Si pensi ad esempio, ai simboli di appartenenza etnico – religiosa, come il velo
islamico o a quelli più esplicitamente confessionali come il crocefisso.
Un nodo cruciale per la neutralità della Stato contemporaneo è senza dubbio
rappresentato dalla giusta proporzione da attribuire all’esigenza dell’individuo di
mostrare la propria appartenenza religiosa da un lato e dall’altro al rispetto delle
convinzioni dell’altro.
Il principio di laicità viene proposto sempre più in maggior misura come l’ago della
bilancia che sta tra la sfera privata e i pubblici poteri sia nella legislazione dei singoli
Stati sia nella Giurisprudenza delle Corti Nazionali ed europee.
Ad un’osservazione di tipo individualistico, la questione dell’esposizione di simboli
religiosi ruota attorno al presupposto che un’effettiva tutela del diritto di libertà
religiosa richiede oltre al riconoscimento del diritto di non dover dichiarare la propria
fede d'appartenenza, anche quello di non subire alcuna forma di limitazione
nell'esternare tale appartenenza. Manifestare la propria adesione ad un credo piuttosto
che ad un altro attraverso le port di simboli religiosi specialmente se ostentatori,
senza mettere in discussione la “laicità” dello Stato, può condurre, in alcuni casi, a
condotte vietate, quali, ad esempio, quelle connesse con la difficoltà per i Sikh di
rispettare l'obbligo dell'uso del casco per la guida dei motocicli a causa del turbante.
Modificando il punto di osservazione, collocandosi nella prospettiva dello Stato si
presentano alla nostra analisi tutta una serie di nuovi interrogativi. Può uno Stato non
confessionale utilizzare simboli religiosi negli uffici pubblici? E quando è possibile
affermare che un simbolo abbandona la sua connotazione religiosa per trasformarsi in
un elemento del patrimonio storico culturale della società?
Il dibattito intorno ai simboli religiosi investe ormai tutta l’Europa. Il contrasto nasce
dalla presenza, in contesti sociali che fanno della laicità dello Stato un punto cardine,
di minoranze per le quali il proprio credo diventa un “elemento essenziale nella
costituzione dell’identità”
1
.
1
Vedi S. Mancini, La contesa sui simboli:laicità liquida e protezione della Costituzione, p. 113
CAPITOLO I
DIRITTI UMANI E RELIGIONE: LA QUESTIONE DEL VELO ISLAMICO
L’hijab è una delle tante forme di velo islamico
2
. Velarsi per una donna musulmana
può voler dire non soltanto coprirsi la testa ma anche tutto il resto del corpo,
compreso, in casi estremi il volto, in modo tale da nascondere completamente la
figura femminile
3
.
La forma più estrema di velo è infatti il burqua, che è un vestito lungo fino ai piedi
che nasconde completamente il corpo della donna ad eccezione delle mani. Anche gli
occhi sono coperti da una garza che permette alle donne di vedere all’esterno ma non
il contrario.
In alcune società il velo mette in evidenza lo status, la classe sociale, l’affiliazione
politica o quella religiosa.
Il velo rappresenta anche, in alcuni contesti, una forma di controllo sulle donne in
termini di diritto al lavoro, all’istruzione, allo svolgimento di attività politiche e
sociali e alla salute
4
.
Il termine hijab nel Corano sta ad indicare una sorta di tenda spaziale che divide e
garantisce alla donna la giusta privacy.
Il Corano dice: « Dì ai credenti che abbassino gli sguardi e custodiscano le loro
vergogne; questo sarà per loro, cosa più pura, ché Dio ha contezza di quel che essi
fanno. E dì alle credenti che abbassino gli sguardi e custodiscano le loro vergogne e
non mostrino troppo le loro parti belle, eccetto quel che di fuori appare, e si coprano i
seni d'un velo e non mostrino le loro parti belle altro che ai loro mariti, o ai loro padri
o ai loro suoceri o ai loro figli... »
5
.
2
Vedi G. Anwar e L. Mc Kay, Veiling, in R.C. Martin, Encyclopaedia of Islam and the Muslim world, vol II, New
York, Macmillian, 2004, p. 721 – 722
3
Vedi F. El Gundi, Veil: modesty, privacy and resistance, Oxford, Berg, 1999
4
Vedi N.J. Hirschmann, Western feminism, Eastern veiling, and the question of free agency, Constellation, 1998, p.
345 – 368
5
Cor. XXIV, 30-31
Questi due versetti coranici contengono due prescrizioni fondamentali per ogni buona
musulmana:
- una donna non deve mostrare la propria bellezza se non agli uomini che fanno
parte della sua stessa famiglia (padre, marito e figli...);
- una donna deve coprire le proprie parti belle.
L'interpretazione del secondo versetto (v. 31) suscita non poche difficoltà su quali
siano effettivamente le parti belle da coprire. Su questo secondo versetto nel corso dei
secoli di storia dell'Islam si sono soffermate le diverse interpretazioni, a volte
tradizionaliste a volte moderniste, sull'uso del velo nelle società arabo-islamiche.
Infatti il concetto di velo è differentemente inteso a seconda delle varie società
musulmane
6
.
Il velo è un simbolo con una pluralità di significati. L’emancipazione della donna può
essere espressa sia indossando il velo che non indossandolo. Può essere un simbolo
religioso, ma anche laico e può rappresentare la tradizione o la modernità
7
.
Nel moderno mondo musulmano in generale, e dentro le scuole in particolare,
l’interpretazione del simbolo “hijab” assume sfumature le più svariate
8
.
In Tunisia e in Marocco, ad esempio, si è stabilito che indossare l’hijab non
costituisca un obbligo per tutte le donne.
Questo avviene anche in uno Stato come l’Uzbekistan a forte tradizione islamica.
Il dibattito sul velo che ha coinvolto diversi Stati, anche europei, nel ventunesimo
secolo appare di poca rilevanza se si considerano i ben più gravi problemi di
emancipazione che le donne si trovano a dover affrontare in materia di istruzione,
salute, violenze domestiche e povertà.
Ci sono anche altre fedi che prescrivono ai propri praticanti di indossare degli
indumenti particolari. Per questo viene da chiedersi come mai solo il velo islamico
rappresenti un problema o addirittura un pericolo per le società occidentali
9
.
6
Vedi L. Abu – Odeh, Post – colonial feminism and the veil: considering the difference, Feminist Review, 1993, p.
26 – 37
7
Op. cit. n°3, p.4
8
Vedi H. Bielefeld, Muslim voices in the Human Rights debate, Human Rights Quarterly, 1995, p. 587 – 617
9
Vedi Leyla Şahin v. Turkey
Sicuramente molti reagiscono di fronte all’hijab in maniera positiva. Ma più spesso il
velo è visto in maniera negativa come uno strumento di oppressione sulle donne,
come simbolo dell’estremismo di stampo religioso o come simbolo politico, di
evidente fallimento delle politiche di integrazione, legato al concetto di “guerra
santa”
10
e di terrorismo
11
.
Il velo serve a contraddistinguere una donna di fede musulmana come tale, ma non
esiste nessun simbolo che contraddistingua l’uomo appartenente a questa fede.
Nei Paesi in cui le donne indossano il velo esiste una forte struttura patriarcale. Sono
gli uomini, in particolare i leaders religiosi, ad imporre questo simbolo alle donne.
Nei Paesi occidentali si è spesso spinti a considerare il velo come simbolo
dell’arretratezza culturale di certe zone del mondo
12
.
D’altro canto nei Paesi a matrice islamica il velo è stato di frequente reintrodotto per
riaffermare la diversità tra le due culture e per contrastare quella imperialistica
dell’occidente
13
.
La donna velata, in questi Paesi, è considerata simbolo della cultura orientale e della
sua purezza.
In realtà sono molte le ragioni per cui una donna indossa il velo.
La difficoltà maggiore sta nello stabilire quando la donna sceglie liberamente di
indossarlo e quando invece vi è costretta
14
.
Oltre a questo tipo di valutazioni occorre notare che spesso il velo viene usato come
indicatore visibile dell’estremismo religioso, associato al fondamentalismo
15
e al
proselitismo
16
, visti tutti e tre come una minaccia alla tradizione giudeo – cristiana.
10
Sul concetto di “guerra santa” o jihad vedi J. Rehman, Islamophobia after 9/11: international terrorism, Sharia and
Muslim minorities in Europe – the case of UK, European Yearbook of minority issues, 2004, p. 220 – 225.
11
Vedi C. El Hamel, Muslim diasporas in western Europe: the Islamic headscarf, the media and Muslim integration
in France, Citizenship studies, 2002, p. 293 – 308
12
Vedi Q. Mirza, Islamic feminism, possibilities and limitations, in J. Strawson, Law after ground zero, Londra,
GlassHouse Press, 2002, p. 108 – 122
13
Come ad esempio in Egitto e in Iran
14
Vedi F. Shaheed, Controlled or autonomous: identity and the experience of the network: women living under
Muslim laws, Signs: journal of women in culture and socity, 1994, 997 – 1019
15
Il termine “fondamentalismo” è spesso usato un maniera eccessiva ed ambigua. Esso viene associato ad una
modalità di espressione del proprio credo chiusa, che spesso diventa violenta. Su questo vedi J.S. Nielsen, Towards
a European Islam, Basingstoke, Palgrave, 1999, p. 95
16
Vedi B. Chelini – Pont, Religion in the public sphere: challenges and opportunities, Brigham Young University
Law Review, 2005, p. 611 – 627
Il riemergere della pratica di indossare il velo è spesso anche visto come un
fallimento delle politiche di integrazione o assimilazione degli immigrati.
Molti Paesi europei assistono negli ultimi anni ad un forte incremento della
popolazione di fede musulmana
17
.
La gestione di questo fenomeno cambia da Paese a Paese in base soprattutto
all’origine degli immigrati, alla tradizione coloniale, al più o meno forte sentimento
di identità nazionale, al fatto che esistano credi riconosciuti dallo Stato o strutture che
regolino i rapporti tra Stato e Chiesa, all’esistenza di norme costituzionali che
regolino i rapporti con i culti, nonché alle politiche riguardanti gli immigrati
18
.
Gli Stati europei hanno adottato politiche migratorie differenti. E’ già differente il
concetto di integrazione da quello di assimilazione dello straniero
19
.
In ogni caso è possibile affermare che sono ancora molti gli Stati con difficoltà di
integrazione e questa situazione contribuisce molto all’aumento di episodi di
discriminazione e di islamofobia
20
, di emarginazione e di esclusione
21
.
In questo clima la paura dello straniero necessariamente aumenta e il velo viene visto
non solo come un simbolo religioso, ma anche e soprattutto come il segno della
mancata volontà degli immigrati di integrarsi.
Dopo gli attentati dell’11 settembre 2001 negli Stati Uniti
22
e quelli in Spagna e in
Gran Bretagna
23
, ha subito un forte aumento l’equazione tra Islam e terrorismo.
La possibile relazione tra religione e diritti umani diventa così interessante, ma
complessa
24
.
17
Vedi G. Nonneman, T. Niblock e B Szajkowski, Muslim communities in the new Europe, Reading, Ithaca, 1997
18
Vedi B. Alvarez – Miranda, Muslim communities in Europe, recognition of religious difference in Britain, Germany
and France, Working paper, Complutense University, Madrid, http://www.umich.edu
19
Vedi la Commissione Europea, Synthesis report on national integration policies, Communication on immigration,
integration and employment COM, 2003, p. 336
20
Vedi H. Muir, L. Smith e R. Richardson, Islamophobia: issues, challenger and action, Stoke, Trentham Books,
Commission on British Muslims and Islamophobia, 2004
21
Op. cit. n°17, p. 7
22
Dopo gli attacchi dell’11 settembre 2001 fecero il giro del mondo le immagini di una donna palestinese che
festeggiava la riuscita dell’attentato. E’ interessante vedere come dopo gli attentati negli Stati Uniti sia aumentato il
numero di persone che si sono convertite all’Islam
23
Dopo gli attentati si consigliò alle ragazze di non indossare il velo a scuola per proteggere la loro incolumità da
attacchi fisici e verbali
24
Vedi S. Marks e A. Clapham, International Human Rights Lexicon, Oxford, oxford University Press, 2005, p. 309 –
326
C’è che sostiene che la libertà di religione sia di sostegno alla democrazia e ad una
cultura basata sul rispetto dei diritti umani e sull’accettazione dell’altro
25
.
Altri invece vedono la religione come responsabile di secoli di oppressione, di
conflitti e di violenze.
La libertà di religione è senza dubbio uno dei diritti fondamentali riconosciuti
all’uomo. Il fatto che sia un diritto riconosciuto e protetto ci indica che dal XVI
secolo in poi questa libertà ha subito progressivamente delle limitazioni.
La libertà di religione è tutelata ad esempio dall’art. 18 del Patto internazionale sui
diritti civili e politici che recita:
“1. Ogni individuo ha diritto alla libertà di pensiero, di coscienza e di religione. Tale
diritto include la libertà di avere o di adottare una religione o un credo di sua
scelta, nonché la libertà di manifestare, individualmente o in comune con altri, e
sia in pubblico sia in privato, la propria religione o il proprio credo nel culto e
nell'osservanza dei riti, nelle pratiche e nell'insegnamento.
2. Nessuno può essere assoggettato a costrizioni che possano menomare la sua
libertà di avere o adottare una religione o un credo di sua scelta.
3. La libertà di manifestare la propria religione o il proprio credo può essere
sottoposta unicamente alle restrizioni previste dalla legge e che siano necessarie
per la tutela della sicurezza pubblica, dell'ordine pubblico e della sanità pubblica,
della morale pubblica o degli altrui diritti e libertà fondamentali.
4. Gli Stati parti del presente Patto si impegnano a rispettare la libertà dei genitori e,
ove del caso, dei tutori legali di curare l'educazione religiosa e morale dei figli in
conformità alle proprie convinzioni.”
Questo articolo garantisce il diritto di manifestare il proprio credo sia in pubblico che
in privato.
Ma è stato spesso usato dalle istituzioni alle ragazze di togliersi il velo a scuola a
propria difesa perché al n. 2 e al n. 3 stabilisce che possano esserci delle restrizioni
riguardo la libertà di espressione del proprio credo per motivi di ordine pubblico.
25
Vedi J. Clifford Wallace, Challenger and opportunities facing religious freedom in public square, Brigham Young
University Law Review, 2005, p. 597 – 610
Anche dall’Art. 9 CEDU si occupa di libertà di religione:
1. Ogni persona ha diritto alla libertà di pensiero, di coscienza e di religione; tale
diritto include la libertà di cambiare religione o credo, così come la libertà di
manifestare la propria religione o il proprio credo individualmente o
collettivamente, in pubblico o in privato, mediante il culto, l’insegnamento, le
pratiche e l’osservanza dei riti.
2. La libertà di manifestare la propria religione o il proprio credo non può essere
oggetto di restrizioni diverse da quelle che sono stabilite dalla legge e che
costituiscono misure necessarie, in una società democratica, alla pubblica
sicurezza, alla protezione dell’ordine, della salute o della morale pubblica, o alla
protezione dei diritti e della libertà altrui.
In questo elaborato cercherò di analizzare i differenti approcci di più Stati, europei e
non, diversi per cultura, storia e tradizione,sulla questione del velo islamico e del suo
utilizzo all’interno delle scuole.