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Cap. I
Il viaggio: meta alla ricerca di sé stessi
Viaggiare allarga le idee in modo
mirabile e libera da tutti i pregiudizi
(Oscar Wilde)
Viaggiare: l‟andare, lo spostarsi da un luogo ad un altro, compiendo un
percorso di una certa lunghezza e durata.
Viaggiare: tragitto, percorso anche breve, fatto a piedi o con un mezzo di
trasporto.
Viaggiare. Andare. Spostarsi. Percorrere. Partire. Tornare.
Il viaggio rappresenta per ciascuno di noi qualcosa di intimamente legato
al nostro io, un andirivieni di corpi e idee e volti che portiamo dentro o che non
torneranno più. Viaggiare vuol dire scegliere di muoversi avendo uno scopo,
seppur non necessariamente una meta prestabilita e fissa. Viaggiare vuol dire
andare: in un luogo, lasciando quello dal quale si parte; verso qualcuno o
lontano da qualcuno; verso qualcosa, che sia esso chiaro e limpido o ineffabile
come il senso stesso del movimento.
Viaggiare vuol dire sentirsi liberi, felici, come conferma Alain De Botton
nell‟Arte di viaggiare: “se la nostra esistenza si svolge all‟insegna della ricerca
della felicità, forse poche cose meglio dei viaggi riescono a svelarci le
dinamiche di questa impresa, completa di tutto il suo ardore e di tutti i suoi
paradossi” (De Botton, 2002, p. 13).
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Ma questo atto può essere molto di più: muoversi pur restando fermi,
immoti, nel chiuso di una stanza, come fece Salgari, il famoso scrittore padre di
Sandokan, „la tigre della Malesia‟ che ha mostrato volti e caratteri di luoghi
nascosti soltanto nella brillante mente dell‟autore; o, come ci mostra Hugues De
Montalembert nello straordinario L‟estate perduta, l‟esperienza del viaggio può
andare al di là persino dei sensi: “E appena raggiunsi l‟età della libertà,
cominciai a percorrere le terre e i mari, con le mie chiavi in mano, determinato a
che nulla, nessuna porta, nessun mondo mi resistesse” (Montalembert, 1989, p.
35). Montalembert, infatti, viaggia a lungo e per tutti i continenti, descrivendo
colori e profumi di mondi che però non può che immaginare. E‟ completamente
cieco.
Persa la vista a causa di due rapinatori che colpirono il suo volto con degli
acidi, egli affronta la vita con il coraggio di chi non vuole smettere di esistere e,
dunque, vedere il mondo pur avendo perso il senso alla vista precipuo: si
sviluppa in lui un meccanismo di percezione visionaria della realtà che funziona
nel modo più immediato e gli permette di cogliere visi, paesaggi, sfumature di
colore, attraverso le quali comprendiamo che il senso del viaggio è il viaggio
stesso, l‟iter di uno sguardo che passa in rassegna il mondo con curiosità ed
emozione, anche se con lo sguardo non vede quello che noi vediamo.
Ma che forse sa, per questo, andare al di là delle apparenze: “oggi mi
accade di vivere la mia cecità come la chiave segreta, tragica, di quegli
orizzonti- scrive infatti l‟autore francese- La chiave che cercavo fin
dall‟infanzia. Il mio sguardo, rivolto ormai all‟interno, non incontra alcun limite,
tranne quello della paura. Perciò, con ironia e con un vago senso di orrore, dico
a chi mi interroga che ora vedo a perdita d‟occhio” (Ibid., p. 35).
Perché talvolta il viaggio non implica lo spostamento fisico, né il contatto
visivo con ciò che ci si pone innanzi, ma il passaggio verso un „non luogo‟ che
ci permette di andare oltre noi stessi, una sorta di otro mundo intimo che non
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preclude nessuna negazione e nessuna remora: “Si cerca un non luogo, da starci
e non esserci. Perché non sappiamo se ci siamo davvero, o se esserci è una
finzione” (Bevilacqua, 2006, p. 111 ).
L‟aumento della conoscenza geografica ha favorito il vivere quotidiano e
mutato le nostre abitudini: dall‟asinello alle carrozze, dalle navi ai treni agli
aerei, tutto è mutato con e nel viaggio. Persino tra ciò che ci si svela innanzi agli
occhi durante un tragitto, breve o lungo, ed i pensieri che si evolvono nella
nostra mente è avvenuto un cambiamento: in una società frenetica e sempre in
corsa come la nostra, il viaggio è diventato mezzo per raccogliere i pensieri ed
ordinarli e così “pensare riesce meglio quando parti della mente hanno obiettivi
diversi” (De Botton, 2002, pp. 58-59) e, persi fra le nuvole o su una distesa
d‟acqua, non possiamo fare altro che raccoglierci in noi stessi e, allontanate le
tensioni, scavare nel nostro io.
In un mondo sempre più variegato e mutevole, dove avere un punto fermo
è quasi un lusso per chi, perso dietro piccoli grandi drammi quotidiani e la
voracità di una tecnologia che tutto unisce e tutto separa, non ha più connotati
geografici ai quali appigliarsi, il viaggio (reale, sognato, virtuale) diventa quindi
l‟unico mezzo di evasione per potere stabilire un contatto con il proprio io e
trovare radici in un luogo (o non luogo) che si confaccia alla nostra
individualità.
Virginia Wolfe, nella bellissima introduzione a Viaggio sentimentale di
Sterne, ci mostra come sia possibile aderire integralmente all‟idea del viaggio
pur non spostandosi affatto: asserisce infatti che Yorik, protagonista del
romanzo dello scrittore inglese, nonché alter ego dell‟autore, viaggiava spesso,
si, ma soprattutto con il cuore, vivendo situazioni incredibili e sconcertanti,
dando un peso diverso ad ogni singolo gesto o caso poiché egli viaggiava “con
le emozioni del suo stesso cuore” (Sterne, 2002, p. 5).
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Ma, soprattutto, viaggiare vuol dire conoscere: aprirsi a mondi nuovi, a
nuove realtà, a verità altre dalle quotidiane e conosciute, diverse ed ignote da
plurimi punti di vista; educare sé stessi “al cosmopolitismo ed alla tolleranza”
(Scaramellini, 1993, p. 102).
Ciò accade in particolar modo nei viaggi a vasto raggio, in Paesi stranieri,
dove si ha la possibilità di comprendere la realtà geografica di terre dalla
struttura totalmente differente dalla nostra, analizzando costumi ed usi, assetto
economico e spaziale che riconosciamo come “altri”.
Il viaggio è infatti legato alla ricerca dell‟altro da sé: vogliamo
conquistare nuovi lidi e conoscere nuove persone, fuggire dall‟ordinario e
confrontare la nostra identità con un‟identità altra (Milani, 2005, pp. 36-37).
Ovviamente, la prima forte difficoltà nell‟interagire con un popolo altro
dal nostro è quella linguistica, tanto più che la lingua si caratterizza per l‟essere
elemento vistoso nella differenziazione culturale in quanto “serve a
contrassegnare il gruppo e renderlo distinto da quelli che hanno un‟altra cultura”
(Caldo, 1999, p. 293).
D‟altro canto è necessario superare questo scoglio per potere interagire
con gli insiders di un posto nuovo, poiché sono proprio le orme orali che
permettono di “analizzare come la descrizione di una città si co-costruisca tra gli
interlocutori”
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(Mondada, 2000, p. 3) in modo talmente intrinseco che, talvolta,
è persino possibile „negoziare‟ l‟immagine stessa del luogo, convenendo su
determinati punti o disapprovandone altri. Superato questo ostacolo, però, il
viaggiatore potrà fruire delle bellezza della novità del luogo sconosciuto
secondo il suo gradimento, prediligendo come meglio crede gli aspetti di un
territorio sconosciuto ed inesplorato.
1
“Les formes orales et interactives permettent d‟analyser comment la description de la ville
se co-construit entre les interlocuteurs, est perfois négociée entre eux, prend sens en
s‟appuyant sur le discours de l‟autre et en enchaînat sur lui, au sein d‟une organization
séquentielle proper au déroulement temporal de l‟interaction” (Mondada L., 2000, p. 3).
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Infatti, esaminati lo scopo, la meta ed il modo di accostarsi ad un nuovo
territorio, possiamo distinguere varie tipologie di atteggiamenti del viaggiatore
(Scaramellini, 1993, pp. 89-91):
Estetico, se colui che si propone un‟analisi del luogo lo fa in
relazione a canoni meramente estetici, ovvero dandoci descrizione
del paesaggio, dei caratteri somatici degli individui, immagine
tradizionale della società.
Culturale-artistico, qualora il giudizio proposto riguardi i canoni
qualitativi relativi alla produzione artistica, letteraria, musicale etc.
del Paese visitato.
Scientifico, quando il viaggiatore si propone di fare delle
osservazioni in campo naturalistico o antropico, o usa strumenti di
indagine analitici e sintetici.
Ideologico, ovvero il compiere un‟analisi del luogo sconosciuto nel
senso „fisico‟ ma analizzato preliminarmente dal punto di vista
culturale, in relazione al sostegno di assunti e tesi che si vogliano
smentire o dimostrare.
Il diverso atteggiamento nel viaggio può ricongiungersi alle varie
tipologie del viaggiatore che Sterne, in modo ironico, classifica in relazione ad
“infermità di corpo, imbecillità di mente, inevitabile necessità” (Sterne, 2002, p.
97), spiegando poi che sarebbe meglio restare nella propria dimora piuttosto che,
spostandosi, rischiare d‟incorrere in situazioni spiacevoli.
Eppure quell‟inevitabile necessità, quella imbecillità, mentale o fisica che
sia, è una forza inarrestabile che spinge l‟uomo al movimento.
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Ma perché si intraprende un viaggio? Quale ancestrale desiderio ci spinge
ad affrontare chilometri e chilometri, oltre ai cambiamenti delle nostre
abitudini?
Nelle Opere e i giorni, Esiodo si rivolge al fratello Perse affinché, facendo
tesoro dell‟esperienza del padre, tenga presente una serie di avvertenze, nel caso
in cui dovesse prenderlo “il desiderio di una pericolosa navigazione” (Cordano,
1992, p.7), ovvero se subirà il fascino del mare in modo tale da non riuscire ad
evitare un lungo e faticoso viaggio con la sola mira della conoscenza.
Infatti, se inizialmente l‟uomo, con scarse possibilità di modificare
l‟ambiente circostante, si adattò a vivere di ciò che il suo territorio poteva
offrirgli, coltivando e cacciando in uno spazio che riteneva il suo, e tale spazio
veniva considerato come una sorta di dono che doveva essere rispettato e
utilizzato per ottenerne il necessario, successivamente cominciò a spostarsi per
provvedere ai suoi bisogni che, magari a causa di carestie o di guerre, non
potevano più essere soddisfatti da luoghi che sembravano divenire sempre più
ristretti, accedendo così a territori nuovi che potevano essere sfruttati in plurimi
modi.
Già nel VIII secolo a.C. gli antichi greci si muovevano alla ricerca di
nuovi territori da esplorare, spinti soprattutto dal bisogno di materie prime quali
l‟argento, il ferro, lo stagno e l‟ambra e, al di là della mercatura e della mera
sopravvivenza, nel VI a.C. i greci cominciarono, seppur raramente, a navigare
per scopi sacri o pubblici, oltre che militari (Ibid. p. 12-13).
Così, con il passare dei secoli e la miglioria dei mezzi a sua disposizione,
l‟uomo “da coabitante si trasforma in inquilino” (G. Andreotti, 1994, p. 45)
della terra, cominciando a pretendere da essa ciò che prima ringraziava di avere.
L‟acquisizione di conoscenze atte allo sfruttamento dei territori modificò
notevolmente il rapporto dell‟uomo con lo spazio, ormai divenuto schiavo di un
signore ingrato.
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Dai brevi tratti di viaggi in cerca di terre da utilizzare per le sue necessità,
in seguito, si passò alla sete di conquista: possedere spazio equivalse ad avere
potere.
Infine, oggi, ci si muove essenzialmente per bisogno (lavorativo, per
esempio) o, sempre più spesso, per mero piacere.
Per evadere; andare oltre il quotidiano; riscoprire sé stessi.
Cambiano le necessità, mutano i tempi, però costante rimane la voglia di
lasciare il proprio ambiente, di esplorare nuovi territori.
Forse perché l‟uomo è un soggetto autocosciente, sociale, in grado di
manipolare il materiale così come lo spazio che lo circonda (Costa, 2005, p. 21),
ed ha dunque bisogno di mettersi alla prova per constare e superare i suoi limiti,
per capire fin dove il suo sapere possa arrivare.
La conoscenza, infatti, è uno dei principali motori che spingono l‟uomo
allo spostamento: rapportarsi ad altre culture, ad altre mentalità, ad usi e costumi
diversi dai propri è il mito di chi si prepara a scoprire ciò che, essendo incognita,
lo affascina.
Ma principalmente ciò che il viaggio implica è la conoscenza dello spazio
e, nel medesimo tempo, esso è “moltiplicatore di queste conoscenze”
(Scaramellini, 1993, p. 83) in quanto è insito nel viaggiatore l‟essere portatore
delle nozioni aprioristiche relative ad un luogo ed essere altresì diffusore di
quelle acquisite che, dunque, divengono patrimonio comune.
Ma per affrontare tale compito è necessario letteralmente partire dal
proprio luogo ed essere proiettati e pronti all‟idea di recepire i territori altri,
avere coscienza della nostra componente identitaria relativa allo spazio che ci fa
percepire altro un popolo che non condivide la medesima territorialità.
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Quello di territorialità è un concetto molto personale, definito in relazione
a componenti individuali e collettive, che prescinde dall‟idea di luogo inteso
esclusivamente come spazio determinato. Siffatto concetto implica un‟idea tale
per cui le relazioni siano strettamente legate all‟ambiente fisico (Bianchi, 1987,
p. 83), ma la territorialità è innanzitutto “mentale”: ogni individuo, per orientarsi
nello spazio, sceglie liberamente degli assi strutturanti (Bailly-Costantino, 1987,
p. 353), ovvero delle strade che, interagendo fra loro, creano dei punti di
riferimento mentali in relazione ad una rete endogena (cioè scelta
individualmente), che da vita all‟idea del luogo come spazio fisico.
Ma vi sono anche coordinate di carattere estremamente diverso, relative
agli aspetti simbolici o storici o culturali del posto e, dunque, in tal senso, il
territorio acquisisce molteplici significazioni che, attraverso il loro svelare
strutture socio-culturali specifiche, denotano un luogo altro da quello fisico.
L‟esempio del legame tra l‟immagine della libertà, costruzione psicologica, e la
Statua della Libertà, oggetto posto in uno spazio concreto, serve a dimostrare
come un simbolo si trasformi con l‟esperienza: di fronte all‟oggetto ricordiamo
l‟idea, e da lì ciò che si sviluppa è una serie di pensieri collaterali che ci portano
a dare determinati giudizi; dopo una visita a questa statua l‟individuo la
identificherà con gli Stati Uniti d‟America, Paese della libertà (Ibid. p. 352), e
dunque la statua assurgerà a valore di simbolo identificando il grande Stato
come quello della libertà.
Se, per fare un altro esempio, seguissimo lo svolgersi muto di un
telegiornale che mostra l‟immagine della Statua della Libertà e, di seguito,
quella di un carcere, probabilmente scinderemmo nel nostro inconscio le
immagini associandole a due diversi servizi giornalistici dimostrando, con
questa convinzione, che le immagini del video ci stanno mostrando la
contrapposizione fra ciò che appare e ciò che realmente è, fra un‟idea dettata da
un simbolo e la verità che il simbolo incarna in sé.
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Dunque talvolta il reale ed il simbolico s‟intersecano nell‟immagine di un
luogo che è frutto del nostro pensiero, luogo mentale ma non reale che pervade
il nostro io fin quasi ad esistere; luogo che rasenta il non-luogo e lo colma;
luogo creato, immaginato, cercato.
Pertanto, ciò che ci spinge a lasciare un posto in favore di un altro ha in sé
una mistione di motivazioni legate sia alla stessa idea di territorialità che, altresì,
al nostro personale sentire, poiché possiamo concordare con Rabizzani quando
dice che “ogni sentimento varia per le influenze esterne e non è mai lo stesso”
(Rabizzani, 2002 p. 65) e dunque, per la proprietà commutativa, ogni influenza
esterna varia il nostro sentire.
Ciascuno di noi, infatti, rincorre costantemente l‟idea di una vita felice, di
una serenità, di un benessere da trovare ad ogni costo; ed in ogni luogo.
Ma un luogo nuovo può davvero condizionare i nostri pensieri?
Alain de Botton asserisce che “la nostra capacità di essere presenti in un
luogo [raggiunge] il grado massimo quando non dobbiamo affrontare la sfida di
doverci stare davvero” (De Botton, 2002, p. 27) poiché, ovunque ciascuno di noi
vada, comunque porta dietro sé il suo essere, i suoi pensieri, le sue angosce. Se è
facile dimenticare sé stessi davanti a descrizioni pittoriche o verbali di posti
lontani, infatti, diverso è il trasferimento vero e proprio, anche se per pochi
giorni: la diversa temperatura, le abitudini alimentari divergenti, persino un letto
scomodo possono contraddire le nostre attese e tradire le nostre aspettative
(Ibid., pp. 24-25).
Ciò che conta, secondo l‟autore francese, non è la meta o lo spazio che
percorriamo o il posto dove stanziamo, perché “lo stato della volta celeste e
l‟aspetto esteriore dei nostri alloggi non avrebbero mai il potere, da soli, di
minare la nostra gioia o di condannarci all‟infelicità” (Ibid., p. 29).
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Eppure “Sono le vie più remote che portano più vicino a te stesso”
(Tagore, 2007, p. 50) scriveva Tagore, un secolo fa; ed oggi noi, attenti ad
osservare la volontà del saggio filosofo indiano, siamo disposti a tutto pur di
trovare il nostro posto nel mondo, in un luogo da poter definire come quello dei
nostri sogni e che esaudisca ogni nostra esigenza.
Tale soddisfacimento equivale a raggiungere un ottimale livello della
qualità della vita, concetto fortemente soggettivo e peculiare.
Già nell‟antico mondo greco si cercava una spiegazione razionale
all‟incidenza del clima sulla vita dell‟uomo: Ippocrate, nel suo corpus, inserisce
un trattato dalla discussa paternità, Dell‟aria, delle acque e dei luoghi, che tende
a spiegare il ruolo che può avere la geografia sull‟origine delle malattie (per
esempio i venti dell‟est vengono raramente considerati portatori di malattie,
mentre i malsani venti dell‟ovest sconvolgono le città trasportando con la loro
foga gravi malanni), o come la peculiarità climatica possa influenzare il carattere
di un popolo (per esempio in Asia, per via delle rare escursioni termiche, gli
abitanti sono più sani ma meno vigorosi, in Europa, invece, le popolazioni sono
più forti perché abituate alle frequenti mutazioni climatiche e alle malattie da ciò
derivanti) (Cordano, 1992, pp. 71-72).
Anche oggi quella della qualità della vita non è più semplicemente
un‟idea legata all‟appagamento dei bisogni materiali, bensì ad una serie di valori
quali, per esempio, “l‟aria pura, il verde, l‟acqua, il silenzio” (Caldo, 1996, p.
241); tutti elementi che negli anni scorsi non venivano nemmeno presi in
considerazione ma che, oggi, sono ritenuti necessari per lo star bene e, rincorsi
costantemente, vengono ricercati in ubicazioni spesso lontane dalla città. Certo
non tutti possono permettersi il lusso di scegliere come e dove vivere, ma
potendolo fare ciascuno ricerca l‟idillico ideale del posto perfetto nel quale
regnano sovrane la quiete ed il relax. Ed alcune tipologie spaziali sono tanto
ambite che, per coloro i quali un trasferimento è impossibile, quasi obbligato
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diviene il tragitto domenicale, o nei giorni di riposo, verso mete che, almeno per
qualche ora, ricreino in noi l‟idea di paradiso, di appartenere ad un luogo altro e
migliore del quotidiano.
Ciò non vuol certo dire che non si debba tenere in conto il valore del
consumo, ma bisogna altresì considerare l‟accessibilità spaziale ai beni predetti
e la disponibilità dei consumi sociali; lo spazio infatti assume il duplice compito
di assurgere a valore affettivo, connesso alle conseguenze socio-territoriali, e
patrimoniale, in altre parole riconducibile al valore economico (Pollice, 2005, p.
84), pur se principalmente assurge a miraggio rendendo determinati posti luoghi
di vero e proprio pellegrinaggio.
Dunque il territorio non deve più essere semplicemente sfruttabile, ma
essere piacevole, a dimensione d‟uomo, perché “fonda il suo funzionamento
sulla capacità delle figure utilizzate di colpire l‟emozione” (Mangani, 2005, p.
563). Rilevanti divengono dunque la reale situazione dell‟ambiente e la meta
desiderata, ovvero la condizione di vita che collettivamente si vorrebbero
raggiungere (Caldo, 1996, pp. 242- 245).
D‟altro canto, “dalla casa in cui abita e dal quartiere in cui vive ci si fa
un‟idea della natura e del carattere di una persona” (Benjamin, 2007, p. 41), e
possiamo facilmente intendere che quello che ciascuno cerca, nella affannosa
attesa del luogo ideale nel quale vivere, è la più profonda ricerca del proprio io,
la voglia di proporre e vivere in libertà la propria identità in un posto che ci
rappresenti e, oltre ad essere un mezzo grazie al quale stare bene, sia il modo
attraverso il quale possiamo dimostrare agli altri cosa vogliamo, quanto valiamo
e, soprattutto, chi siamo.
L‟incognita della nostra identità è un problema cruciale in tempi in cui la
visibilità sembra essere tutto; dare mostra di sé è diventato un business
socialmente riconosciuto e necessario per uscire dalla massa anonima che ci
circonda, appiattita su vite prive di stimoli. Persino nel romanzo di Roberto
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Saviano, sua prima opera già best sellers, leggiamo che i boss della camorra
napoletana, che scaricano abusivamente ogni tipo di merce nelle campagne
napoletane, in quelle stesse campagne costruiscono “dimore fastose e assurde,
dacie russe, ville hollywoodiane, cattedrali di cemento e marmi preziosi che non
servono soltanto a testimoniare un raggiunto potere ma testimoniano utopie
farneticanti, pulsioni messianiche, millenarismi oscuri” (Saviano, 2006,
Prefazione).
Dunque il luogo diviene rappresentazione dell‟io: io sono ciò che abito, la
terra che mi circonda, lo spazio che possiedo. La mia identità è il territorio che
ho a disposizione, e che posso mutare in relazione ai miei bisogni.
Ed in effetti l‟identità, in quanto prodotto socioculturale, può essere
concepita come elemento plasmante degli assetti territoriali e, nel medesimo
tempo, rappresenta quei legami di appartenenza che creano il territorio. In
particolare, oggi, il concetto di identità territoriale ha acquisito un posto
primario nell‟analisi geografica in relazione all‟idea di spazio vissuto. Per spazio
vissuto deve intendersi “quel momento di integrazione che coniuga al suo
interno la dimensione fisica dello spazio geografico e quella sociale dello spazio
relazionale” (Pollice, 2005, p. 76); in tal caso lo spazio non è più sfondo
dell‟azione umana ma diretta rappresentazione di essa.
Quindi il territorio diviene uno spazio relazionale che si costruisce nel
tempo ed in virtù del rapporto che si viene a creare fra una comunità e lo spazio
stesso nel quale questa si insedia: l‟identità geografica è infatti, prima di ogni
altra cosa, il risultato di un processo cognitivo ed il territorio può diventare tale
solo se gli attori locali si identificano con esso.
L‟identità territoriale, che non può essere riduttivamente letta come mera
manifestazione dei segni esteriori lasciati sul territorio (ovvero elementi simbolo
quali statue, musei, stadi, strade, edifici), ha caratteristiche peculiari che la
contraddistinguono:
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A) è dinamica, poiché muta nel tempo, oltre che nello stesso spazio,
facendo si che non si verifichi una cristallizzazione delle identità storiche, ma
una continua riflessione evolutiva che permetta comunque di inquadrare i valori
condivisi (Ibid., pp. 77-83 );
B) è riflessiva, in quanto dipende da un processo di identificazione che si
disvela nel riconoscersi appartenenti ad uno spazio vissuto proprio e diverso da
quello altro, che tende ad accentuare la differenza fra gli insiders legati da
comuni valori simbolici e gli outsiders, che invece non li condividono (Ibidem).
Tuttavia non esistono elementi standard che caratterizzano il senso
comunitario: gli italiani appassionati di calcio, per esempio, saranno uniti dalla
passione per il gioco tanto da esaltare la loro Patria come quella della squadra
dei campioni del mondo; coloro che sono particolarmente religiosi
contraddistingueranno nella presenza del Vaticano l‟elemento più importante
d‟Italia; gli amanti della cultura vedranno nella componente artistica,
architettonica, letteraria, il punto di giocoforza italiano.
In effetti durante il processo di formazione dell‟immagine del territorio la
maggior parte dei valori che entrano in gioco sono quelli, del tutto personali,
psicologici e mentali, che permettono di costruire l‟idea dell‟appartenenza ad un
gruppo ed agiscono come filtro nel processo di percezione dei fenomeni spaziali
(Scaramellini, 1993, p. 29): l‟iterazione tra due strutture quali quelle celebrale ed
il territorio delle società umane “avviene attraverso la mediazione di un universo
di fatti simbolici” (Guarrasi, 1994, p. 10). Sono dunque tali fattori a determinare
un senso di identità in ciascuno di noi, e tale condizione può “essere fonte non
semplicemente di orgoglio e felicità, ma anche di forza e sicurezza nei propri
mezzi” (Sen, 2006, p. 3) poiché la comunità “definisce non solo quello che
hanno in quanto concittadini, ma anche quello che sono, non una relazione che
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essi scelgono, come un‟associazione volontaria, ma un legame che essi
scoprono, non un mero attributo, ma un elemento costituente della loro identità”
(Sandel, 1994, p. 23).
Ciò non toglie che l‟identità non sia sempre necessariamente legata a tale
idea di comunità e che anzi, spesso, il viaggio rappresenti la volontà di evasione
da un mondo precostituito.
La filosofia comunitarista, per esempio, non si limita a porre l‟importanza
dell‟appartenenza ad un gruppo comunitario, ma considera tale appartenenza
come basilare per l‟uomo, quasi come se questa fosse una estensione dell‟io di
un individuo: l‟uomo esiste in quanto è uomo nella comunità. Si asserisce
dunque che nell‟identità di un individuo la propria comunità debba essere
l‟elemento dominante, sostenendo altresì che l‟individuo non abbia accesso a
concezioni di identità indipendenti dalla comunità in quanto i suoi modelli di
pensiero derivano direttamente dal background sociale, e che l‟identità
comunitaria è tale da surclassare quella più intima e personale del nostro
inconscio (Sen, 2006, pp. 35-36).
Ciò è già chiaramente contraddetto dal senso stesso dell‟esistere del
viaggio: se davvero la teoria comunitarista fosse corretta, l‟uomo, prediligendo
ed esaltando la comunità di appartenenza, non dovrebbe nemmeno percepire lo
stimolo dello spostamento, la volontà di relazionarsi a culture diverse per
comprenderne i meccanismi i farli propri. Ciò implicherebbe dunque una sorta
di chiusura mentale tale non solo da minare la vastità di orizzonti che oggi,
grazie alla possibilità dei mezzi di comunicazione e di spostamento, ci sono
propri, ma farebbe sì che si incorresse nell‟assurda teorizzazione di una élite
culturale (la propria) diversa e superiore alle altre.
Inoltre, per quanto atteggiamenti culturali e convinzioni basilari possano
influenzare le nostre scelte, indubbiamente non possono avere potere tale da
determinarle in toto: pensare l‟identità “e prendere decisioni sull‟identità