2
“Il CRM (Customer Relationship Management) è l’insieme di strategie
attraverso le quali l’impresa può costruire, mantenere, sviluppare e, se
necessario, interrompere relazioni stabili, leali, cooperative e profittevoli con i
propri clienti.”
Altre definizioni sono raccolte in una tabella posta in coda all’introduzione.
Esaminandola il lettore potrà rendersi personalmente conto di quanto ho già affermato e
cioè di come il termine sia usato di volta in volta con accezioni diverse.
Il resto del capitolo è strutturato come segue: innanzituttò descriverò in modo
abbastanza sintetico l’evoluzione del marketing, dalle sue origini fino all’emergere del
nuovo “paradigma” del marketing relazionale. Sempre nell’ambito di questa prima parte
illustrerò i fattori che hanno determinato la crisi del marketing classico, basato sul
marketing mix management e l’approccio puramente transazionale.
Nella seconda parte esaminerò approfonditamente il concetto di “marketing
relazionale”, presentando anche una rassegna delle principali prospettive di studio e
analisi del costrutto.
Infine, nella terza parte (la più importante), elencherò le determinanti dell’orientamento
relazionale, spiegando cioè perché stabilire delle relazioni solide (in particolare con i
clienti) sia così importante nell’attuale ambiente competitivo.
Riquadro 1.1: definizioni alternative di CRM e RM a confronto
Fonte Definizione
Gummesson (2002, p. 3) “relationship marketing is marketing
based on interaction within networks of
relationships”
Berry (1983, p. 25) “relationship marketing is attracting,
mantaining and, in multi-service
organizations, enhancing customer
relationships”
Jackson (1985a, p. 165) “relationship marketing is marketing to
win, build and maintain strong lasting
3
relationships with industrial customers”
Ballantyne (1994, p. 3) “an emergent disciplinary framework for
creating, developing and sustaining
exchanges of value, between the parties
involved, whereby exchange relationships
evolve to provide continuous and stable
links in the supply chain”
Morgan e Hunt (1994, p. 22) “relationship marketing refers to all
marketing activities directed to
establishing, developing, and mantaining
successful relational exchanges”
Sheth e Parvatiyar (2000, p. 9) “(RM is) the ongoing process of engaging
cooperative and collaborative activities
and programs with immediate and end-
user customers to create or enhance
mutual economic value at reduced cost.”
Ronchi (2003, p. 13) “siamo in presenza di un sistema CRM
quando l’azienda è dotata di un sistema
informativo che registra in modo
organizzato tutti i contatti clienti e
potenziali clienti, immagazzina le
informazioni e le utilizza pe ritagliare
offerte mirate a segmenti di clienti…”
PricewaterhouseCoopers (1999, p. 12) “CRM is a business strategy, an attitude to
employees and customers, that is
supported by certain processes and
systems. The goal is to build long-term
relationships by understanding individual
needs and preferences, and in this way add
value to the enterprise and the customer”
4
2. Nascita e declino del marketing transazionale:
Il marketing nasce (come discpilina accademica perlomeno) nei primi anni del XX°
secolo
1
. In particolare i primi corsi universitari esplicitamente dedicati a questa materia
furono offerti dalla University of Michigan e dalla Ohio State University,
rispettivamente nel 1902 e nel 1906. Tuttavia quei corsi trattavano una materia che noi
oggi faticheremmo a definire “marketing” tanto erano diversi i contenuti
2
. Ne consegue
che le due date proposte non costituiscono un valido riferimento temporale…
Nel 1954 Peter Drucker, un celebre economista americano di origini austriache pubblicò
“The Practice of Management”, un “manuale” in cui affermava che un’impresa ha due
obiettivi fondamentali: innovare e soddisfare il cliente, a patto di ottenere un profitto
[Brannback, 1999]. Questa definizione si avvicina molto a quella, oggi dominante, di
Philip Kotler, secondo il quale “marketing is meeting needs at a profit”. Non a caso
Drucker viene considerato il padre accademico del marketing.
La soddisfazione del cliente e il suo inevitabile presupposto, l’analisi dei suoi bisogni e
delle sue aspettative, costituiscono ancora oggi il principio cardine del marketing.
Un altro step fondamentale per lo sviluppo del marketing si ebbe grazie a Borden che
nel 1964
3
introdusse il marketing mix, uno dei concetti dominanti del marketing
moderno. Data una lista di “ingredienti”, cioè gli strumenti tattici a disposizione
dell’impresa, quest’ultima può influenzare la domanda attraverso il loro corretto
dosaggio, realizzando cioè il mix più adatto a seconda dei propri obiettivi e
posizionamento. Del marketing mix esistono molte concettualizzazioni, la più diffusa
oggi è quella ideata da McCarthy negli anni ’60, cioè le famose 4P
4
.
1
Tuttavia Caratu [1987] sottolinea come forme primitive di marketing venissero praticate già nel 7'000
a.C..
2
Il contenuto delle lezioni riguardava soprattutto lo studio dei grossisti e dei dettaglianti e le
problematiche di carattere distributivo [Sheth e Parvatijar, 2000]
3
Troilo [1993] sottolineai come in realtà altri autori prima di Borden abbiano impiegato il termine
marketing mix. Tuttavia quella di Borden è il primo a formalizzare e a sistematizzare il concetto.
4
Cioè Product (caratteristiche del prodotto), Price (politiche di pricing), Promotion (comunicazione) e
Place (gestione degli aspetti legati alla distribuzione).
5
Curiosamente la concettualizzazione proposta dallo stesso Borden (articolata su 12
variabili anziché 4 come nel caso di McCarthy) non ebbe successo.
Tuttavia le proposte di Drucker, Borden, McCarthy e altri studiosi rimasero a lungo
perlopiù confinate sul piano puramente teorico. Le imprese (salvo rare eccezioni)
continuavano ad essere gestite secondo i vecchi “paradigmi”. Il marketing faticò ad
imporsi anche perché oggettivamente Drucker (e come lui molti altri autori) non si era
preoccupato di fornire delle indicazioni precise circa il come implementare la market-
orientation.
La sua era una trattazione teorica dell’argomento, non una roadmap destinata ai
manager. Questo portò a tutta una serie di errori nell’implementazione del marketing
concept [Felton, 1959] e fallimenti che di certo non giovarono alla sua popolarità. Al
contrario, il marketing fu eclissato da altre teorie di management (su tutte la
pianificazione strategica) fino alle seconda metà degli anni ’80 [Webster, 1994].
Questo è un ottimo esempio di come spesso l’invenzione di una teoria e la sua concreta
applicazione possano essere divise da un gap temporale molto ampio.
Lo schema sottostante illustra la nascita e l’evoluzione del marketing concept, di cui ora
parleremo in modo più approfondito.
Lo schema descrive un continuum, articolato in tre “stadi”. Fino alla fine degli anni ’50
la maggior parte delle imprese applicava uno dei tre orientamenti elencati nella parte
alta dello schema. Il marketing, come abbiamo visto, iniziò a far parlare di sé
A) Orientamento alla produzione
B) Orientamento al prodotto
C) Orientamento alle vendite
MARKETING (TRANSAZIONALE)
MARKETING RELAZIONALE
6
(soprattutto nel mondo accademico) verso la fine del decennio e soprattutto negli anni
’60 (almeno nell’accezione in cui noi lo interpretiamo oggi). Tuttavia, come già
sottolineato, il successo e la diffusione vera e propria arrivarono molto più avanti (non
esistono date precise naturalmente), indicativamente negli anni ’80. Verso la metà di
quello stesso decennio, si iniziò a notare l’emergere di un nuovo filone di studi,
soprattutto nei mercati industriali e nei servizi, denominato “marketing relazionale”.
Anche in questo caso le idee nascenti rimasero per un bel pezzo tali e non furono
applicate dalla gran parte delle imprese. Il marketing relazionale (e il CRM, cioè la sua
traduzione sul piano strategico e operativo) iniziarono ad essere recepiti e applicati dalle
imprese solo negli anni ’90, anche grazie alla diffusione di Internet.
Ma procediamo con ordine. Muovendoci dall’alto dello schema verso il basso,
incontriamo innanzitutto il cosiddetto “orientamento alla produzione” [Kotler et. al.,
1996]. Le imprese gestite secondo questo paradigma hanno principalmente un obiettivo
e cioè il contenimento dei costi di produzione. L’impresa parte cioè dal presupposto che
un basso prezzo di vendita (una diretta conseguenza dei bassi costi di fabbricazione) sia
alla base del successo del prodotto. Il classico esempio in questo senso è costituito dalla
Ford e in particolare dal celebre modello T. Tale modello esisteva in un’unica variante,
senza nessuna possibilità di personalizzazione o differenziazione (celebre la battuta di
Ford secondo cui il cliente poteva richiedere la macchina in qualsiasi colore, a
condizione che fosse nera). In questo modo Ford poteva sfruttare al massimo le
economie di scala. Non solo, Ford si preoccupò di rendere sempre più efficiente il
processo di produzione, ad esempio introducendo la catena di montaggio. Questo
permise all’impresa di contenere al massimo i costi e vendere una macchina che nel
1923 costava “solo” 500$. Per la prima volta nella storia una larga fetta della
popolazione poteva permettersi di acquistare una autovettura. Ford quindi si impossessò
di un mercato enorme e in crescita.
Tuttavia per rintracciare i limiti di questo orientamento basta spostare l’attenzione di
qualche anno più avanti. Il consumatore, complice il boom economico, iniziò a
manifestare interesse anche per le caratteristiche del prodotto e non più solo per il suo
prezzo [Valdani, 1992]. Molti concorrenti di Ford intravedendo un’opportunità in
7
questo mutamento, iniziarono ad offrire prodotti più innovativi e differenziati. Ford
invece rimase prigioniera della sua strategia e di conseguenza perse una significativa
quota di mercato.
Ovviamente in alcuni mercati la competizione si gioca soprattutto sul prezzo (una delle
4P) e di conseguenza un orientamento alla produzione potrebbe essere il più indicato ma
dimenticarsi delle altre variabili (le 3 “P” rimanenti insomma), come fece Ford, è
comunque pericoloso.
Scendendo di una riga troviamo il secondo paradigma e cioè “l’orientamento al
prodotto”. In questo caso l’impresa concentra tutta la sua attenzione sulla qualità e sulle
prestazioni del prodotto. Le aziende di questo tipo introducono continui miglioramenti e
più in generale sono estremamente focalizzate sugli “aspetti tecnologici”. Il rischio è
quello di perdere di vista i reali bisogni del cliente, illudendosi che prodotti sempre più
sofisticati e “performanti” siano il modo migliore per attirarlo. Questo “errore” è stato
descritto per la prima volta da Levitt [1960] in un ormai celebre articolo intitolato
“Marketing Myopia”. Un utile esempio è proposto da Valdani [1992]: Nel 1978
Polaroid, senza dubbio incoraggiata dallo straordinario successo ottenuto dalle sue
macchine fotografiche a sviluppo istantaneo, decise di introdurre sul mercato una
cinepresa con le stesse caratteristiche. Sebbene il prodotto (denominato “Polavision”)
fosse molto sofisticato, alla fine si rivelò in insuccesso drammatico. Questo perché
l’azienda, lasciandosi trasportare dalle opportunità offerte dalla tecnologia e
dall’innovazione, aveva perso di vista le esigenze dei consumatori che evidentemente
non erano interessati a questo tipo di prodotto.
Un’impresa market-oriented probabilmente non avrebbe commesso lo stesso errore
perché prima di lanciare sul mercato un prodotto così innovativo, avrebbe condotto una
ricerca di mercato per conoscere le esigenze e le aspettative del cliente (e analizzando i
risultati avrebbe certamente capito che per questo tipo di prodotto non c’era mercato).
Scendendo di un’altra riga incontriamo il cosiddetto “orientamento alle vendite”. In
realtà questo approccio spesso è combinato ai primi due. L’impresa in questo caso non
produce ciò che viene richiesto dal mercato (cosa che invece viene fatta dalle imprese
market-oriented) ma bensì cerca di vendere ciò che produce, “spingendo” il prodotto
8
verso il consumatore senza riguardo per le sue esigenze. In pratica le imprese di questo
tipo ritengono che i consumatori non acquisteranno il prodotto in quantità adeguate “a
meno che l’azienda non realizzi azioni di vendita su larga scala e non attivi
un’aggressiva campagna promozionale” [Kotler et. al., 1996]. Ovviamente in questo
approccio c’è un forte elemento di manipolazione. L’impresa ritiene che il cliente finirà
per apprezzare il prodotto acquistato, anche se questo non è costruito sulla base della
sue esigenze e/o se non ne ha realmente bisogno. Se questo non avviene il consumatore
finirà comunque per dimenticare la delusione in breve tempo. Il limite, al di là delle
considerazioni di carattere etico, sta nell’ultima affermazione: una ricerca realizzata dal
Warren Blanding Customer Service Institute dimostra quello che gli esperti di
marketing hanno sempre sospettato e cioè che un consumatore insoddisfatto
tendenzialmente riferisce la propria “brutta esperienza” a 10-11 persone. Il word-of-
mouth negativo così generato finirà per danneggiare gravemente l’azienda.
A questo punto possiamo compiere il primo vero “salto paradigmatico” e parlare della
marketing-orientation. Un’impresa market-oriented studia innanzitutto le esigenze, i
bisogni e le aspettative (comprese quelle non espresse o tacite) del consumatore e sulla
base di queste “plasma” l’offerta dell’impresa. Un’impresa market-oriented gestisce in
modo integrato diversi aspetti dell’offerta, senza focalizzarsi solo sul prezzo (è quanto
accade nelle imprese orientate alla produzione), sugli aspetti tecnologici (orientamento
al prodotto) o sulla promozione (orientamento alle vendite).
Le tre strategie elencate nella parte alta dello schema sono miopi e nel lungo periodo
finiscono per costituire un elemento di rigidità, un freno al successo dell’impresa. Il
marketing concept invece si limita a riconoscere l’importanza dei bisogni e della
aspettative del cliente finale e non prescrive un “ricetta” precisa (rigida) per il loro
soddisfacimento. Al contrario, elenca un ventaglio di strategie e strumenti tattici ai quali
l’impresa può attingere per costruire un mix che il mercato trovi irresistibile. In questo
modo la marketing-orientation si rivela più flessibile e può essere applicata in qualsiasi
mercato, ovviamento “dosando” le 4P in modo diverso a seconda delle esigenze. In un
settore caratterizzato da domanda debole, l’impresa potrebbe infatti sbilanciare il mix a
favore di un’attenzione particolare sugli aspetti promozionali. In un settore commodity,
9
in cui non vi è più spazio per la differenziazione, l’impresa potrebbe concentrarsi invece
sul prezzo (ad esempio ricorrendo all’offshoring). In un settore in cui il mercato mostra
una scarsa sensibilità al prezzo e si aspetta invece caratteristiche entusiasmanti (ad
esempio quello delle auto sportive di lusso), il maketing mix sarà caratterizzato da una
chiara predominanza dell’ingrediente Product.
Le 4P sono in definitiva 4 “leve” sulle quali l’impresa può agire per servire il mercato
meglio di quanto faccia la concorrenza.
Tuttavia anche la marketing orientation presta il fianco alle critiche. Innanzitutto una
teoria è efficace solo nella misura in cui la sua adozione garantisce dei risultati
reddituali superiori. Due ricerche in particolare hanno cercato di fare luce sulla
relazione tra market-orientation e performance d’impresa: quella di Narver e Slater
[1990] e quella di Jaworski e Kohli [1993]. In entrambi i casi i risultati non sono molto
convincenti. Narver e Slater usano una misura soggettiva della performance aziendale
chiedendo al management delle aziende coivolte nello studio di esprimere un loro
giudizio (utilizzando una “scala”) in merito al ROA (Return on Assets) dell’impresa.
Oltretutto agli interpellati non viene richiesto un giudizio assoluto ma solo un confronto
con i risultati della concorrenza. Gli autori minimizzano questo errore di fondo
5
sottolineando come “studi precedenti” abbiamo dimostrato una forte correlazione tra le
misure soggettive (cioè le dichiarazioni degli interpellati) e il corrispondente dato
oggettivo (un’affermazione che viene prontamente smentita dalla ricerca di Jaworski e
Kohli, come vedremo tra breve).
La ricerca empirica condotta da Jaworski e Kohli considera due misure della
performance d’impresa: innanzitutto, come nel caso del lavoro di Narver e Salter, viene
considerata una misura soggettiva (ai partecipanti viene chiesto di valutare la
performance generale d’impresa, sia in termini assoluti, sia rispetto ai concorrenti
principali). In secondo luogo gli autori adottano una misura oggettiva, rappresentata nel
caso specifico dalla quota di mercato. I risultati ancora una volta non sono affatto
incoraggianti e soprattutto smentiscono l’ipotesi fatta da Narver e Slater nella ricerca
5
È bene sottolinare come anche altre ricerche condotte sullo stesso tema condividano l’errore commesso
da Narver e Slater. Si veda, a puro titolo di esempio, Avlonitis e Gounaris [1995].
10
precedente. Viene cioè dimostrata una forte correlazione tra market-orientation e
performance, nel caso in cui questa venga misurata con l’indicatore “soggettivo”
(judgemental) ma non sembra che via sia una correlazione quando si adotta l’indicatore
oggettivo. Gli autori concludono affermando che probabilmente la market-share non è
una buona misura della performance aziendale e che soprattutto gli effetti della market-
orientation potrebbero essere visibili sono nel lungo periodo. Di conseguenza prendono
per buono il risultato “soggettivo”, basato sulle impressioni del management, e
accantonano l’altro.
I critici della marketing tradizionale pertanto sottolineano come il nesso tra adozione
della market-orientation da un lato e performance superiori dall’altro, sia ancora tutto
da dimostrare e come le ricerche empiriche dedicate all’argomento non siano
sufficientemente robuste [Cillo, 2004].
Tuttavia questa non è certo la critica più grave che si possa rivolgere al marketing anche
perché probabilmente il problema non risiede tanto nella mancanza di un nesso tra
market-orientation e performance (se così fosse ci troveremmo di fronte al più
clamoroso caso di “abbaglio collettivo” nella storia delle discipline economiche) quanto
piuttosto nell’incapacità delle ricerche finora svolte nell’evidenziarlo in modo
convincente.
Critiche più severe vengono invece rivolte al marketing mix
6
e in particolare al modello
delle 4P, giudicato semplicistico e ormai inadatto [Gronroos, 1994a e 1994b;
Gummesson, 2002; Van Waterschoot e Van den Bulte, 1992].
Le 4P, ideate da McCarthy, furono introdotte negli anni ’60 e si imposero subito come
uno dei concetti cardine del marketing. Anche la definizione di “marketing” presentata
dalla American Marketing Association (AMA) nel 1985 riconosce implicitamente il
loro ruolo.
7
Kent [1986] sottolinea come le 4P siano divenute “the holy quadruple…of
the marketing faith…written in tablets of stone”. Gronroos [1994a] evidenzia come il
6
Non vi sono dubbi sul fatto che la teoria del marketing “tradizionale” sia basato sul marketing mix
[Gronroos 1994a].
7
“Marketing is the process and executing the conception, pricing, promotion and distribution of ideas,
goods and services to create exchange and satisfy individual and organizational objectives”. I 4 termini
evidenziati in corsivo naturalmente corrispondono alle 4P del marketing.
11
modello delle 4P abbia rapidamente eclissato tutti gli approcci alternativi (che pure
esistevano…) per diventare di fatto il diktat dominante del marketing, una sorta di
dogma. In effetti qualsiasi testo universitario dedicato alla disciplina del marketing oggi
adotta la prospettiva di McCarthy, trattando i modelli alternativi (che perlopiù sono stati
dimenticati) al massimo con delle note a fondo pagina.
Quali sono i limiti del marketing mix e delle 4P? Gummesson [2002], uno dei pensatori
più influenti nel campo del marketing relazionale (di cui parleremo tra breve), sostiene
che il marketing mix sia un approccio che punta a “manipolare” il cliente. L’azienda
usa una serie di leve per persuadere il consumatore ad acquistare i suoi prodotti. Si
tratta insomma di “esercitare una pressione” sul consumatore, per convincerlo a
comprare.
8
Gummesson paragona il cliente ad un pesce e l’azienda ad un pescatore. In
quest’ottica il marketing mix diventa l’esca con cui l’azienda cerca di catturare il pesce.
L’attenzione dell’impresa non è rivolta tanto ai bisogni del pesce-cliente quanto alle
caratteristiche dell’esca-marketing mix. Questo ovviamente è un ribaltamento della
logica su cui il marketing concept dovrebbe basarsi…
L’autore sottolinea come questo atteggiamento probabilmente non rientrasse
originariamente nelle intenzioni degli inventori del marketing mix ma di fatto e ciò a
cui quest’ultimo ci ha portato.
Il marketing mix inoltre è stato ideato avendo in mente i beni di largo consumo
[Gummesson, 2002], cosa che lo rende poco efficace in altri contesti come i mercati
industriali e il settore dei servizi
9
. Vi furono dei tentativi di applicare il marketing mix
nel B2B e nei servizi, aggiungendo altre “P” o comunque presentando
concettualizzazioni “allargate” del marketing mix. Tuttavia questi tentativi erano una
forzatura e trasformarono la teoria del marketing mix in un patchwork confuso.
8
L’obiettivo del marketing relazionale, come vedremo tra breve, è quello di costruire relazioni stabili e
leali con i propri clienti, cercando di realizzare delle situazioni in cui entrambe le parti (consumatore e
impresa) ottengano un guadagno. (win-win).
9
Anche Troilo [1993] sottolinea come le specificità dei servizi abbiano reso necessario un ampliamento
del numero dei “parametri d’azione”. Le leve tradizionali del marketing insomma si rivelano insufficienti.
12
Gummesson usa una metafora interessante per illustrare questo concetto. Egli definisce
il marketing mix “un approccio procusteo”
10
. Questo approccio non è più in grado di
spiegare una grande varietà di fenomeni (primo fra tutti l’esistenza delle relazioni) ma
essendo ormai divenuto un “dogma”, si tende ad usarlo in ogni caso. Non si adatta la
teoria a cioò che viene osservato quotidianamente ma piuttosto si cerca di far rientrare la
realtà dentro la ristretta scatola del modello.
Gummesson propone di sostituire le 4P del marketing tradizionale con le 30R del
marketing relazionale (un tema che verrà affrontato nel prossimo capitolo).
Entrando più nello specifico, il modello delle 4P è stato aspramente criticato da Van
Waterschoot e Van den Bulte [1993] che in esso riscontrano due problemi
fondamentali: un primo punto debole del modello viene individuato nella categoria
Promotion, che secondo gli autori finisce per essere una sorta di “scatola” in cui
confluisce tutto quello che non può essere classificato sotto una delle altre 3 “P”. In
pratica questa categoria sarebbe una specie di voce residuale in cui vengono mescolati
aspetti legati alla vendita personale, alla comunicazione e alla promozione vera e
propria (oltretutto gli autori riscontrano delle sovrapposizioni con le altre “P”). In
secondo luogo van Waterschoot e Van den Bulte segnalano un problema evidenziato
anche da Gronroos [1994a] e cioè la mancanza di un riferimento esplicito all’interazione
tra le singole variabili che compongono il mix.
Infine Gronroos [1994a e 1994b] denuncia un effetto secondario legato all’adozione del
marketing mix: Le imprese che adottano questo modello tendono a pensare che il
marketing sia composto da una serie di attività chiaramente definite. Di conseguenza
una funzione (o divisione) viene incaricata di svolgere tali attività. Questo però
impedisce la diffusione dei principi della market-orientation nelle altre parti
dell’azienda (nessuno, se non i dipendenti della funzione in causa, pensa più al
marketing nella convinzione che quel “lavoro” sia incarico di altri). Il marketing però è
una cultura aziendale, una filosofia che deve permeare tutta l’azienda, non un’attività a
sé stante. Di conseguenza trattare il marketing come una semplice funzione
10
Procusteus era un ladro greco che offriva ospitalità ai viaggiatori di passaggio, a patto che la loro
altezza fosse pari esattamente a quella del letto in cui avrebbero dormito. In caso contrario i malcapitati
venivano amputati se troppo alti oppure “allungati”, usando la ruota di tortura, se troppo bassi.
13
organizzativa (e secondo Gronroos questo atteggiamento è incoraggiato dalla
prospettiva, dominante, del marketing mix) ostacola la formazione di una vera market-
orientation.
Il grande successo del marketing mix e in particolar modo delle 4P è dovuto, secondo
Gronroos [1994a], unicamente alla loro semplicità e quindi ai loro meriti “pedagogici”
che rendono questo approccio facile da memorizzare e insegnare.
Un altro rischio in cui le imprese marketing-oriented spesso incorrono consiste nella
perdita della capacità di innovare. Il marketing concept, con la sua focalizzazione sui
bisogni e sulle aspettative della clientela, rischia di trasformarsi in una strategia di
pedissequo adattamento dell’offerta alle richieste del mercato. I clienti nella maggior
parte dei casi non sono in grado di immaginare prodotti realmente innovativi
Interrogandoli in merito alle loro aspettative, l’impresa al massimo potrà ricavare degli
spunti per realizzare piccole innovazioni incrementali [Valdani, 1992]. Valdani [1992]
elenca le tre principali ragioni che limitano il contributo del consumatore in termini di
“apporto conoscitivo”:
1. I consumatori non sanno immaginare prodotti rivoluzionari perché la percezione
dei loro bisogni è “ristretta al già conosciuto e ai prodotti a cui essi possono
riferirsi”. Se una casa di moda dovesse interrogare i propri clienti in merito alle
loro aspettative sulla prossima collezione, probabilmente finirebbe per disegnare
una serie di abiti molto simili a quelli della stagione in corso. In casi come
questo l’approccio marketing driven potrebbe non rivelarsi molto adatto.
2. I consumatori spesso non sono in grado di esprimere le loro preferenze. Questo
ci riporta al problema della conoscenza tacita, contrapposta a quella esplicita o
comunque esplicitabile. In altre parole i consumatori frequentemente non sono
in grado di articolare “a parole” i propri desideri, per carenze “lessicali”
(potrebbero non conoscere la terminologia del adatta) oppure perché non sanno
cosa sia tecnologicamente possibile. Alcune tecniche di ricerca, come l’empathic
14
design (mutuata dagli studi antropologici), puntano ad aggirare l’ostacolo,
studiando il cliente mentre utilizza il prodotto e cercando di individuare i
problemi incontrati nell’uso (compresi quelli che il cliente non sa o non vuole
esprimere a parole) e gli eventuali spazi di miglioramento.
3. Infine occorre sottolineare come i bisogni del cliente siano in continua
evoluzione (alcuni consumatori poi sono più volubili di altri). Il prodotto
plasmato sulla base dei bisogni espressi dal mercato in un dato momento,
potrebbe non essere più attuale al momento del lancio commerciale, pochi mesi
più tardi.
Questi limiti possono essere superati osservando due comportamenti: per prima cosa
l’impresa dovrebbe bilanciare l’innovazione guidata dal mercato (market-driven) con
l’innovazione guidata dalla tecnologia e dalla ricerca interna [Cillo, 2004].
In secondo luogo l’impresa dovrebbe preoccuparsi di costruire relazioni stabili e
cooperative con una vasta schiera di soggetti: università, centri di ricerca, concorrenti
(co-opetition), lead users, ecc.
11
(il marketing tradizionale non si preoccupa delle
relazioni, a differenza di quello relazionale).
Veniamo ora al limite più importante del marketing tradizionale e cioè la sua natura
intrinsecamente “transazionale” (da questa constatazione discende il titolo del presente
capitolo, “nascita e declino del marketing transazionale”). Riprendiamo la definizione di
“marketing” offerta dalla AMA [1985]:
“Marketing is the process of planning and executing the conception, pricing
, promotion and distribution of ideas, goods and services to create
exchange and satisfy individual and organisational objectives"
11
L’importanza di queste e altre relazioni verrà studiata nel proseguimento del lavoro.