie molto più avvincenti, e diminuendo i
momenti di pausa narrativa.
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Verso il 1960 l'industria cinematografica attraversò un periodo di
crisi: negli Stati Uniti subiva sia la concorrenza della televisione, sia il
ricambio generazionale. Anche in Europa le case di produzione,
ancorate a un sistema di generi consolidato che fino ad allora
aveva dato buoni frutti, stentavano ad assecondare il
cambiamento. Iniziarono perciò ad affermarsi alcuni nuovi registi
indipendenti, già agguerriti critici cinematografici, come François
Truffaut, Alain Resnais e Jean-Luc Godard. Gli indipendenti nel
frattempo, fuori dagli schemi imposti dalle grandi case
cinematografiche, girati con pochi mezzi ma con grande
conoscenza del mezzo cinematografico, si rifacevano ad alcune
esperienze di avanguardia del periodo classico, come i film del
neorealismo italiano, di Sergej M. Eisenstein e di Orson Welles: in
quelle opere erano già state sperimentate gran parte delle
tecniche narrative di cui il nuovo cinema (soprattutto europeo) si
stava ora servendo. Nel cinema moderno allo spettatore non si
chiede di annullarsi nella storia, bensì di essere sempre presente e
conservare un certo distacco, interpretando ed elaborando quel
che vede: esiste cioè la volontà di far capire che ciò che si sta
guardando è una costruzione, una finzione. A questo scopo il
montaggio è a bella posta discontinuo, sincopato e sovente
evita di tagliare i tempi morti della storia, che dal canto suo
tralascia di spiegare ogni dettaglio di quel che accade. Può
capitare che gli attori guardino direttamente nell'obiettivo della
cinepresa, strategia vietata nel cinema classico, come accade
regolarmente nel cinema di Jean-Luc Godard, Federico Fellini o, in
tempi più recenti, in Pulp Fiction di Quentin Tarantino.
Il processo di allontanamento dalle istanze del cinema classico
avviato dalle neoavanguardie ha portato ben presto all’adozione
nella cinematografia di metodologie sempre nuove e sempre più